T occare e percepire: è questo forse il movimento che lascia più tracce nell’infanzia. Una curiosità che diviene un compito e un bisogno, una sintesi di vitalità che Silvia Calderoni sa cogliere pienamente con Denti di latte (Fandango) uno dei più importanti esordi letterari del 2023. Silvia Calderoni non tradisce se stessa e conferma una sensibilità portata già nei teatri della scena performativa contemporanea, ora tradotta in forma letteraria. Non un’autobiografia, ma l’infanzia come sentimento percettivo. Avvertire e toccare, sentire e attraversare. I corpi degli oggetti e il proprio in un dialogo sentimentale vitale e ingenuo, profondo eppure leggero che confonde la realtà con il sogno, superando i bordi e i confini spesso dettati più da paura che da senso di realtà. Un libro denso che diviene una vera e propria forma di meditazione sul tempo e sullo spazio.
Denti di latte si apre con un risveglio, un movimento lento a tratti scomposto che assume piano piano una coerenza. Un senso sempre guidato dal bisogno, chiedo così a Silvia Calderoni come si intreccia al gioco, come diviene in tal modo una forma di sonno creativo: “Il sonno creativo è una condizione del corpo-pensiero, ottimale per diventare materia infinita. In quel limbo tra sonno e veglia, in cui il corpo è completamente addormentato e la mente invece inizia a danzare e a muoversi velocissima in uno spazio-galassia in cui le tre dimensioni sono deformate e le unità di misura non sono più il sistema che governa pesi, tempo, distanze. In questo spazio la memoria e i ricordi non sono confinati nel passato, ma si mischiano e si compongono con il presente e il futuro”. Il corpo dunque vive nella precedenza del gesto e quindi della relazione, ma prende vita per mezzo del reale e attraverso una forma di riconoscimento mnemonico.
Gesti che già ci appartengono si compiono in un’azione che diviene, oltre che funzionale, rivelatrice di una storia e di un’essenza che precede ognuno di noi. Ed è proprio questo aspetto a colpire in questo esordio letterario di Silvia Calderoni, ovvero la capacità di cura e di traduzione. Calderoni non scrive semplicemente una storia che prende avvio da una memoria precostituita e che si forma in una vicenda esistenziale che la vede tra le più rilevanti performer contemporanee, ma offre ai lettori un testo che trasforma la memoria in una stretta relazione con il sogno: “Non sono un’amante dei sogni, non mi piace raccontarli e ancora meno mi piace sentirli raccontare. La mia passione è legata al tempo esatto del ‘caderci dentro’, quella zona in cui i pensieri si fondono con l’immaginazione e in cui i ricordi diventano piccoli tizzoni oracolari che fioriscono nel nero degli occhi. È il nero che prende colore, diventa tavolozza su cui accendere luci al neon psichedeliche. È dove per qualche istante prendono forma strane figure enigmatiche; oppure dove netti sono riconoscibili i confini degli oggetti”.
Un libro denso che diviene una forma di meditazione sul tempo e sullo spazio.
La perdita dei confini, dunque del limite, ma non della precisione dello sguardo, che offre come una possibilità aggiuntiva di cogliere la sfumatura impalpabile delle cose. Gli spazi come una memoria leggera dentro cui navigare e trasformare sempre attraverso gli oggetti il tempo e la sua consistenza. Un capovolgimento di fronte che rifiuta fortemente l’organizzazione precostituita e quindi la tecnica intesa come uno stato evolutivo prevalente. Silvia Calderoni rintraccia invece i segni di un’antropologia dell’esistenza in cui gli oggetti sono spunti e non punti di arrivo di una competizione, segnali di fumo di uno spazio interpretabile e nei suoi interstizi infinito. Il mondo come una frontiera da cogliere in quanto possibile superamento del dato acquisito.
Una visione che richiede uno sguardo analitico, una consapevolezza percettiva, ma che non può fare a meno assolutamente di una visione poetica, qui giocosa e alla Georges Perec, che illumina le pagine come un movimento sul palco: “Ho uno sguardo allenato dalle pratiche della scena, del teatro: guardare, memorizzare, ripetere, ricominciare da capo. Uno sguardo che non descrive, ma piuttosto che riorganizza e ordina, fa spazio per l’azione, crea un set in cui il corpo può agire o sostare. Definisco i contorni, sottolineo i margini, i battiscopa. Più lo spazio è a fuoco, più il movimento, l’azione, sarà selvatica e libera. Come su un palco. Lo sguardo memorizza per potersi muovere nel buio, non inciampare nelle quinte, afferrare un microfono nell’oscurità del proscenio che verrà poi inondato di luce con te già dentro di essa. Disegnare i pieni serve per poter muoversi e sostare nei vuoti”.
Lo spazio scenico e lo spazio del reale, ma anche il movimento che precede il tocco, un movimento emotivo a tratti decisamente intimo di cui Calderoni mostra assoluta consapevolezza: “Osservare il mondo attorno, un mondo che è abitato da altre creature umane e non umane: genitori, zie, bambini e bambine, vicini di casa, cani, alberi e arbusti. ‘Gli altri’ è come se fossero definitivamente interlacciati con lo spazio, tutti e tutte si muovono tra le cose e, mentre si muovono, diventano parte di esse. Tracciano scie indefinite, sbavate, in cui l’emozione della bimba inciampa. L’intimo e l’esterno sono visti dagli stessi occhi e trattati allo stesso modo. Non c’è limite tra privato e condiviso. Ogni cosa è un segreto, anche una strada trafficata come via Piratello. La forma di una panchina su cui sostano, hanno sostato e sosteranno ancora centinaia di persone diventa, con il passaggio di un singolo sguardo, un segreto custodito con la massima cura, nonostante che quell’oggetto nel mondo sia alla portata di tutte e tutti.”
‘Gli altri’ è come se fossero definitivamente interlacciati con lo spazio, tutti e tutte si muovono tra le cose e, mentre si muovono, diventano parte di esse.
Il tocco nel libro vive di un errore necessario alla distinzione, ovvero esistere nella relazione, ma in quanto isolato e unico. Una forma di contraddizione che alimenta impulsi a tratti violenti, una messa in moto che viene e vive di una chiamata esterna. Denti di latte riesce così a dare forma a un ritratto del corpo in movimento senza mai dimenticare il gusto dell’ironia, tornando sempre a una forma di leggerezza quale strumento essenziale per valutare la presenza di un corpo. Il proprio e quello altrui: “Io non ho un corpo, io sono il mio corpo. Dal momento che non posso scegliere di non averlo coincido dunque con quello che sono. L’unico momento in cui riesco a liberarmi del corpo che sono è quando la fantasia, prima di cadere nel fotoromanzo del sogno, colora il nero degli occhi per poi finire chissà dove. In quell’intercapedine il mio corpo perde peso, si espande e diventa tutto spazio vuoto senza gravità. I polmoni agiscono come propulsore, la temperatura si scalda e l’idraulica del sistema linfatico inizia a irradiare tutta la stanza. La radiosveglia, è uno strappo. Un ritorno nel qui ed ora, è la violenza di un volo intercontinentale in un batter di ciglia.”
Tuttavia il movimento porta con sé il sapore di una memoria, si è e non si ha e così avviene anche per i ricordi, traduzione di un un archivio solido. Pezzi di noi sostituiti e ritrovati, una possibilità che viene dal passato, ma che costruisce il suo senso per un tempo contemporaneo che ci obbliga a essere presenti, al tempo stesso diversi e distanti. Esistere come forma di un cambiamento, vivere in quanto sempre capaci di affrontare una messa in discussione: “Il passato è come un gigantesco magazzino pieno di oggetti impilati, plastici appoggiati su cavalletti di legno e persone imballate con il pluriball. Quello che resta è una collezione sghemba e continuamente mancante che si completa solamente con ciò che siamo e saremo. Un tutto, una matassa, sempre in movimento, in trasformazione, un divenire che si innesta in una rete di relazioni. I ricordi in movimento, quelli che affiorano nelle nostre strutture di pensiero, transitano veloci, si spostano continuamente nel futuro, ed è solo lì che prendono vita, si rigenerano, sollecitati da stimoli continui che il presente ci offre. A volte ci aspettano negli angoli e stanno lì, pronti prima di noi, per spaventarci senza neanche che ce ne accorgiamo”.
Toccare, dunque, non implica una previsione, ma un imprevisto che può portare a essere diversi rispetto agli altri o rispetto a se stessi in una forma di precedenza d’intenti comune che rivela una diversità nel tocco, nella predilezione tutta umana di plasmare le cose: “Una predilezione nel dare movimento alle cose ferme mi obbliga a cercare continuamente nuovi bacini idrici per azionare le pale della turbina che sono. Scrivo e riscrivo, con il corpo, con la mente, ora con le parole. Un’azione concretissima che come conseguenza diretta divora futuro e lo trasforma in presente. A volte tremo all’idea che non ce ne sia abbastanza, che le riserve sulla terra di ciò che sarà si stiano estinguendo. E mi ritrovo con pile e pile di presente sulla scrivania, un ingorgo di partiture, fogli, spettacoli, amori, vita”.
Denti di latte annulla il concetto di romanzo di formazione perché la formazione è parte stessa del corpo, vero e assoluto protagonista di un libro che vede la voce narrante di Silvia, un’adolescente, toccare e afferrare, vedere e ricordare. Al punto che Silvia sembra divenire non l’agente, ma lo strumento del contatto. L’imprecisione non le appartiene perché appartiene agli spazi e agli oggetti che divengono ostacoli per la loro ottusa permanenza, per la loro dura solidità. A caduta, anche la famiglia si alleggerisce di una disfunzionalità che abita gli spazi, ma non la psiche di chi li vive, almeno apparentemente: “La famiglia che racconto è abbastanza classica, un nucleo familiare di tre persone in un piccolo appartamento nella provincia romagnola. Il romanzo non si sbilancia in accadimenti straordinari, non ci sono inondazioni, violenze o morti improvvise, tutto prosegue con una routine rassicurante in cui gli occhi della protagonista descrivono il mondo in cui è precipitata utilizzando come unità di misura, come metro, la lunghezza del suo braccino. Essendo lei a disegnare gli spazi, le stanze e i cassetti della cucina, non può che percepire i due corpi di lei e lui (così definisce i suoi genitori) come ‘ospiti’ in un suo disegno. Corpi e presenze lontane e enigmatiche. Il punto di vista di questi lunghi piani sequenza è all’altezza della cintura delle persone adulte. E quando nell’inquadratura sono presenti anche loro il piano si inclina e lo sguardo si sposta verso l’alto, verso il soffitto, le mensole lontane, l’orologio da muro, le nuvole, i cieli. Ed è questa inclinazione che ridisegna lo spazio in modo altro, probabilmente disfunzionale rispetto allo sguardo d’origine.”
I ricordi in movimento che affiorano nelle nostre strutture di pensiero transitano veloci, si spostano nel futuro, ed è solo lì che prendono vita, si rigenerano, sollecitati da stimoli continui.
“Silvia” sappiamo dall’esergo non essere esattamente Silvia Calderoni. Denti di latte non è un’autobiografia nonostante persone e luoghi citati siano reali. Un’avvertenza di poetica rispetto all’essere del ricordo e alla realtà dell’esistente: “‘Silvia’ e subito mi viene l’ansia. Il farmi chiamare ad alta voce, sentire quel nome netto che spezza la colonna sonora della giornata, produce in me la stessa reazione della radiosveglia. Un immediato tornare in un posto, un gate per la realtà che diventa spazio di contrattazione emotiva e relazionale. Un richiamo a cui l’istinto reagisce incoscientemente, un girarsi di scatto, uno sparo della pistola dello starter alle gare d’atletica. Il nome della persona diventa un segnale in cui il corpo rinviene e si riordina in un’immediatezza disarmante. Il nome proprio, il nome della carta d’identità, quel nome a cui rispondere che nessuna e nessuno di noi si è scelto. Un nome che a volte ci suona estraneo”.
Un’estraneità che diviene però anche una possibilità d’indagine, quello di vedere il mondo lontano da sé, quello di ritagliarsi altri da sé per riprendersi forme e linee diverse. Una possibilità fondamentale per cogliere il movimento della cura, in questo caso della madre, un’osservazione che ha la forma dell’infanzia perché nasce nella spontaneità, ma che nel libro Calderoni traduce con la raffinata consapevolezza di un’osservatrice acuta e sensibile: “Mi incanta osservare le persone che fanno cose che amano fare. Anche piccole cose che per la maggior parte di noi potrebbero essere insignificanti, ma per qualcuno invece sono tutto un palpitare di cuore. Lavorare ai ferri, colorarsi le unghie, compilare le parole crociate, risolvere un rebus. Piccole pratiche eseguite con estrema cura, nel dettaglio, una punteggiatura di micropassioni. Quando la cura è fuori da me e la vedo da lontano, quando annodare tra le maglie di un uncinetto mi trasmette un senso di calma, tutto il mondo diventa quieto e i miei polmoni riescono ad incamerare più aria. Poi, appena si avvicina troppo a noi, a volte, diventiamo miopi e invece di farci avvolgere dal piacere rischiamo di scivolare in terreni scomodi, appiccicosi e contaminati da passioni tristi. Per questo ho traslato la bimba sul foglio. Per rievocare quell’amore semplice e incondizionato”.
Un amore semplice e incondizionato, potrebbe davvero essere il sottotitolo di un libro delicato e prezioso come Denti di latte, che vive nella provincia italiana, quella che dalla nebbia ha portato alla letteratura italiana tra le cose migliori del nostro secondo Novecento. Una qualità sottile che viene da Gianni Celati e prima ancora dai novellieri, che si è fatta letteratura e teatro, cinema e performance, cogliendo il valore di una tradizione che non viene espressa, ma assorbita e trasformata in uno spazio contemporaneo e quindi sempre disponibile. Una connessione con il proprio tempo e la propria storia priva di colpe e vanti, di stupidi orpelli e ancor meno di vacui richiami, di una corporalità semplice e naturale in cui, come ci dice infine Silvia Calderoni: “I ricordi fanno parte di quella zona del corpo in cui stanno comodi anche i segreti. Subito sotto la superficie, ma sempre vogliosi di uscire allo scoperto, non si espongono mai alla luce diretta perché una volta messi allo scoperto, lasciati liberi, muterebbero di forma”. Denti di latte è la forma esatta del ricordo in cui è possibile ritrovarsi come a casa, come nel proprio corpo, dando a ogni cosa il valore intimo della propria mano o del proprio occhio.