P er provare a mettere ordine in un’esperienza poetica tra le più compiute del ventesimo secolo non esiste un punto di partenza migliore di altri, perché qualsiasi esercizio rischia di rivelarsi inappropriato per la sua impossibilità di cogliere l’interezza di quell’esperienza e di replicare, con altra e ineguale voce, gli orizzonti e gli abissi che questa spalanca. È lecito allora partire anche dalla fine, partire quindi dal momento in cui il tempo si assottiglia e la ricerca si cristallizza definitivamente nei suoi nuclei più originali e autentici.
In Wystan Hugh Auden l’ultimo scampolo di esistenza è davvero brevissimo, individuabile nei pochi mesi che separano la sua morte a Vienna il 29 settembre del 1973 dal ritorno in Inghilterra come honorary student a Oxford, il luogo da cui tutto era cominciato negli anni Trenta, dopo i decenni trascorsi a New York (“New York è diventata una città troppo pericolosa per un uomo solo come me”, raccontò). In questo breve lasso di tempo germogliano le poesie che compongono la sua ultima raccolta, Grazie, Nebbia!, una raccolta liminale, già sospesa nel guado tra la vita e la morte, immobile.
Auden però visse un’esistenza particolarmente movimentata ed erratica: nato nel 1907 a York, dopo aver studiato a Oxford, trascorse con il compagno Christopher Isherwood un periodo nella Berlino che vedeva scivolare via il sogno della repubblica di Weimar, partecipò come volontario alla Guerra civile in Spagna a fianco dei falangisti, visitò l’Islanda, luogo di origine della sua famiglia, e la Cina in guerra con il Giappone nel 1938 (visita di cui è rimasta splendida testimonianza nel reportage scritto con Isherwood Viaggio in una guerra, quando davanti agli occhi del poeta si materializzò, ancora dopo la Spagna, la sete di violenza umana e la pervasività dell’odio: “Ed egli cambiò poco, / ma prese il suo colore dalla terra / e crebbe simile alle sue pecore e armenti. / L’uomo di città lo pensava umile e avaro, / il poeta piangeva e vedeva in lui la verità, / e l’oppressore lo elevava come esempio”), fino al trasferimento a New York, dove, dopo pochi anni, prese anche la cittadinanza, e le vacanze estive in Italia, a Ischia, e in Austria.
A fare da corollario a questa esistenza sempre in movimento sono le numerose variazioni del pensiero di Auden, un ondeggiare continuo che rende il connubio impossibile tra vita e opera uno straordinario esercizio combinatorio dove ogni poesia, o per dire meglio ogni verso, cambia tono e prospettiva se letto attraverso gli strati di poetica che via via si sono depositati sulla sua opera (“La poesia può fare mille cose, deliziare, rattristare, turbare, divertire, istruire” scrive in uno suo saggio Auden).
Auden visse un’esistenza particolarmente movimentata ed erratica: a fare da corollario a questa esistenza sempre in movimento sono le numerose variazioni del suo pensiero.
Per questi motivi leggere l’ultima raccolta Grazie, Nebbia! assume un carattere particolare, come emerge bene dalla densità di ogni verso, capace di racchiudere e condensare il segreto dell’ispirazione poetica e sedimentare tutto ciò che il poeta è stato, e dal dettato di Auden che qui, come in molte altre sue opere, mette al servizio della massima limpidità una straordinaria complessità metrica e lessicale, quasi impalpabile ma sempre presente.
Nella poesia che dà il titolo alla raccolta, scritta quindi al ritorno in Europa, a Oxford, Auden riconosce nella nebbia un’amica di lunga data, mancata nei decenni americani (“Abituato al clima newyorkese, / conoscendo lo Smog fin troppo bene, / mi ero dimenticato / di Te, la Sua Sorella immacolata, / di ciò che porti ai nostri inverni inglesi: / conoscenze native si risvegliano”), sottolinea come questa sia simbolo di un ordine del tempo diverso dai singulti impazziti del vivere contemporaneo (“Acerrima nemica della fretta / spauracchio di aerei e guidatori”) e ringrazia di poterla vivere e osservare nella pace dell’inverno inglese. Poi Auden descrive la differenza tra gli spazi all’aperto (“Fuori un silenzio informe”) e ciò che si muove dietro le finestre delle case:
Dentro, spazi accoglienti ben precisi / rendono confortevole / la lettura e il ricordo, i cruciverba, / le affinità, le risa: / ristorati da sapide cenette / e allietati dal vino, / sediamo lieti in cerchio, / ignari di noi stessi ma solerti / nei confronti degli altri, / cercando quanto più di approfittarne, / perché ben presto occorrerà rientrare, / finiti questi giorni di clemenza, / nel mondo del denaro e del lavoro, / dove si è attenti ad ogni punto e virgola.
Nel racconto della pace quotidiana e nella dialettica tra spazio esterno e spazio interno emerge lo spirito oraziano dell’ultimo Auden, punteggiato da ironia ed eleganza, immerso in “un viaggio ascetico verso il puro non-essere” (“Dall’Archeologia / possiamo trarre almeno una morale: / cioè che tutti i nostri / libri di scuola mentono. / Ciò che chiamiamo Storia non è nulla / di cui poter vantarsi, / in quanto è stata fatta / dal criminale in noi: / la bontà è senza tempo” scrive Auden in Archeologia) spogliato “d’ogni illusione”, come scrisse Ceronetti parlando di Orazio, quasi epicureo nella sua ricerca sulle questioni ultime eppure sempre toccato dal pensiero di ciò che lo attende e dalla relazione tra l’uomo e il mondo che lo circonda (“Non riesco a immaginare / nulla che io desideri di meno / che essere uno Spirito staccato / dal corpo e non potere masticare, / sorseggiare, toccare superfici, / respirare gli odori dell’estate, / comprendere la musica e i discorsi, / oppure contemplare l’aldilà” scrive in No, Platone, no).
In questa “contrazione della vita mediante l’impegno della parola” (sempre Ceronetti su Orazio con parole che però ben aderiscono anche all’opera di Auden) il poeta non può infatti rimanere del tutto estraneo rispetto a ciò che resta fuori dal protetto locus amoenus: “Nessun sole d’estate potrà mai / dissolvere le tenebre totali / diffuse dai Giornali, / che vomitano in prosa trasandata / fatti violenti e sordidi / che non riusciamo, sciocchi, ad impedire”. Ecco quindi che Auden attraverso questi versi torna simbolicamente alle poesie che, sul finire degli anni Trenta, lo avevano consacrato come uno dei più importanti poeti della sua generazione (anche se poi minimizzerà il loro valore letterario), Spagna 1937 (germogliata dall’esperienza nella lotta contro Franco) e poi 1° settembre 1939 (giorno, come noto, dell’invasione nazista alla Polonia e dell’inizio della Seconda guerra mondiale).
Nel racconto della pace quotidiana emerge lo spirito oraziano dell’ultimo Auden.
Si tratta di poesie che hanno a che fare con due dei sommovimenti storici e politici maggiori del Novecento, ma sono anche testi che segnano una divaricazione decisiva nell’opera di Auden: se si tiene bene a mente l’afflato militante che pervade l’impegno del giovane Auden, nutrito di ideali social-democratici e di letture marxiste, emerge bene il valore rivelatorio di queste liriche che segnano nel loro succedersi l’incrinarsi delle certezze granitiche dell’autore sull’importanza del poeta all’interno della società e sul suo ruolo morale e pedagogico.
Troppo forte è la violenza umana e troppo grande lo spirito che guida il male per consentire al poeta di credere ancora in un suo ruolo sociale: “la poesia – scrive in In memoria di W.B. Yeats nel 1939 – non fa accadere niente: sopravvive / nella valle del suo dire dove i funzionari / mai vorrebbero mettere mano; scorre a sud / dalle tenute della solitudine e delle assidue pene, / spoglie città in cui crediamo e moriamo; sopravvive, / un modo di accadere, una bocca”. In Spagna 1937, apprezzata da Orwell che vi vide uno dei documenti più importanti sulla guerra civile spagnola, il poeta descrive la sua esperienza in guerra, le origini degli scontri (in un vertiginoso gioco con il tempo che dall’invenzione della ruota giunge alla guerra civile, un procedimento, soprattutto con il dialogo con i classici greci, che segna molte sue poesie) e il ruolo delle Brigate Internazionali, innervando il racconto di concetti di stampo marxista e di una precisa idea negativa del procedere della storia (“Ieri la fede nell’assoluto valore dei Greci; / il calare del sipario sulla morte di un eroe; / ieri la preghiera al tramonto, / e il culto dei pazzi. Ma oggi la lotta”).
La devastazione osservata non lascia speranze per il futuro: “Le stelle sono morte; gli animali non guarderanno: / rimaniamo soli col nostro giorno, e il tempo è breve e / la Storia agli sconfitti / può dire Ahimè ma non darà aiuto né perdono”. Anche 1° settembre 1939, poesia scritta lontano dalla natia Inghilterra e quindi lontano dal nucleo rovente della Seconda guerra mondiale (di aver abbandonato l’impegno e di codardia lo accuseranno i suoi detrattori inglesi), è un documento straordinario per misurare come il poeta osservi con maggiore disillusione le vicende umane, amaramente consapevole della vanità di ogni voce (“Sono seduto in una delle bettole / Della Cinquantaduesima / Incerto e spaventato: allo scadere / Delle speranze furbe / Di un decennio indegno e disonesto: / Onde di rabbia e di paura / Circolano sulle luminose / E oscurate contrade della terra / Assillando la nostra vita privata: / L’indicibile lezzo della morte / Offende questa notte di settembre” recita l’iconico incipit della poesia), ma anche per vedere come permanga ancora l’idea del verso come ultima testimonianza di presenza nel mondo (“Io tutto ciò che ho è una voce / Per disfare la bugia fra le pieghe / la bugia romantica ch’è nel cervello / del sensuale uomo della strada / e la bugia dell’Autorità / i cui edifici frugano il cielo”).
L’opera di Auden sta tutta nello iato tra la poesia e la sua negazione.
Questo componimento racchiude una delle riflessioni più profonde di tutta l’opera di Auden, quella sulla valenza e il peso del discorso poetico dentro un secolo che con lo scoppio della Seconda guerra mondiale sembra aver annullato ogni consistenza della parola: Auden parla di ciò che succede attorno a lui (Hitler per esempio: “quello che successe a Linz, / quale immensa illusione ha creato / un dio psicopatico”), ma il suo discorso dialoga con un tempo lontano, con Tucidide, con la fine della Grecia classica e con la critica alla tirannia, e quindi simbolicamente dialoga con tutta la Storia occidentale e con le riflessioni senza tempo sulla natura dell’azione umana: “la ragione messa al bando, / il dolore che plasma l’abitudine, / il cattivo governo e il cordoglio: / tutto questo ci è inflitto un’altra volta”. Ma se, come ha notato un altro poeta estremamente innamorato dell’opera di Auden, Iosif Brodskij, qui Auden sembra più demoralizzato di Tucidide perché maggiormente persuaso della debolezza di ogni discorso di fronte al male umano, in 1° settembre 1939 affiora ancora la volontà di provare a capire l’umanità tra le spire della confusa età contemporanea, la celebre age of anxiety di un suo poema:
Senza difesa il nostro mondo / giace sotto la notte attonito; / eppure, accesi ovunque, / ironici punti di luce / lampeggiano là dove i Giusti / si scambiano i loro messaggi: / oh, ch’io possa, composto come loro / d’Eros e di polvere, / assediato dalla medesima / negazione e disperazione, / mostrare una fiamma affermativa.
L’opera di Auden sta tutta in questo iato tra la poesia e la sua negazione: ogni suo verso ruota attorno alla domanda sulla possibilità stessa dell’esistenza della poesia, un’interrogazione radicale di volta in volta declinata attraverso le differenti voci che ne hanno animato il verso, dall’impegno militante degli anni Trenta alla vicinanza al cristianesimo, attraverso i temi che la abitano, come lo scorrere del tempo, il rapporto con la natura o il significato del rapporto amoroso, o l’impostazione generale dello sguardo che si muove regolarmente tra l’ironia e la commozione.
Questo materiale così vario e multiforme trova miracoloso compimento in Horae canonicae, una serie di poesie che risalgono agli anni Cinquanta, alla crisi religiosa di Auden e al suo conseguente avvicinamento al cristianesimo. Le sette poesie rimandano alla scansione della giornata della Liturgia delle Ore e si addensano, nel tempo che corre tra l’imbrunire del Venerdì santo e la mattina successiva, come corpi sintomatici del procedere poetico maturo di Auden: affiora in queste poesie l’incessante movimento tra il dentro e il fuori che tornerà in Grazie, Nebbia!, tra ciò che abita l’animo umano e ciò che invece scandisce il tempo della società incessantemente in movimento, tra i ritmi antichi della cristianità e l’accartocciarsi dei tempi contemporanei.
Auden entra in profondità nei meccanismi che regolano il pensiero e la relazione umana, girando attorno alle domande ultime, prefigurando la ricerca della pace che si compirà.
Nell’arco disegnato da queste poesie si trova infatti il risveglio del corpo e dell’anima (“Simultaneamente, silenziosamente, / spontaneamente, subitamente / come, al vanto dell’alba, le benevole / porte del corpo si aprono / al mondo che sta dietro, le porte della mente, / la porta di corno e la porta d’avorio / oscillano, si chiudono, istantaneamente / soffocano la perquisizione notturna”), il desiderio come specchio della natura umana, l’incontro tra esseri viventi che si compie come miracolo (“Ed è ora che i nostri due sentieri si incrocino”), le durezze misteriche della fede (“Non è facile/ credere in una giustizia inconoscibile/ o pregare nel nome di un amore/ il cui nome si sia scordato”), l’immagine di una Nuova Gerusalemme edenica, il sacrificio come atto fondatore (“Poiché senza un cemento di sangue (dev’essere umano, dev’essere innocente) nessun muro terreno sarà saldo”), il ricordo come regressione all’io infantile (“Venga l’attimo del ricordo / allorché tutto ha senso”) fino alla domanda ultima sulla poesia (“Possono i poeti (o gli uomini della televisione) / essere salvati?) e il ritorno della luce mattutina come rinascita (“Splende il sole sulle creature mortali / Si avvedono gli uomini dei loro vicini: / In solitudine, per compagnia).
In questi componimenti esemplari si cristallizzano i temi del passato e si adombrano le immagini del futuro e Auden entra in profondità nei meccanismi che regolano il pensiero e la relazione umana, girando attorno alle domande ultime, prefigurando la ricerca della pace che si compirà, una ventina d’anni dopo, con l’immersione nella nebbia (“la terra è un brutto posto, / eppure, per quest’attimo speciale, / così tranquillo ma così festoso, / ti rendo Grazie: Grazie, Grazie, Nebbia”). In questa tensione tra dentro e fuori, che è la stessa che il poeta racconta con una concretezza maggiore, ma con la stessa tensione conoscitiva, in Grazie, Nebbia!, si erge l’interrogativo sullo scorrere del tempo e sulla relazione tra il presente, il passato e il futuro che segna tutta la poesia di Auden, che da questo punto di vista rimanda alle domande di uno dei suoi punti di riferimento, Sigmund Freud, il cui metodo descrive come un procedimento che molto si avvicina al suo: “non fece altro che usare la memoria / come i vecchi e dire la verità come i bambini / Non occorreva intelligenza: comandò soltanto / all’infelice Presente di recitare il Passato” (In memoria di Sigmund Freud).
Iosif Brodskij, che amava talmente tanto la sua poesia da decidere di cominciare a scrivere in inglese, sottolinea come la superiorità di Auden rispetto ai suoi contemporanei non sta solo nella maestria tecnica o nella capacità di addentrarsi nelle profondità della condizione umana, ma che è evidente soprattutto “nell’enorme generosità del suo spirito e nell’intelligenza con cui viene incontro al lettore in ognuno (non è un’esagerazione) dei suoi versi”. Qualsiasi lettore di Auden troverà riscontro di questa “intelligenza” nella sua immediatezza comunicativa, nella sua capacità di dialogare con un pubblico molto ampio, nella grazia dell’organizzazione dei versi e nella raffinatezza della scelta di ogni parola. Anche per questo il lettore si avvina facilmente alla sua poesia ed empatizza naturalmente con versi che disegnano un percorso archeologico nella storia dell’umanità.
Il viaggio formidabile di Auden si chiude nella natia Inghilterra, luogo di un’emblematica regressione al grembo materno, palcoscenico di una Ninnananna senza tempo dove età prenatale, vita e morte si mescolano in un unico straordinario flusso: “Posa il capo assopito, amore mio, / umano sul mio braccio senza fede; / tempo e febbri avvampano e cancellano / ogni bellezza individuale, via / dai bambini pensosi, e poi la tomba / attesta che effimero è il bambino: / ma finché spunti il giorno mi rimanga / tra le braccia la viva creatura, / mortale sì, colpevole, eppure / per me il bello nella sua interezza”.