C inque bambini in uniforme giocano a spararsi in un bosco. Due di loro, bambine, si fronteggiano in un duello ritualizzato, cinematografico. Fin qui, nulla di allarmante. Se non che, al posto delle mani piegate a forma di pistola, hanno vere rivoltelle. Fanno fuoco: una delle due muore e, spirando, cita Baudelaire (“I have more memories than if I was a thousand years old”), ma niente melodramma. Nessuno, neanche lei, mostra la minima emozione, nulla turba la serietà impacciata dei volti. Sembrerebbe una scadente operetta parrocchiale, non fosse per il sangue. Poi esplode il sonoro – è il Kyrie della Messa in si minore (BWV 232) – e s’impone l’aura densa del sacrificio, il sigillo sacrale che respinge lo spettatore oltre la balaustra, o meglio l’iconostasi, dello schermo. Salvo che non sia una farsa ai danni di chi guarda. I bambini si allontanano con passo indifferente, le mani in tasca, l’amichetta morta caricata in spalla.
Lo sguardo ironico e straniante, il gioco con l’assurdo e il surreale, la freddezza assoluta, l’uso sapiente e spericolato di contrasti, ossimori, antifrasi tra il visivo, il sonoro e il concettuale, l’esplorazione disincantata della crudeltà, la recitazione meccanica, depersonalizzata, quasi imbarazzata, l’ottundimento da benzodiazepine, una certa metafisica fissità. Non sarà difficile riconoscere nei due minuti scarsi di Necktie, cortometraggio del 2013, gli stilemi del regista greco Yorgos Lanthimos (1973), qui condensati e cristallizzati ben prima del successo internazionale: quello delle dieci candidature agli Oscar con La favorita (2018) e, in settembre, il Leone d’oro per Poor Things. Quello, insomma, che con quegli stilemi e i temi che veicolavano ha davvero poco a che vedere.
Osannato dal pubblico in sala all’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia, strafavorito dalla critica, celebrato ai Golden Globes, Poor Things racconta la storia di Bella (Emma Stone), una giovane donna montata in laboratorio dallo scienziato pazzo Godwin Baxter (Willem Dafoe) a partire dal cadavere di una suicida e dal cervello della bambina non ancora nata che portava in grembo al momento del decesso. Bella vive al riparo dal mondo esterno come un’eccentrica adulta-bambina senza tabù o inibizioni, mentre la dissonanza fra il suo cervello infantile e il corpo adulto e la rapidità del suo apprendimento sono oggetto d’interesse non solo scientifico da parte dell’assistente di Baxter, Max McCandless (Ramy Youssef), che di lei s’innamora e la chiede in sposa. Il desiderio della ragazza di fuggire dalla clausura per scoprire il mondo e la sempre più urgente esigenza di fare esperienze sessuali pur nel proibitivo contesto fanta-vittoriano la spingono invece ad accettare le lusinghe del libertino Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), che la brama come giocattolo sessuale. Nel grand tour in cui questi la trascina, Bella, che scopre il mondo senza nozioni preconcette, apprende però non solo il piacere ma anche il bene e il male, e si prepara a tornare a casa come persona e non più come oggetto.
Lanthimos fino a non molto tempo fa esplorava il confine tra finzione e realtà, nella constatazione che in un caso come nell’altro ci si muove sempre e soltanto fra simulacri e simboli, metafore e allegorie.
Un po’ Frankenstein, un po’ Casa di bambola, un po’ Lolita, con qualcosa dell’immaginario goth di Tim Burton e un lieto fine talmente allegro – con tanto di compiaciuta punizione del cattivo, come nel concertato finale del Don Giovanni – che ha più a che fare con la soluzione moraleggiante delle fiabe disneyane che con l’universo ambiguo, algido e scosceso per cui Lanthimos era noto fino a non molto tempo fa: quello che esplorava senza compromessi il confine tra finzione e realtà, nella constatazione che in un caso come nell’altro ci si muove sempre e soltanto fra simulacri e simboli, metafore e allegorie. Con il rischio di scoprire che tra le due cose non c’è alcuna distinzione e nessuno può diventare chi è, perché nessuno è qualcuno.
Se l’assenza di tutto ciò fa di Poor Things il suo lavoro più digeribile, pop, adatto a un pubblico in cerca di catechismi e storie della buonanotte, lo rende anche, proprio per questo, il più convenzionale dei suoi film e persino il più banale. È un tradimento, un’evoluzione, un adeguamento allo Zeitgeist, o semplicemente un’altra cosa?
La realtà, lingua morta
Il rapporto di imitazione, sostituzione e scontro fra realtà e finzione, o tra finzioni e finzioni ulteriori finora era stato indagato molto approfonditamente. Kynodontas (2009) vede il tentativo di passaggio dalla finzione della messinscena inconsapevole a una realtà insperata per il tramite di un’altra finzione. In Alps (2011) c’è il moto opposto di fuga dalla realtà nella finzione della messinscena. In The Lobster (2015), primo lungometraggio in inglese, c’è l’ingresso di qualcosa che sembra vero, ossia l’amore, all’interno di un quadro dove tutto è ipocrita e forzato. Ne Il sacrificio del cervo sacro (2017), infine, un elemento inverosimile irrompe nel quadro verosimile per mostrarne l’inconsistenza e affermare la sola verità, quella arcaica e mitica della tragedia.
Già compendiata nel suo primo lungometraggio, Kinetta (2005), era l’inesauribile sostituzione dei simulacri al posto delle cose. Qui, tre sconosciuti si prestano alla ricostruzione amatoriale e priva di scopo di scene violente, riprese senza emozione, partecipazione né talento. Li vediamo recitare goffamente in inquadrature a tutta grandezza in cui i gesti si perdono nello squallore dell’ambiente circostante – una località greca balneare svuotata di turisti, di cui rimane uno scheletro di strade, parcheggi deserti e orribili megaliti in cemento armato, sintomo dello stato del reale e non solo dell’economia. L’uomo che s’improvvisa regista e interpreta l’assassino telecomanda ogni gesto della ragazza nel ruolo della vittima come se attraverso la ripetizione ossessiva cercasse di penetrare il mistero della violenza.
‘Poor Things’è un tradimento, un’evoluzione, un adeguamento allo Zeitgeist, o semplicemente un’altra cosa?
Tutto, però, è talmente calcolato da perdere ogni vita, talmente sovraccaricato d’intenzionalità da esaurirla e ritornare paradossalmente al grado zero del significato. Dialoghi e azioni si slegano dalla concatenazione: la loro recitazione non sublima la realtà, ma la mette in luce come qualcosa di inottenibile, vagamente approssimabile, una lingua morta. E la finzione in cui i tre s’immergono si rivela la fuga dalla mediocrità impersonale delle loro vite in qualcosa che dovrebbe, sulla carta, suscitare in loro l’ombra di un’emozione, e produce invece il risultato opposto di trasformare il reale nelle sue sbiadite imitazioni.
Dall’opaca indifferenza che la violenza non smuove si passa, con Kynodontas (dente canino), al mondo crudo e straniante di tre fratelli privi di nome, confinati in casa dai perversi genitori che li costringono a una forma di infanzia senza fine, meticolosamente architettata per tenerli al riparo dalla corruzione esterna. Non bastano le alte barriere che circondano la loro grande casa fuori città: tutta la realtà viene filtrata da una risignificazione del linguaggio surreale e quasi comica che consente la costruzione di un universo di finzione, un grande e assurdo gioco d’immaginazione in cui i tre vivono fuori dal mondo. Credono così di starsi addestrando per sopravvivere nel mondo al di là, dove non possono avventurarsi prima di aver concluso l’apprendistato, evento segnato dalla caduta e dalla ricrescita di un canino (sintomo che si è grandi abbastanza per tollerare la tossicità dell’aria esterna). Nel mentre, si sfidano a inutili prove di resistenza, mutilano bambole, trucidano gatti – temibili predatori di carne umana nella loro mitologia – e la sera intrattengono i compiaciuti genitori.
Il film mostra tre bambini disturbati nel corpo di giovani adulti che si muovono all’interno dell’unico sistema che conoscano, fatto di sadiche punizioni e vacue ricompense, con tutta la perturbante assurdità che ciò comporta. Lanthimos costringe a una dissacrante lezione di anatomia sul cadavere dell’infanzia, possibile proprio grazie all’atroce straniamento che suscita il vederne proiettati comportamenti e fantasie in tre creature artificiali dagli incestuosi corpi fuori tempo che pensano che l’autostrada, il mare e il telefono siano rispettivamente un vento, un tipo di poltrona e la saliera.
È come se il regista riducesse i rapporti umani alle strutture più elementari e li analizzasse nella lora arida purezza formale, operazione che consente al tempo stesso, una volta che sia stato rimosso tutto ciò che è colore ed espressione, di catturarne l’assurdità. Il mondo di Lanthimos non è altro dal nostro, ma una sua sub-realtà, un reale osservato su frequenze differenti da quelle ordinarie, normalmente invisibili all’occhio umano e per questo perturbanti. Ma al tempo stesso è una lettura che non risparmia di denunciare le infinite trappole della finzione, da cui sembra impossibile uscire.
Il mondo di Lanthimos non è altro dal nostro, ma una sua sub-realtà che, al tempo stesso, non risparmia di denunciare le infinite trappole della finzione da cui sembra impossibile uscire.
Quando la donna impiegata dal padre come visitatrice regolare per consentire al figlio maschio di sfogare gli istinti sessuali cede alla più grande alcune videocassette proibite (Rocky IV, Lo squalo, Flashdance), la famiglia viene irrimediabilmente destabilizzata. Guardandole fino a impararle a memoria al modo dei bambini, ma priva degli strumenti linguistici e contestuali per dare un senso a ciò che vede, la ragazza finisce per imitarne angosciosamente i personaggi. L’attrito fra i due livelli di finzione produce quel sovrappiù che è l’istanza personale, l’unicità del singolo, che si manifesta innanzitutto nella volontà di avere un nome, come i personaggi dei film che fungono da specchio e per la prima volta le fanno intravedere qualcosa oltre le siepi.
L’imitazione e la finzione come orizzonti invalicabili tornano in Alps, dove un improbabile quartetto offre uno strano servizio a pagamento di classica memoria: sostituiscono i cari morti per chi ne piange il lutto, prestandosi alla rievocazione di alcuni episodi in una sorta di perversa coazione a ripetere. Si fanno chiamare Alpi per una “ragione simbolica”: le cime delle Alpi sono talmente iconiche che non possono essere sostituite nell’immaginario da nessun’altra montagna, che si rivelerebbe inadeguata in questo senso, ma proprio per questo le vette alpine possono sostituire qualsiasi montagna. Tuttavia, come c’è da aspettarsi per via dell’inespressività monocorde che caratterizza il cinema di Lanthimos, la sostituzione che mettono in atto è goffa ai limiti dell’impresentabilità, e innanzitutto perché i quattro, nell’ossessività compassata delle loro interpretazioni dozzinali, si fissano su dettagli caricaturali e manierismi meccanici, nulla che dia un’indicazione di personalità o significato, come se della vita assente si potesse fare solo una stenografia approssimativa. Poi, una di loro – vuoto simulacro, assuefatta alla finzione, disabituata all’immediatezza – si perde nella parte della ragazza che sostituisce, ma la vita che non le appartiene e in cui cerca scompostamente di inserirsi la rifiuta non meno che la propria, anonima e insignificante come quella di tutti.
Replicanti e simulacri
Dopo gli esordi nell’estetica austera e respingente del Dogma 95 – forse più per assenza di finanziamenti che per adesione al voto di castità di Lars von Trier e Thomas Vinterberg – e dopo aver stabilito stile e toni della cosiddetta new wave greca, i grandi budget delle produzioni internazionali hanno permesso maggiori ambizioni formali e narrative. Nella fase in lingua inglese, la creazione di mondi fittizi e l’effetto di straniamento e rottura dei paradigmi di realtà arrivano quindi a mettere sullo schermo quel meccanismo essenziale del fantastico che è la presa alla lettera della metafora: la trasformazione del simbolo in immagine analogica e concreta, significante ma mai pienamente decifrabile, che sovverte le leggi quotidiane e genera un senso d’impenetrabile mistero.
Il mondo di The Lobster, copia metafisica del nostro, è un fulgido esempio del meccanismo. Qui, il controllo sociale ha raggiunto un livello di organizzazione totalitaria dell’esistenza tale per cui l’unica forma di vita accettata è quella di coppia. Il presupposto è ormai pop culture: chi non riesce a trovare un nuovo partner viene trasformato in animale. Colin Farrell interpreta David, uomo di mezz’età che, nel caso, vorrebbe diventare un’aragosta: è longeva, fertile per tutta la vita e ha il sangue blu “come gli aristocratici”, ma allo spettatore accorto ricorda l’aragosta totem del surrealismo del Téléphone aphrodisiaque di Dalí, a sua volta in relazione sostitutiva con la cornetta del telefono, quindi con il pene.
Tramite le prove sadiche e strampalate a cui il riluttante protagonista si sottopone nell’imperativo di non ritrovarsi spaiato, Lanthimos mette alla berlina l’ideologia della coppia, costringendo alla domanda se un’unione costruita su presupposti di finzione sia davvero preferibile alla grigia verità della solitudine. Constatato il fallimento, David scopre quindi il mondo alternativo dei single disertori, che vivono in clandestinità nella foresta. Ma il loro modello non è meno atroce di quello che dicono di rifiutare, poiché, all’opposto, fra i dissidenti è punita con soluzioni efferate qualsiasi manifestazione d’intimità e d’intesa. In un mondo come nell’altro vige la medesima raggelante anaffettività.
Quel che è più lodevole, al di là dell’ovvia satira, sta appunto nella presa alla lettera delle metafore nella costruzione del mondo.
Quel che è più lodevole, al di là dell’ovvia satira, sta appunto nella presa alla lettera delle metafore nella costruzione del mondo. Tutti portano gli stessi vestiti perché nessuno è insostituibile. I single vanno letteralmente a caccia di single, stanandoli nei loro nascondigli e narcotizzandoli con dardi di Cupido avvelenati. Gli scapoli impenitenti si scavano letteralmente la fossa da soli. Per non parlare del non meglio spiegato principio metamorfico: si lascia addirittura intendere che tutti gli animali possano essere stati, un tempo, esseri umani a cui è stata data una seconda chance.
Oltre la sostituibilità, David scopre però l’affinità elettiva che passa per la somiglianza. Quello che unisce solitudini altrimenti inespugnabili sono i punti deboli, come, nel suo caso, la miopia. C’è chi forza i presupposti della compatibilità menomandosi o simulando bassamente, e chi, come lui, sembra sperimentare il vero amore come forza irrazionale e incontenibile, socialmente eversiva sia nel modello ufficiale, che pretende di dominarla, sia in quella dei ribelli che pretendono di poterne fare a meno. Ma non c’è happy ending: alla fine ritorna la domanda su cosa sia genuino e cosa invece debba essere forzato per tenere in vita un’unione, per quanto scritta nelle stelle.
L’indagine su sostituzione e analogia prosegue nel corto Nimic (2019). Matt Dillon interpreta un violoncellista al quale un giorno, in metropolitana, una sconosciuta chiede l’ora. Il gesto in apparenza insignificante spalanca una voragine di terrore metafisico, perché la sconosciuta lo pedina fino a casa, rivela di avere un mazzo di chiavi uguale al suo e di fronte alla sua famiglia imita ogni suo gesto, ogni parola. Il risultato, assurdo e spaventoso, è che la moglie e figli non riescono a dire chi sia il vero marito, il vero genitore.
L’esperienza del perturbante, questa volta, è prerogativa non solo dello spettatore ma anche del protagonista, che invano tenta di dimostrare di essere se stesso e si trova infine esiliato dalla sua stessa vita, sostituito malamente da un’inquietante sconosciuta e costretto a vagare fino a quando non troverà un malcapitato da sostituire a propria volta. È come se avesse fallito a interpretare la propria parte, o si fosse reso conto che in se stesso non c’era sostanza o era del tutto irrilevante, se anche una sconosciuta ha potuto prendere il suo posto. La sua identità altro non era che una maschera, ossia non era affatto, un’ambiguità che il titolo di questo lavoro sul motivo del doppio restituisce perfettamente: nimic è il niente in romeno, ma scontata è la rima con mimic (mimare).
Ifigenia in Cincinnati
Quelle che precedono la svolta mainstream sono opere polivalenti, dai numerosi significati, talmente enigmatiche e cariche di simboli da prestarsi facilmente alla divergenza delle interpretazioni: c’è chi nei suoi mimi grotteschi e nelle sue copie stentate ha visto una critica al capitalismo e alla società dello spettacolo, chi miti eterni presentati dal tragediografo greco del XXI secolo, chi discorsi e allegorie sul cinema stesso. Niente, in ogni caso, evidenzia la distanza di Poor Things dal mistero lanthimosiano come Il sacrificio del cervo sacro, che del regista è il più riuscito compromesso (finora) fra la tendenza allo strano e all’inquietante e l’orizzonte d’attesa di pubblico e critica. All’inizio doveva essere, per ammissione dello stesso regista, la storia di “un giovane che vuole sostituirsi all’adulto responsabile del suo dolore”. Nato, quindi, come racconto sulla sostituzione, è diventato un film su quel tipo particolare di sostituzione che è il sacrificio, in una conscia rielaborazione del portato mitico e tragico prima greco e poi cristiano (rivelatorio è l’uso dello Stabat mater, D. 383, di Schubert e della Passione secondo Giovanni, BWV 245, di Bach).
Il cardiochirurgo Steven Murphy (Farrell) abita il mondo asettico, impersonale e altamente ritualizzato dell’ospedale. Dopo il (vero) intervento a cuore aperto ripreso nella prima inquadratura, Steven si sfila camice, guanti e mascherina insanguinati e li getta nella spazzatura: ordinaria amministrazione post-operatoria, ma la solennità dei gesti è quella dell’officiante del sacrificio che sveste i paramenti e si libera degli scarti dell’uccisione rituale. Qualche tempo prima, un suo paziente è morto e ora, per senso di colpa, Steven incontra di nascosto l’orfano Martin (Barry Keoghan): lo porta a mangiare fuori, gli fa regali costosi, ma il ragazzo cerca un altro tipo di compensazione.
La catastrofe ha inizio quando Steven commette l’errore di invitarlo a casa propria per presentargli la sua perfetta famiglia americana. Prima Martin cerca senza successo di fare in modo che il medico prenda il posto di suo padre, riempiendo il vuoto da lui provocato. Quindi gioca la sua ultima carta, la più sconvolgente e inquietante: per un nesso causale che il film giustamente non sente il bisogno di elucidare, tutti e tre i membri della famiglia di Steven si ammaleranno di un morbo inspiegabile, inarrestabile e fatale, a meno che Steven non uccida uno di loro, in questo modo pareggiando i conti. Non c’è un prendere senza un dare, dopotutto. E forse non è giusto (fair) di per sé, spiega Martin a Steven, ma approssima la giustizia (justice).
Cosa resta dallo scontro fra il processo di sostituzione e l’unicità, destinata all’irripetibilità e al dolore dell’effimero? È una delle questioni vertiginose del cinema di Lanthimos.
Quella a cui dà voce è una legge antica e oscura, che si esprime per speculum in aenigmate, in misteri figurati e figurali che Steven non sa leggere. È il tentativo di ripristinare l’ordine perduto con la prima uccisione: non potendo invertire la freccia del tempo, solo il sangue riscatta il sangue versato. È questa la verità mitica e arcaica che Lanthimos fa precipitare prepotentemente all’interno del contesto razionalistico e modernissimo in cui si svolge la storia, presentandola al tempo stesso come un ritorno del rimosso, tanto più intuitivamente vero quanto più inaccettabile. I tentativi di trovare una spiegazione biomedica si impantanano nel pleonasmo della psicosomatica. D’altronde, Freud (Das Unheimliche) ricorda come il mistero del sintomo corporeo nel disturbo mentale sia analogo al mistero della partecipazione del ‘caso’, ossia la realtà extramentale, in quelle che si definiscono coincidenze per convenienza e timore, per non chiamarle presagi.
Tutto si gioca sapientemente sull’indifferenziazione originaria, e dunque sulla sostituibilità, tra omicidio e sacrificio su cui è costruita la tensione che anima la tragedia greca. È stato notato come nell’Ifigenia in Aulide la terminologia sia quella dell’omicidio più che del sacrificio, benché di quest’ultimo si tratti, mentre nell’Agamennone di Eschilo, che ha per soggetto un assassinio, il lessico è sacrificale. Non per nulla il titolo originale del film è The killing of a Sacred Deer, in cui si scorge anche il riferimento all’Ifigenia in Tauride, in cui Euripide immagina che all’ultimo Artemide sostituisca la ragazza sull’altare con una cerbiatta che viene uccisa al posto suo (solo per far sì che Ifigenia diventi, una volta cresciuta, la sacerdotessa che contro la sua volontà sovrintende al sacrificio). E la figlia Kim si propone all’“empio padre” in qualità di capro espiatorio proprio perché a scuola ha studiato queste storie.
Inesausto, infine, è anche in questo film il processo di imitazione e sostituzione che regge i rapporti umani (i figli che imitano ingenuamente i genitori, Martin che imita Steven). La moglie Anna (Nicole Kidman) si pone la domanda che qualunque moderno opporrebbe alla logica del sacrificio: perché a pagare dev’essere un innocente, e oltretutto con la propria vita? La risposta di Martin nella scena del piatto di spaghetti sembra un non sequitur solo se non si è colto questo aspetto, in sintonia con i film precedenti: c’era qualcosa che il ragazzo pensava fosse un tratto unico che aveva in comune soltanto con il padre, per poi scoprire che non era niente di speciale né di caratterizzante – scoperta più dolorosa della stessa morte del padre. Il singolo scopre la propria (presunta) unicità per sostituzione e analogia con gli altri, ma cosa resta dallo scontro fra il processo di sostituzione e l’unicità, destinata all’irripetibilità e al dolore dell’effimero? È una delle questioni vertiginose del cinema di Lanthimos. Almeno fino a un certo punto.
Lanthimos essoterico
Torniamo così a Poor Things. Che è l’adattamento – o meglio la semplificazione – sul grande schermo dell’omonimo romanzo dello scozzese Alasdair Gray del 1992. L’originale è costruito sull’espediente canonico del manuscrit trouvé, alimentato e ulteriormente complicato, con gusto postmoderno, da un palinsesto di punti di vista intrecciati che si contraddicono l’un l’altro in una sorta di elevazione a potenza del meccanismo del narratore inaffidabile.
Così, il resoconto di Wedderburn viene corretto dal diario di Bella Baxter, riportato però all’interno del racconto di McCandless, che è infine smentito dalla lettera di sua moglie Bella/Victoria. E tutto questo si regge sulla mise en abyme della ricostruzione storica da parte dell’autore Alasdair Gray (o meglio il suo alter ego), il quale, nella cornice metanarrativa, ritiene veritiera la versione fantastica di McCandless a scapito di quella realistica di Bella/Victoria, pur specificando, in apertura, che un suo amico, il “vero” artefice del ritrovamento dei “documenti” trascritti, nega la sua veridicità. L’architettura a scatole cinesi del palinsesto è l’unico vero pregio di un romanzo che troppo spesso si arrabatta per dimostrare le sue tesi politiche.
Si dirà: legittime libertà creative per il libero adattamento di una storia. Ma sono operazioni che tradiscono la volontà di eliminare complicazioni e ambiguità per fare una favola banale e manichea.
Ma di quest’architettura nel film non c’è traccia. La sceneggiatura estrapola solo la storia di McCandless – quella secondo cui una donna riportata in vita con un altro cervello ha trovato se stessa e sposato il narratore –, facendone però la versione della stessa Bella. Nel romanzo, invece, Bella (ossia Victoria) risponde polemicamente agli uomini che hanno preteso di raccontare la sua storia al posto suo, denunciando le fantasticherie romanzesche proiettate su di lei secondo il trito schema per cui la donna è l’immagine e l’uomo il depositario dell’immaginario. La sua vicenda, nelle sue parole, non avrebbe nulla di sovrannaturale, ma sarebbe “solo” la storia di una suffragetta fuggita dalle costrizioni vittoriane e divenuta una delle prime laureate in medicina in Gran Bretagna – cosa che per gli uomini è già “fantastica” abbastanza, commenta risentita. Ma non è tutto qui, perché Gray, riprendendo la parola nel finale, lascia al lettore il dubbio se Victoria (ovvero Bella) non abbia in realtà un motivo per voler nascondere le proprie origini miracolose, a meno che lo stesso scetticismo di Gray non confermi ciò che Victoria ha detto sugli uomini, e così ad infinitum.
L’eroina del romanzo diventa un’attivista politica che, tramite le sue idee di sanità pubblica, per quanto estreme, tenta di realizzare un’utopia emancipatrice; nel film, invece, perde ingenuamente tutti i soldi dell’amante pensando di destinarli agli indigenti. Il punto sta che nel romanzo, a differenza del film, Bella non si fa soltanto consapevole di sofferenze e povertà, ma risale alle loro cause economiche e politiche. Anche la rimozione di Glasgow come ambientazione, così importante nel libro per stabilire il discorso su un tono estremamente caustico verso l’imperialismo inglese, è funzionale all’appiattimento delle rivendicazioni politiche del romanzo sulla fiaba sessuale tutto sommato rassicurante che è il film, senza accenno alle denunce anticoloniali e anticapitaliste che costituiscono le pur didascaliche tesi del romanzo.
Oltretutto, per dipingere Bella come una Candide, vengono semplificati non solo l’intreccio e il suo personaggio, ma – ovviamente – tutti gli uomini che le stanno intorno. Nel suo creatore non c’è più l’ombra del Pigmalione satiresco immaginato da Gray e, allo stesso modo, il suo promesso sposo è solo un “alleato della causa” mansueto e comprensivo, non il fosco lettore dei romanzi che si perde in fantasie e neppure il plebeo di belle speranze, che anche una volta ottenuto il prestigio non riesce a celare il risentimento antiborghese. Nel film, l’amante libertino rapisce Bella per gelosia, portandola sulla nave da crociera per allontanarla da altri uomini, mentre nel romanzo è lei a trascinare lui in crociera per salvarlo dal tavolo da gioco, come sarà lei, più tardi, a donargli generosamente i suoi soldi perché ritorni a casa (nel film lui glieli strappa dalle mani). Per non parlare di Blessington (Christopher Abbott), scialba caricatura del nobile malvagio degna di un deteriore romanzetto d’appendice che ha poco a che vedere con il personaggio corrispondente nel romanzo. Si dirà: legittime libertà creative per il libero adattamento di una storia, e questo è indubbio. Ma sono operazioni che tradiscono una volontà precisa di eliminare clamorosamente complicazioni e ambiguità per fare una favola banale e manichea.
In molti hanno evocato ‘Barbie’ parlando di ‘Poor Things’: ebbene, in ‘Barbie’ c’è molta più complessità.
In molti, sia anche per la vicinanza temporale, hanno evocato Barbie parlando di Poor Things: ebbene, in Barbie, per quanto scriverlo sia paradossale, c’è molta più complessità. Se in quest’ultimo molto si fonda sulla dialettica tra il mondo reale e un mondo di finzione e le loro compenetrazioni, in Poor Things (film) il world-building massimalista è tale da farne un universo a sé, orgogliosamente altro dal nostro. Scegliendo il registro del meraviglioso a scapito di quello del fantastico (inteso come rottura del paradigma di realtà che provoca dubbio e inquietudine, come nel romanzo) e riempiendo il mondo di Bella di animali chimerici, macchine mirabolanti e un cielo dai colori iridescenti e ultraterreni, Lanthimos apre allo stupore, non al mistero, che è ben altro.
La metafora presa alla lettera in Poor Things è quella – piuttosto problematica di per sé, sia detto per inciso – del change of mind, il cambio di mente ossia di mentalità compiuto da Bella per emanciparsi, cosa che avviene tramite lo scambio di cervelli e che, nel romanzo, la donna che si firma Victoria mette in ridicolo nella sua lettera. Anche l’idea che basti fare tabula rasa della cultura e della società per poter godere il sesso – come se esistesse un sesso assoluto al di fuori della comprensione culturale – sembra ingenua, o quantomeno in contraddizione con ciò che il regista aveva esplorato nei film precedenti. Bella, che ignora la vergogna e il senso di colpa, vive una sessualità infantile, libera e immediata, quasi l’infanzia fosse immacolata, priva di complicazioni o mŷthos.
Certamente non lo era in Kynodontas, dove la sessualità rientrava nell’orizzonte extramorale dei giochi dei fratelli, adulti-bambini “idioti” a loro volta, al punto da non percepire l’inammissibilità dell’incesto: mancandogli, nel sesso, le nozioni di norma e tabù, sembravano però ignorare anche il desiderio. In Alps, il sesso faceva parte della recita, una scena tra le tante da ripetere, un’immagine mentale in cerca di simulacri sempre inadeguati. In Kinetta, il regista dava ordini meticolosi persino alle sue amanti, nel quadro di una squallida vita sessuale, come se cercasse di continuo di avvicinarsi, simulandola, a una scena madre di cui conosciamo solo imitazioni. E Steven Murphy si eccitava se sua moglie si fingeva una paziente in anestesia generale. In Poor Things è lampante la semplificazione estrema, anche su questo fronte, rispetto al percorso precedente.
Si badi bene: non è un brutto film. La recitazione di Emma Stone, per esempio, è notevole. È però un film banale, riduzionistico, ipercinematografico in tutti i sensi, frutto di un’operazione industriale che, nella più ampia filmografia di Lanthimos, lascia perplessi. Si potrebbe essere tentati di ipotizzare un filone “essoterico”, adatto al grande pubblico, a cui fa da controcanto la linea “esoterica”: quella, per restare in tempi recenti, di Bleat (2022), cortometraggio, sempre con Emma Stone, ambientato sull’isola di Tino, nelle Cicladi, che riporta l’enfasi sul senso originario greco (e dionisiaco) della tragedia nel luttuoso “canto dei capri”. Per volontà del regista, è da vedersi solo con musica orchestrale di accompagnamento dal vivo: è quindi irriproducibile, non inquadrabile all’interno di logiche commerciali, decisamente per pochi.
‘Poor Things’ non è un brutto film. È però un film banale, riduzionistico, frutto di un’operazione industriale che, nella filmografia di Lanthimos, lascia perplessi.
Due tendenze che si devono leggere anche chiamando in causa gli sceneggiatori. I lavori esoterici (eccetto Kinetta) sono quelli scritti a quattro mani col connazionale Efthymis Filippou. Basta prendere un film da lui sceneggiato come Miserere (2018, diretto da Babis Makridis) per accorgersi di quanto fondamentale sia stato il suo apporto. Dall’altro lato, La favorita e Poor Things sono stati scritti non da Lanthimos ma da Tony McNamara (con Deborah Davis, nel primo). La favorita, dramma in costume su un triangolo di intrighi e gelosie alla corte della regina Anna di Gran Bretagna, segna l’ingresso nel mainstream e il passaggio dal perturbante al bizzarro, dal mito greco all’eccentricità britannica, dal metacinema alla cinematograficità estrema, dalla critica alla società dello spettacolo allo spettacolo visionario. Di nuovo, niente affatto un brutto film, ma un film irrimediabilmente altro rispetto alla linea qui descritta. Un prodotto industriale.
Di Lanthimos è già stato annunciato il prossimo film, Kinds of Kindness, sempre con Stone e Dafoe come interpreti principali, ma con il ritorno alla sceneggiatura del sodale Filippou. Se la recente consacrazione e l’acquisito successo internazionale vanificheranno la tendenza esoterica, o se invece Lanthimos saprà intrecciare e magari confondere e congiungere alchemicamente le due linee in un contrappunto degno del Bach che tanto ama e utilizza, come ci sarebbe da aspettarsi da un auteur che della trasgressione dei confini ha fatto il proprio tratto distintivo, è questione per ora rimandata al futuro.