N el dibattito degli ultimi vent’anni sul rapporto tra esseri umani ed entità non-umane, la cosiddetta “ecologia profonda” ha favorito il proliferare di una ricca terminologia dal carattere affettivo: multispecies kinship, care e mattering, non-human solidarity, interspecies companionship, compost coexistence. Se da una parte questo effluvio terminologico ha avuto il merito di portare al centro della discussione la questione ecologica con una forza letteraria pirotecnica, dall’altro sembra non aver prodotto alcun cambiamento sostanziale nel modo in cui interagiamo con gli altri esseri viventi. La solidarietà multispecie spopola nei circoli intellettuali e domina i dibattiti culturali, presagendo radicali trasformazioni etiche e comportamentali, eppure sembra non fare presa sulla nostra condotta morale. Perché?
Le teorie della solidarietà multispecie risultano accomunate da un certo carattere neo-vitalista, un indirizzo filosofico che postula l’identificazione tra psiche e vita, l’idea che nell’universo tutto è vivente, o che questo possieda un’“anima”, trovando dunque evidenti punti di contatto con l’animismo e il panpsichismo. Il neo-vitalismo problematizzato in chiave contemporanea rappresenta certamente un monito e una riflessione preziosa sui limiti dell’obiettività umana: ci aiuta a non dimenticare la rete di interdipendenze che ci circonda e il fatto che ogni sapere che ci riguarda riguardi al contempo altre entità, specialmente alla luce delle evidenze scientifiche ottenute alle frontiere delle neuroscienze animali e della cosiddetta neurobiologia o cognizione vegetale. Ma ciononostante le filosofie vitaliste della mescolanza sembrano come scritte da nessun luogo, aleatorie e senza approdo, quasi inadatte per costituzione alla creazione di prassi e azione politica.
Il fatto è che il pensiero postumano e le teorie relazionali contemporanee appaiono spesso in imbarazzo quando si tratta di declinare sul piano pratico i principi di “cura”, “etica” o “morale”, estendendoli ai soggetti non-umani. L’opera di Emanuele Coccia, ad esempio, rappresenta un’efficace sintesi di questo nuovo pensiero ecologico vitalista, ma anche delle sue difficoltà nell’esporre un’idea di morale e nel suggerire cambiamenti sostanziali nella politica delle cose. Da La vita sensibile (2011) a La vita delle piante (2018) fino agli scritti più recenti, Coccia si è iscritto a pieno titolo in quel filone del pensiero antiumanista e non-antropocentrico che guarda a tutti gli essenti da una prospettiva neo-vitalista, come se ogni essere fosse una forza cosmica irriducibile inserita in una rete di relazioni ecologiche che pervade l’intera biosfera.
La solidarietà multispecie spopola nei circoli intellettuali e domina i dibattiti culturali, eppure sembra non fare presa sulla nostra condotta morale. Perché?
Per Coccia, la “specie” altro non sarebbe che il riciclo di vite e forme più antiche, la trasmissione metamorfica del flusso vitale e la ricombinazione di qualità che passano da una generazione all’altra. L’eguaglianza e l’equivalenza non caratterizzano solo la storia evolutiva delle creature viventi ma tutte le dinamiche relazionali tra di esse, in una sorta di nuovo universalismo della materia organica senza l’ombra di conflitto che lo stesso Coccia definisce in Comp(h)ost. Immaginari interspecie (2021) come “comunismo biotico”. “La storia del pianeta”, scrive Coccia, “non è la produzione di specie sempre più sviluppate (come la teoria dell’evoluzione ci fa credere) ma la prova dell’equivalenza storica di tutte le specie”.
Ci sono qui alcuni elementi fondamentali della filosofia neo-vitalista: il rifiuto del dogma della materia inerte e della capacità di pensiero limitata all’umano; uno sguardo alla materia vivente come portatrice di spirito; una certa fascinazione estetica per l’animismo premoderno; infine la predilezione per una ribellione sentimentale, caotica e irrazionale da contrapporre al positivismo razionalista di un universo mosso solo da leggi meccaniche. Coccia fa leva su questi elementi per rivendicare il riconoscimento neo-vitalista di una maggiore dignità al mondo vegetale, colto in una visione profondamente metafisica e spirituale, mentre sembra avere una convinzione del tutto differente, ambigua e contraddittoria per gli animali non-umani. Nei suoi lavori si parla infatti a più riprese di “pregiudizio zoologico”, “narcisismo animale”, “tropismo animalista” per identificare una particolare fissazione di carattere predatorio che gli umani avrebbero nei confronti degli animali non-umani, definita così in Metamorfosi (2022):
Si tratta di un desiderio connesso al forte senso di colpa che ci lega al cibo, alla nostra incapacità di capire che cosa succede veramente quando mangiamo. Questo profondo senso di colpa si ritrova nel dibattito sul vegetarianismo: ci sentiamo talmente in colpa per il fatto che la nostra vita comporti la morte di altri esseri viventi che preferiamo stabilire un limite arbitrario, un confine artificiale tra gli esseri viventi che soffrono (gli animali) e quelli che non soffrono (le piante).
Nel parlare di “senso di colpa” Coccia cerca di interpretare il motore emotivo di forme di attivismo quali veganesimo e animalismo. Eppure, più che intaccato dal “senso di colpa”, il nostro rapporto con gli animali non-umani è segnato da un accanimento che non sembra conoscere freni. Ogni anno la pesca stermina da uno a tre trilioni di animali, alleviamo e sopprimiamo almeno 100 miliardi di animali per cibo, altri 115 milioni per scopi di ricerca, mentre novecento milioni di animali muoiono negli allevamenti per stress, malattia, o sovraffollamento. Nei soli zoo europei vengono abbattuti tra i 3.000 e i 5.000 animali, spesso solo per questioni di spazio, e sono oltre 400 milioni gli animali eliminati dalle battute di caccia solo in Italia. Si stima poi che edilizia e incidenti stradali insieme spazzino via un altro miliardo di animali circa, e la deforestazione fa il resto distruggendo gli habitat e spingendo verso l’estinzione migliaia di specie. Prima che del mondo e del suo spirito, la società sembra piuttosto negare o essere inconsapevole del proprio “zoosadismo”.
Le teorie relazionali contemporanee appaiono spesso in imbarazzo quando si tratta di declinare sul piano pratico i principi di ‘cura’, ‘etica’ o ‘morale’, estendendoli ai soggetti non-umani.
Di fronte a una simile tanatopolitica, violenza inter-specifica e mercificazione della vita animale, molte delle teorie neo-vitaliste oggi così in voga mostrano un’allarmante sterilità. Secondo Coccia “mangiare significa travasare la vita altrui nel nostro corpo”, come se la vita fosse un fluido magico che è nella materia e allo stesso tempo ne è del tutto indipendente, indifferente a qualsiasi processo di trasformazione o di alterazione. “Non importa se morti, cotti, affumicati o essiccati”, continua Coccia, “noi abbiamo bisogno di corpi viventi. Ciò che mangiamo è sempre e solo vita. Mangiare significa fondere due vite in una sola”. Per quanto invasivi o brutali, i processi con cui trasformiamo il vivente in alimento non importano, ciò che conta metafisicamente è che la vita si nutre di ciò che un tempo era vita a sua volta: “un pollo, un bue, un pomodoro, una patata, un chicco d’orzo, non sono soltanto forme di vita confinate nei limiti del proprio corpo, ma corpi capaci di trasmettere la loro vita allorché entrano nel corpo di un altro”. Viviamo di carne altrui da sempre, cioè di una ricombinazione della materia: in questo consiste la reincarnazione vitalista per Coccia.
Legate a vitalismo, totemismo e animismo sono anche le filosofie e le ontologie multiple di stampo prospettivista. Secondo il metodo prospettivista, la griglia concettuale moderno-occidentale che separa la realtà in “natura” e “cultura” non può essere applicata nell’interpretazione di cosmologie indigene, dove invece una molteplicità di punti di vista – umani e non – si compenetrano e compongono insieme il mondo in diverse forme esistenziali in grado di esprimersi tutte con pari dignità. Il prospettivismo indigeno è però affatto alternativo al paradigma occidentale rispetto al consumo degli animali, e anzi sembra presenti le stesse fragilità riscontrabili nelle teorie ecologiche vitaliste.
In Oltre natura e cultura (2021) l’antropologo Philippe Descola individua in giro per i continenti i tratti comuni di un modo di guardare alla continuità tra uomo e ambiente, trovando relazioni e corrispondenze nelle quali le frontiere delle “collettività” appaiono alternative alle classificazioni e alle nomenclature occidentali. In svariate comunità indigene la natura non si contrappone alla cultura e alla vita sociale umana, ma ne è la propagazione. Si tratta di società in cui, per ragioni di contingenza, la caccia esercita ancora un ruolo importante, eppure nelle testimonianze riportate dall’antropologo l’atto violento dell’uccisione è rinarrato dalle culture indigene in varie forme, sempre con l’intento di rendere il sopruso più accettabile e meno traumatico.
Di fronte a una simile tanatopolitica, violenza inter-specifica e mercificazione della vita animale, molte delle teorie neo-vitaliste oggi così in voga mostrano un’allarmante sterilità.
L’uccisione di una creatura rappresenta un problema persino in quelle culture dove questo è un bisogno dal quale non è possibile sfuggire: “la dissimulazione delle intenzioni, la censura sul nome dell’animale o l’uso di eufemismi per parlare della sua uccisione sono regole imperative”, fa notare Descola. La crudeltà dell’atto verso l’animale è il motivo per cui quell’esperienza è negata, rinarrata, edulcorata. L’esercizio della violenza verso qualcuno considerato nostro “pari” costringe le stesse popolazioni indigene a interrogarsi sulla coerenza interna di alcune loro credenze. Il resoconto di Descola continua attraverso le parole degli sciamani:
Il più grande pericolo dell’esistenza deriva dal fatto che il cibo degli uomini è interamente costituito di anime. Se gli animali sono persone, in effetti, mangiarli implica una forma di cannibalismo […]. Come impossessarsi della vita di un altro esistente dotato delle mie stesse caratteristiche senza che tale atto distruttivo comprometta i legami di complicità che ho saputo instaurare con la comunità dei suoi simili?
Là dove vige l’idea di una vita espressa apparentemente senza categorie, egualmente presente e significante in tutte le creature, il rapporto con il consumo dell’altro è ancora marcato dalla rimozione e da quel “senso di colpa” denunciato da Coccia. Ma le culture indigene dimostrano grande consapevolezza di questo conflitto delle intenzioni, e si pongono problemi sul consumo degli animali non-umani che invece molte delle posizioni ecologiche radicali contemporanee non sembrano interessate o in grado di porsi.
Queste popolazioni, pur non potendo fare a meno di una certa fonte di sostentamento, affrontano da sempre il dilemma della propria e dell’altrui esistenza, in modo esplicito e per nulla autoassolutorio. Se le creature viventi sono tutte ugualmente degne del gioco della vita, se l’interiorità di prede e cacciatori sono identiche, se gli attributi che assegniamo loro sono fondamentalmente gli stessi che riconosciamo a noi, come e in quali casi queste stesse caratteristiche possono essere negate? È la domanda che si pone anche Descola:
Possiamo interrogarci sulla validità di una tale trasposizione che fa dello sciamano il saggio amministratore di un ecosistema e dell’insieme delle credenze religiose e dei rituali una forma di trattato di ecologia pratica. […] Non si capisce bene, quindi, come questi partner sociali degli umani possano improvvisamente perdere, in alcune circostanze, il loro status di persone per essere trattati niente più che come semplici unità di calcolo da ripartire in un bilancio energetico.
Nonostante la fluidità e la refrattarietà alle classificazioni, le gerarchie di specie esistono anche nelle culture indigene, alcuni animali sono guardati con maggiore favore, altri vengono posti al gradino più basso della scala sociale in quanto esseri solitari, altri ancora vengono reputati sempre sacrificabili. Ne emerge un animismo che non è affatto non-antropocentrico, anzi: i rapporti con ambiente e animali sono replicati sulla base dell’ordine umano e delle sue contingenze. A imporsi dunque non è mai – non può esserlo – la presunta “uguaglianza della vita”, ma il nostro ben più artificiale sistema di relazioni. Quando ciò è giustificabile? E se i soggetti della foresta sono, in fondo, solo umani in altre vesti, dov’è il riconoscimento dell’alterità e del suo valore? Quale autonomia le stiamo riconoscendo?
Anche nelle culture indigene i rapporti con ambiente e animali sono replicati sulla base dell’ordine umano e delle sue contingenze.
Proprio per questo è facile notare come anche altre culture profondamente animiste, come quella giapponese, non abbiano alcuna remora nei confronti di specie marine ritenute in pericolo di estinzione, oppure ancora di come popolazioni considerate tradizionalmente ambientaliste ed ecologicamente accorte, come quelle del nord Europa, non provino alcun rimorso nel protrarre mattanze di delfini o balene. Ecco perché l’accento su di una cultura animista o vitalista, piuttosto che un’altra, diviene fuorviante: finora, il sistema di credenze animistiche non si è dimostrato in grado di fornire risposte soddisfacenti riguardo al rapporto tra animali umani e non-umani, e non sembra poter davvero rappresentare la chiave per la ridiscussione di un principio di giustizia.
Dovremmo piuttosto mutare i nostri modelli ecologici da quelli del cacciatore indigeno al “tracciatore” di cui parla Baptiste Morizot in Sulla pista animale (2020): tornare ai nostri antichi comportamenti e istinti di caccia ma non per uccidere, bensì per rivelare. Tracciare gli animali vuol dire conoscerli, farne esperienza, sentirsi circondati da altre percezioni, tornare a comprendere le relazioni della coevoluzione. Nessun altro senso recondito, nessun arricchimento, nessuna nuova connessione è data invece nell’uccisione – che è solo l’atto finale e più sterile della caccia – se non quella di necessità e sussistenza (in alcuni casi), di vertigine e potere (in altri), o in ultimo di una intellettualistica prospettiva magico-simbolica.
Nell’intervista Il faut bien manger (1991) con Jean-Luc Nancy, Jacques Derrida sostiene che non possiamo evitare di assimilare l’altro, che abbiamo bisogno di mangiare e che mangiare “fa bene”, in senso sensoriale e morale. “Per lui”, scrive la filosofa Kelly Oliver, “la domanda diventa come mangiare, non cosa mangiare (motivo per cui può affermare di essere vegetariano nell’anima, anche se mangia carne)”. L’ontologia dell’animale non-umano torna a essere ridotta alla considerazione che noi ne facciamo di volta in volta, in un contesto storico determinato, come di “buon cibo”, e questo apparentemente soddisfa o giustifica persino il dato della violenza come categoria del pensiero, dunque proprio quell’assioma tragico e negativo che il neo-vitalismo di Coccia dice di voler sostituire.
Il sistema di credenze animistiche non si è dimostrato in grado di fornire risposte soddisfacenti riguardo al rapporto tra animali umani e non-umani.
Mangiare qualcun altro vuol dire mangiarlo sempre a certe condizioni: dominio, oppressione, sfruttamento, spendibilità. In questa relazione il potere è tutto spostato a nostro favore. Se oggi l’umanità affronta un destino metafisicamente paragonabile a quello dell’animale, non è certo per via di uno scambio di ruolo vitalista: ciò che oggi accomuna umanità e animalità avviene tutto nel segno negativo del soggetto come risorsa, non in qualche supposta reciprocità della “vita”, non in un “donarsi”. Il filosofo non nutrirà parimenti, spiritualmente o materialmente, né il pomodoro né il pollo.
Nell’equivalenza neo-vitalista degli essenti professata da Coccia non esistono invece differenze di sostanza ontologica né, di conseguenza, differenze di valori: se tutto ciò che cambia è solo la forma che assumiamo, allora tutto vale esattamente lo stesso. Coccia ha ragione nel dire che noi e tutto quanto intorno siamo il risultato di un processo vecchio come l’universo, insieme causale e casuale. Ciò detto, la nostra esperienza fenomenologica ci mostra in ogni istante presente, passato e futuro, che l’idea di una equivalenza o uguaglianza ontologica tra gli essenti, oltre che impraticabile, risulta assurda. Se la vita è indistinta e indeterminata, perché abbiamo bisogno di cibarci di animali? Cosa rende necessaria quella vita al posto di altro? Ecco che l’idea vitalista ha appiattito orizzontalmente tutte le creature viventi su di un’unica dimensione – quella del consumo – finendo col riprodurre le stesse strutture di dominio che mira a smantellare.
Il discorso così impostato su di una di vita indifferente nel suo essere carne o radice sembra piuttosto continuare a rendere alcuni corpi più sterminabili di altri. Il filosofo, il professionista cosmopolita, non un indigeno nella foresta pluviale o un nativo nordamericano, può scegliere in ogni momento di non alimentare la relazione estrattivista alla base del consumo alimentare animale e optare, utilizzando il lessico di Coccia, per altre “forme di vita”. Come scorgere altrimenti nuove relazioni di solidarietà nella mescolanza vitalista?
La trasformazione in nuova materia vitale passa necessariamente dal decadimento dei corpi e la morte o persino la sofferenza sono ovunque, ci ricordano i teorici della mescolanza o del compost, talmente intrecciate al procedere della vita stessa da rendere vani i nostri tentativi di imbrigliarne moralmente il senso tramite le scelte. Ci si confronta con un pensiero il cui carico è appesantito da una coltre di giustificazioni eccezionali, generalmente accurate, come “la necessità della morte nella vita” o quella del “sacrificio moralmente giustificabile”, le quali problematizzano oltremodo la questione fondamentale, già complessa di per sé, in modo quasi insostenibile.
L’idea vitalista ha appiattito orizzontalmente tutte le creature viventi su di un’unica dimensione, quella del consumo, finendo col riprodurre le stesse strutture di dominio che mira a smantellare.
Il problema del pensiero vitalista non è solo di non poter esprimere un impegno in una prassi di qualche genere, ma di non rendere pienamente visibile, e quindi contestabile, tale posizione di vantaggio accordata all’umano nell’idea di “condividere la carne di tutti”. Nascosta dietro l’enfasi del groviglio, della molteplicità, dell’identità della vita, della complessità irriducibile, la responsabilità si disperde, anzi viene preclusa: invocare la molteplicità smista le fondamenta della causalità verso una costante incertezza. Al contrario, l’uso dei corpi che facciamo gli uni degli altri può essere sempre contestualizzato da scelte e condizioni, non possiamo quindi limitarci a ribadirne una generale inevitabilità. Ecco: ciò che alla fine viene meno nelle teorie neo-vitaliste, non è tanto la morte, ma proprio la vita che vorrebbero difendere.
Il riconoscimento delle profonde relazioni multispecie non è di per sé sufficiente a prevenire la trasformazione della vita in risorsa. Bisogna notare come una parte del pensiero filosofico ecologico abbia preferito recuperare l’animismo e attingere all’irrazionale, per confinarlo in una attiva paralisi, senza proporre nessun vero cambio operativo, nessuna vera risposta, ma solo una comprensione estetizzante della realtà, mentre fuori si perpetuano i pogrom delle specie animali e della biodiversità. Le bio-ontologie vitaliste sembrano far parte a buon titolo di una strategia di reincantamento del mondo: illudersi di poter compensare la perdita reimmettendo nella natura simbolicamente, discorsivamente, la vita che continuiamo a sottrarle. È un punto che il filosofo Reza Negarestani mette in luce in Intelligence and Spirit (2018):
Parlare di foreste pensanti, rocce, scarpe consumate ed esseri eterei va a braccetto con il culto della singolarità tecnologica, le riflessioni su Skynet o il mercato come intelligenza postumana speculativa, e computer dotati di intuizione intellettuale. E ancora, ormai dovrebbe essere diventato ovvio che, nonostante l’apparente antagonismo tra questi due campi – uno che promuove il cosiddetto egualitarismo andando oltre le condizioni umane e rinunciando quindi alle risorse razionali della critica, l’altro che promuove gli aspetti speculativi sulla base del superamento tecnologico della condizione umana – entrambi appartengono infatti all’arsenale del capitalismo neoliberista d’oggi, nel suo pieno assalto a qualsiasi resoconto d’intelligenza che voglia insinuare anche lontanamente un’ambizione di razionalità e immaginazione collettiva.
Nonostante le premesse di un discorso che vuole essere radicale e superare ogni confine tra i mondi del vivo e persino dell’inanimato, muoversi oggi nel terreno delle posizioni neo-vitaliste è assai meno scomodo, meno compromettente, che parlare del vecchio mondo animale. È eticamente meno dispendioso, sia a livello personale che sociale. La questione ecologica e le sue implicazioni – abitare uno spazio, modificare l’ambiente, il sistema socioeconomico, il rapporto con l’Altro – non sono concretamente presenti nell’iperbole lirica del pensiero neo-vitalista che finisce per dissolvere il proprio principio come in una soluzione omeopatica. Il discorso natural-culturale, non potendo spingersi oltre, si ferma subito prima di divenire pienamente politico: non ci ha resi – e mai potrà – capaci e responsabili allo stesso modo. Le poetiche (più che le politiche) vitaliste non sembrano di nessun aiuto nel generare risposte alternative alle relazioni ecologiche.
Il riconoscimento delle profonde relazioni multispecie non è di per sé sufficiente a prevenire la trasformazione della vita in risorsa.
Il voler ritenere la filosofia come estranea da una ricaduta pratica, svincolata dalle azioni che compiamo, è una posizione ancora iscritta alla trascendenza filosofico-morale dei secoli passati. Una filosofia pilatesca, ferma alla prescrizione del saggio e della sua conoscenza: come scrive John Basl in The Death of The Ethic of Life (2019), “il metodo sembra semplicemente descrittivo piuttosto che prescrittivo. Dice e mostra cosa è il mondo, come è e come è diventato così, ma non se è desiderabile, buono o se dovremmo cambiarlo”. La teoresi del bios, l’approccio prospettivista e neovitalista: il dubbio è che queste filosofie vengano così spesso evocate e così ben accolte non tanto in virtù della loro “alternatività”, ma proprio perché inattuabili. E dunque, mentre l’idea di una vita eterna che abbraccia tutti noi e alla quale tutti apparteniamo indistintamente dovrebbe in qualche modo cambiare tutto, trasformare magicamente e spiritualmente il nostro sguardo sul mondo, in realtà scopriamo che niente cambia.
Dobbiamo vigilare per far in modo che il discorso neo-vitalista non si tramuti semplicemente in questo: un sentimento para-ecologista fatto di preghiere per il pasto consumato, preghiere per l’animale ucciso e gli spiriti perduti. Altrimenti c’è il rischio che il vitalismo rimanga soltanto una forma possibile di diagnosi, non una cura, manifestandosi ancora come perpetuazione, reazione, conformismo. Ricongiungere teoria e pratica, persino teoria e militanza: in un tempo di urgenze come quelle che affrontiamo ogni giorno è il mondo stesso, le singole creature che lo abitano, a chiederci di allineare meglio le nostre azioni al nostro lessico.