L e sostanze stupefacenti sono ovunque nel territorio mediale (e non solo) contemporaneo, sia come riferimento esplicito sia perché hanno manomesso le forme attraverso cui rappresentiamo la realtà: dal cafè capace di alterare il romanzo inglese del Settecento, all’impatto dell’MDMA nei video musicali di fine secolo scorso (con buona pace di Kendrick Lamar e del suo «Death to Molly»). Tuttavia, per gran parte della storia moderna è stata la letteratura l’unico medium per approcciare in maniera non clinica le droghe, precisamente a partire da Confessioni di un oppiomane di Tomas de Quincey, primo scrittore a interpretare le esperienze psicotrope in chiave estetica e a indagarle in termini voluttuari.
Forma
Si sarebbe quindi tentati di estendere le considerazioni di Dale Pendell sul tè nella Cina della dinastia Tang, a questa riappropriazione realizzata dai letterati romantici, con l’assunzione di oppio e morfina che avrebbe trovato “la sua massima espressione: un [uso] fine a sé stesso, ricreativo, potremmo dire, non solo medicinale”; se non fosse che la junk narrative romantica (come parecchi dei suoi epigoni) è definita secondo David Lenson da un tono da confessionale e da una fssazione per “il punto di svolta morale, dove l’estasi si trasforma in repulsione e orrore”, facendo propria una visione socialmente tanto accettata quanto reazionaria sulle droghe.
All’interno di questo quadro doppiamente problematico – di difficile reperibilità di informazioni non convenzionali e sistemi simbolici chiusi – si è mosso Pendell nella costruzione del suo “Trittico del Giardino delle delize velenose”. Per ragioni che diverranno evidenti con il prosieguo della lettura, è necessario focalizzarsi sulla sperimentazione estetico-formale attuata dal nostro, ovvero la sua scelta di realizzare l’impresa para-enciclopedica di creazione di un sapere altro su piante dotate di poteri e sostanze alteranti né attraverso il semplice accumulo di nozioni, né riproducendo le convenzioni tassonomiche della scienza positivista. Per cogliere il portato di questa sperimentazione è necessario confrontarla con quella di altri cattivi maestri del Novecento, con i quali condivide la medesima volontà di devastare il pensiero lineare a favore delle potenzialità generative dell’intertestualità.
Rispetto all’anti-saggistica di Jean Genet in Che cosa è rimasto di un Rembrandt strappato in pezzetti tutti uguali e buttato nel cesso e di Jacques Derrida in Glas – con il loro creare uno spazio di significazione nell’interstizio presente tra due colonne di testo verticali, fisicamente e concettualmente contrapposte – la scrittura di Pendell, diversamente, riesce in un’operazione di sedimentazione di significati grazie alla stratificazione orizzontale di testi e immagini, la quale permette alla diverse voci che danno vita ai volumi di esprimersi e genera molteplici livelli di analisi.
Per gran parte della storia moderna è stata la letteratura l’unico medium per approcciare in maniera non clinica le droghe.
Rispetto all’anti-letteratura della trilogia Nova di William Burroughs e di Tophane: Roman di Jörg Fauser che con la tecnica del cut-up sezionano fsicamente un testo in parti più piccole per poi ricomporlo in maniera totalmente diversa, la polifonia evocata da Pendell immerge il lettore in una condizione allucinatoria dai connotati (non tanto sorprendentemente) positivi, perché ha un efetto seducente opposto al disorientamento e alla frustrazione provocata, invece, dal trittico burroughsiano. La parola è un virus (la cui etimologia è guardacaso veleno) ci ha insegnato Burroughs, una posizione condivisa da Pendell che ci avvia alla conclusione di Pharmako/Poeia con la frase “il veleno primario è la Parola”.
Nondimeno, i due scelgono di impiegare in maniera molto diversa questo virus. Per l’autore del Pasto nudo si deve fare a pezzi il linguaggio per bloccarne la trasmissione, mentre quello dei Pharmako sceglie di portarne al massimo la contagiosità, come farà qualche anno più tardi Paul Preciado nel suo Testo – appunto – tossico. Dopotutto è lo stesso Pendell a riconoscere, nell’introduzione a questo volume, quanto sia “appropriato che un libro sui veleni sia esso stesso un veleno”, svelando la natura squisitamente intossicante dei libri, capaci di svelare, insegnare e sedurre, pharmakon in grado di essere al contempo “lettera dell’ortodossia e il seme della sovversione”. Tutto un altro genere di junk narrative.
Diagnosi
Pendell e Burroughs: il loro diverso rapporto con il virus parola è facilmente spiegabile. Il secondo è andato a scuola di controllo telepatico dai sacerdoti Maya; il primo la prende in maniera ambivalente, è polo negativo quando il cristianesimo alfabetizza il paganesimo, polo positivo quando è sapere trasmesso di generazione in generazione per i Meneca Huitoto: “questa parola ha potere, ha sostanza, ha respiro”. Ma Pendell e Burroughs hanno anche un diverso rapporto biografico con la tecnologia. L’uno rampollo della Burroughs Corporation, tra i più importanti produttori mondiali di calcolatrici meccaniche e calcolatori elettronici, per la quale non lavorerà mai; l’altro è laureato in computer science e sviluppatore di software. Dettagli apparentemente inutili che in qualche modo anticipano gli esiti di questa seconda sezione.
Burroughs, lo si sarà intuito, è un crocevia necessario nel nostro percorso. È il referente di Gilles Deleuze nella formulazione del suo Poscritto sulle società di controllo come lo è per Preciado nella sua indagine sul “nuovo controllo sessomicroinformatico” reso possibile dallo sviluppo delle odierne tecnologie del corpo e della rappresentazione. In entrambi i casi il tentativo è quello di delineare il regime di dominazione post-disciplinare in cui viviamo, successivo a quello sovrano (un modello di potere centralizzato e gerarchico di tipo tanatopolitico perché il monarca detiene il “diritto di vita e di morte” sui suoi sudditi) e a quello disciplinare (un modello di potere capillare e camaleontico, produttivo perché agisce sulla vita – la biopolitica – attraverso l’internamento in prigioni, scuole e fabbriche, eccetera) tracciati nell’opera di Michel Foucault.
Pendell riconosce la natura squisitamente intossicante dei libri, capaci di svelare, insegnare e sedurre.
Burroughs è per entrambi un caso studio eccezionale grazie alla sua continua sperimentazione su sé stesso dei meccanismi di controllo e, in particolare, della loro capacità di insinuarsi e – diciamo – muovere, quella Macchina moriba (titolo del primo libro della trilogia Nova) che è il corpo umano. Per Old Bull Lee “l’Essere Umano è costituito da linee di parole associate che controllano ´i processi mentali, le reazioni emotive e le impressioni apparentemente sensoriali´“, e un posto speciale in questa architettura del “biocontrollo” è occupato dal “virus della droga” e in particolare dagli oppioidi. Nell’introduzione – Deposizione. Testimonianza di una malattia – a Pasto nudo, la “roba” è definita come il “prodotto ideale […] la merce ultima” grazie al rapporto specifico che è in grado di instaurare con l’acquirente: “l’algebra del bisogno”. “La ´roba´ è il marchio distintivo del monopolio e della possessione“ perché chi la consuma e consumato a sua volta, con “il cliente disposto a strisciare in una fogna supplicando di poterla comprare“. Non è il prodotto a essere venduto, ma è il consumatore a essere comprato. L’esito disciplinare del mercato della droga è spiegato puntualmente nel Pasto nudo dallo scienziato del Controllo, il dottor Benway: il soggetto deve essere “indotto a pensare che merita le terapie cui viene sottoposto perché in lui c’è qualcosa di spaventosamente sbagliato“. Detto altrimenti: lo stigma interiorizzato (o auto-stigma) dei consumatori problematici di sostanze e la sua funzionalità nel fargli accettare le “cure” che la società ha in serbo per loro nelle diverse istituzioni di internamento.
Bellissimo, ma non sufficiente per afrontare le sfde odierne, per almeno due ragioni: lo statuto (non) riconosciuto agli oggetti; un regime di dominazione somatico ancora troppo vicino a quello disciplinare. Partiamo dalla prima. Gabriele Bacherini nel suo Frammenti di massificazione riporta l’interpretazione di Robin Lydenberg sull’opera di Burroughs come opposizione alla logica aristotelica dell’aut/aut, contro la quale scaglia tutte le proprie capacità distruttive per divenire un “poeta contemporaneo della metamorfosi” come il protagonista di La macchina morbida. Anche l’indagine scientifico-poetica di Pendell si fonda sulla critica al binarismo e sul tentativo di inceppare questo meccanismo fondativo del pensiero occidentale, ma lo fa con armi, e conseguentemente esiti, molto diversi da quelli di Burroughs: basarsi sul pharmakon platonico (su questo non c’è bisogno di dilungarsi dopo la preziosa prefazione di Laura Tripaldi a Pharmako/Poeia, vero?) per seguire gli anti-precetti della conoscenza venefica.
Lo sgretolamento ontologico nel segno dell’ambivalenza reso possibile dal pharmakon si traduce in Pendell nel superamento della contrapposizione dicotomica tra soggetto e oggetto. Le droghe non sono semplicemente un dispositivo integrato all’interno di uno specifico regime di controllo, ma sono s/oggetti di cui è continuamente richiamata l’agency, a ogni livello del reale: sia a quello micro-presente dell’interazione diretta con piante maestre che hanno molto da insegnarci, anche se allo stesso tempo ci conducono in un sentiero di cicatrici e “fratell[i e sorelle] che inciampano”, sia a quello macro-storico della “primigenia comunione” dei mangiatori (fumatori, snifatori, eccetera) di divinità, grazie alla quale “forse sono le piante a fare la storia, e noi agiamo in loro nome”. In Pharmako/Dynamis sono infiniti i riferimenti su questa relazione turbolenta che ci sottomette alla “volontà di potenza del “veleno””, ma al lettore più difdente interesserà sapere come posizioni simili siano state espresse anche da accademici riconosciuti, tipo Anna Tsing nel suo racconto di “una delle grandi storie d’amore della storia”, quella dei cereali addomesticatori di esseri umani.
Passiamo alla seconda, partendo dall’indicazione del collettivo Obsolete capitalism sul valore assunto delle sperimentazioni tossiche di Burroughs e Antonin Artaud nell’elaborazione di Deleuze (e Félix Guattari) relativa al tema dell’intensità. Per approcciare questo concetto è utile passare da La vita intensa di Tristian Garcia, perché indaga come questo concetto sia diventato nel corso della modernità il fondamento di un nuovo un’ideale etico condiviso, la “vita concepita come esperienza elettrica” da vivere – per l’appunto – intensamente. Naturalmente all’interno del testo trovano spazio le sostanze stupefacenti, in particolare quando sono presentati gli stratagemmi elaborati dall’”uomo intenso” per contrapporsi all’ “uomo sedentario, sistematico, sposato, con la vita programmata, uomo della sicurezza, della mentalità ristretta e conformista”. Stimolante la considerazione dell’autore su come le “soggettività elettriche” più estreme (pornostar, bodybuilder sotto steroidi, cocainomani) non siano “la parte maledetta della civiltà liberale”, quanto piuttosto “la scrupolosa realizzazione dell’ideale moderno di intensità”; tuttavia, per i nostri intenti è più rilevante osservare come le auto-sperimentazioni tossiche di de Quincey e Arthur Rimbaud citate da Garcia, al pari di quelle di Burroughs, assumano tutte una forma continuamente spezzata a causa di tolleranza, craving, overdose, farmacodipendenza e ricaduta, non riuscendo mai a omaggiare totalmente l’ideale moderno della piena intensificazione.
Le droghe non sono semplicemente un dispositivo integrato all’interno di uno specifico regime di controllo, ma sono s/oggetti di cui è continuamente richiamata l’agency.
Nel suo Poscritto, Deleuze riporta come “l’uomo delle discipline era un produttore discontinuo di energia, mentre l’uomo del controllo è piuttosto ondulatorio, messo in orbita, su un fascio continuo”. Relativamente al primo, c’è una sovrapposizione tra la forma continuamente spezzata delle auto-sperimentazioni tossiche appena menzionate e la produzione discontinua di energia, confermando la vicinanza tra l’esperienza incarnata burroghsiana e il regime disciplinare, come già emerso analizzando l’esito auto-stigmatizzante della roba/ merce. Relativamente al secondo, per provare a sentire il fascio continuo di energie dell’uomo del controllo, è utile tornare a Garcia, secondo cui siamo nel bel mezzo del passaggio dal paradigma elettrico a quello elettronico, con “l’intensità [che] non è più un fine, ma solo un mezzo” e l’informazione a sostituirla come fondamento di una nuova etica. Non ci è più richiesto di vivere al massimo, ma si impone su di noi “il modo di essere dell’informazione”, una vita basata sul principio dell’efficacia: “memoria aumentata, concentrazione accresciuta, umori controllati, morte rimandata”.
Eccoci finalmente intrappolati nel regime di dominazione contemporaneo. È l’assalto al sonno del capitalismo 24/7 di Jonathan Crary, uno sfruttamento prestazionale dell’umano a ciclo continuo, oltre ogni limite temporale, 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana. È la “farmacologia economica” del Narcocapitalismo di Laurent de Sutter, fautore di un’anestetizzazione programmata del corpo sociale grazie a un armentario diferenziato di bio-tecnologie (antidepressivi, sonniferi, stimolanti di vario genere e – naturalmente – droghe) che cancella qualsiasi ostacolo al nostro essere costantemente produttivi, nel lavoro come nel tempo libero. In entrambi i casi è il modellamento delle nostre energie vitali sotto il segno dell’efficacia, un fusso costante e manovrabile a servizio di un soggetto “imprenditore di sé stesso”.
Armi
Dopo la colonizzazione spaziale del pianeta, la cosiddetta civiltà occidentale ha esteso la propria sfera di ingerenza e controllo anche al tempo. L’update a un capitalismo 24/7 si sta realizzando grazie a quella “ingegneria estetica della vita quotidiana” analizzata da Pietro Montani, in grado di alterare le capacità sensibili dei corpi e modulare le nostre percezioni (fino a dare forma alla miseria simbolica concettualizzata da Bernard Stiegler). Nel bel mezzo di questo “passaggio dalla biopolitica alla bioestetica”, cui naturalmente contribuiscono anche le nostre amate/odiate alleate, torniamo per l’ultima volta al Poscritto originale, quando Deleuze nel finale ci porge la mano, ricordandoci come “non [sia] il caso né di avere paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi”.
Nella prima sezione del testo abbiamo confrontato la sperimentazione estetico-formale del trittico Pharmako con quelle dei cattivi maestri del Novecento; a questo punto, per rendere esplicita l’attualità della via venefica pendelliana, è necessario metterla in relazione con due cattivi maestri del Duemila, entrambi allievi di Derrida e quindi devoti anche loro al pharmakon. Il primo è Stiegler, perché con la sua “maieutica tecno-logica di ciò che si chiama l’uomo” opera un radicale ripensamento dell’umano, segnalando la nostra necessaria e fondativa interdipendenza con le tecnologie. Alla luna e al sole del mito egizio di Tot e Tamus citati da Laura Tripaldi si deve aggiungere la famma del mito greco di Prometeo ed Epimeteo, caro al flosofo francese: mito del “difetto di origine” dell’essere umano, capace di diventare tale solo attraverso protesi tecniche (il fuoco portato in dono da Prometeo dopo l’errore del fratello che ci ha condannati all’incompiutezza). Anche per questo autore “l’estetica è diventata al contempo l’arma e il teatro della guerra economica” contemporanea e il riconoscimento della natura tecnologicamente mediata dell’umano serve per resistere alle automatizzazioni del capitalismo 24/7, nel suo “controllo dei tempi di coscienza e dei corpi attraverso la macchinazione della vita quotidiana”. In particolare, riappropriarsi del polo positivo del pharmakon – spiegano Sara Baranzoni e Paolo Vignola nella loro Postfazione a La società automatica – apre alla possibilità di ricercare “il carattere curativo di queste stesse tecnologie”, con l’intento di ricreare le condizioni di vita della nostra epoca iperindustriale, “dis-automatizza[ndo] tutto ciò che fa che la vita valga la pena di essere vissuta – a cominciare dai saperi, gli afetti, il desiderio e le relazioni”.
Il riconoscimento della natura tecnologicamente mediata dell’umano serve per resistere alle automatizzazioni del capitalismo 24/7.
Vorrei alimentare la fiamma stiegleriana con la sovversione incorporata del secondo cattivo maestro, il già citato Preciado. Attualizzando gli insegnamenti di dissidenti sessuali come – tra i tanti – il gruppo ACT UP (capace di sviluppare un sapere pratico dal basso per limitare il contagio da HIV) e presentando le lotte dei bio-hacker del genere e del sesso (nel loro rifuto della regolamentazione sugli ormoni imposta da Stato e case farmaceutiche) demarca la distanza con flosofi e attivisti del passato, perché non si condivide più “una visione della storia come produzione discorsiva, bensì consideriamo la produzione discorsiva come momento pregnante di un processo più ampio di materializzazione tecnica della vita sul pianeta”. In un mercato globale narcocapitalista, di cui De Sutter ha mostrato la funzione normalizzante delle bio-tecnologie, Preciado invita alla loro ri-significazione non solo simbolica, ma anche materiale seguendo “il principio di autocavia”. Una “[micro]politic
di sperimentazione corporea e semiotecnica” resa possibile dalla pirateria di ormoni, droghe, testi, saperi, in cui il corpo diventa un laboratorio politico per resistere al tentativo del capitalismo 24/7 di mettere la nostra “totale e astratta capacità di creare piacere, al servizio della produzione di capitale e della riproduzione della specie”.Ritorniamo quindi a Burroughs, al suo nemico numero uno (la parola) e alla sua volontà di ricreare una nuova mitologia collettiva per sostituire quelle precedenti, ormai antiquate. Numerosi critici esaltano la sua capacità attraverso il cut-up di rendere evidente l’impatto del linguaggio sul corpo umano (Steen Christiansen a tal proposito parla di bio-poetica); ma, anche in questo caso, la proposta burroghsiana sembra limitata dal mancato superamento di un’altra dicotomia, quella tra mente e corpo. Dal canto suo, quella pendelliana elimina qualsiasi divisione tra essi, dato che “il vero cervello si estende fino ai polpastrelli, alle superfici dei genitali” su tutta la superfice, interna ed esterna, del corpo; e si spinge oltre, superando qualsiasi limite antropocentrico per arrivare a comprendere in questa non-definizione di cervello anche l’Altro “inalato, ingerito o secreto” – niente di così bizzarro dopo la maieutica tecno-logica di Stiegler, no? Inoltre, non è riprodotta la tradizionale gerarchia che vuole la mente in una posizione di superiorità rispetto al corpo. Pendell non concepisce quest’ultimo come un prodotto esclusivamente discorsivo e, infatti, ne richiama continuamente la materialità nell’incontro con le alleate. Per queste ragioni, non si accontenta di rimpiazzare la “mitologia globale delle piante” con un’altra mitologia, ma è il cantore di una via venefica fondata sulla pharmakognosis, con “l’enfasi su gnosis rispetto a logos” per richiamare una conoscenza basata più sulla “[auto]sperimentazione che sulla teoria”. Filtrato attraverso le sapienti lenti di Stiegler e Preciado, il “Trittico del Giardino delle delize velenose” (e soprattutto il volume che avete tra le mani) diventa un anti-manuale di sopravvivenza al capitalismo 24/7, in particolare riguardo alle strategie di controllo estetico attuate attraverso una specifica categoria di bio-tecnologie.
I riferimenti nel testo sono infiniti e una loro sistematizzazione tradirebbe lo spirito anarchico che anima ogni pagina, mi permetto però di appuntare alcune questioni dirimenti. La capacità degli eccitanti di modulare le nostre percezioni quotidiane (“la tendenza alla linearità” del cafè e “la perdita di periferia” della coca) li rende “le droghe perfette del capitalismo [24/7]”. L’auto-sfruttamento di chi assalta il proprio sonno con l’obiettivo di “guadagnare tempo […] per “lavorare tutta la notte”” è l’esempio paradigmatico di come gli stimolanti automatizzino in chiave prestazionale la nostra esperienza sensibile e simbolica. Attraverso queste alleate incorporiamo un’etica mercantile basata sull’economizzazione del tempo e sull’ossessione per il raggiungimento della meta, compromettendo la nostra capacità di esplorare non programmaticamente il mondo.
Detto altrimenti, fin dall’inizio di Pharmako/Dynamis è resa chiara la nostra condanna: siamo intrappolati in un orologio, simbolo di un “controllo dei tempi di coscienza e dei corpi” (citando Stiegler) che in Pendell assume la sua espressione più pregnante nel racconto sul consumo problematico di freebase, quando si è derubati del domani, dell’oggi e dello ieri. Tutto questo è contemporaneamente anche il suo contrario. L’essere immersi in una cultura eccitata, l’essere “avvelenati dal tempo fisso” anche a causa delle alleate, non deve renderci “ciech[i] davanti alla loro intrinseca magnificenza”. È il caso del tabacco in Pharmako/Poeia, la più folle delle dipendenze ma anche uno dei modi più intuitivi per prendere coscienza e riappropiarsi del proprio tempo (e quindi di sé stessi). Alla “religione della velocità” è opposto il raccoglimento della sigaretta, perché fumare è il “respiro che diventa visibile: questa è la tua vita, questo è il tempo, tempo incarnato, che prende corpo perché tu possa osservarlo”.
Sul finire di Pharmako/Dynamis si torna all’orologio e lo si inceppa, attraverso una fusione con esso.
Mentre sul finire di Pharmako/Dynamis si torna all’orologio e lo si inceppa, attraverso una fusione con esso. Con la “techno-trance” mediata dall’MDMA è possibile imparare a muoversi “al passo della macchina” per spingersi oltre. In un territorio dove abbandonarsi all’antica dea del caso, in cui noi Automata possiamo sottrarci all’automatizzazione dell’esistenza per scoprire una forma di comunicazione antecedente – forse – alla parola: il ballo e la sua “devozione allegra”. E ancora, praticamente alla fine del suo percorso (in Italia), Pendell apre l’ennesimo sentiero da esplorare nel suo giardino selvatico, quando aferma che il piacere è “energia, la forza stessa della vita”. Così facendo apre un dialogo cronologicamente impossibile (ma che si fotta il tempo!) con Foucault e Preciado, perché assieme al secondo ci mette in guardia su quale sia la materia prima che il capitalismo 24/7 vuole espropriare a noi stessi, mentre assieme al primo ci ricorda come il piacere stesso sia un potente strumento di lotta e quindi di cura: “Non ho mai rifutato le sigarette. Non ho mai ritrattato il mio amore. Ho soltanto raffinato il piacere […] Ma non è che ho smesso, semplicemente non trovavo più il tempo per farlo”.
“Taking time out just to waste it instead of always fucking pacing” – 100 gecs
Prefazione a Pharmako/Dynamis di Dale Pendell, add editore, 2023.