È stato Max Weber a coniare l’espressione “disincanto del mondo” per intendere quel particolare afflato che porta la modernità a svalutare le esperienze metempiriche a discapito di un orgoglioso razionalismo, declinato in progresso tecnologico, crescita, laicità. Il mondo contemporaneo si è così reso centripeto rispetto a questa mitologia della logica, a questa crociata tesa a illuminare gli antri, a rettificare il mondo secondo una geometria tutta antropogenica per cui ciò che è dritto è bello e giusto – il termine greco orthos, del resto, significa dritto ma anche giusto, ed è rimasto a indicare chi “raddrizza”, “corregge”, come l’ortopedico. Quest’idea di drittezza che informa la cultura moderna spinge per essere considerata come unico orizzonte possibile: una realtà geometrica e orizzontale da opporre al mondo reale e ai suoi misteri.
Oggi, poi, lo schiacciamento sul presente del mondo globale e la sua conseguente incapacità di proiettarsi verso un futuro radicale che rielabori il collasso a cui sta andando incontro, sono sintomi di una crisi che è primariamente crisi dell’immaginario, della cultura e delle sue possibilità, dovuta anche a questa prigionia all’interno di orizzonti immutabili. Federico Campagna – studioso di Metafisica alla Royal Academy di Londra oltre che editor di Timeo – ha scritto un saggio, Cultura profetica. Messaggi per i mondi a venire (Tlon, 2023), il cui obiettivo è ripensare il presente alla luce di chi verrà dopo di noi, spostando così nel futuro il baricentro del discorso sull’oggi in termini non solo di urgente intervento rispetto alle crisi circostanti, ma anche nel tentativo di lasciare un’eredità migliore a chi prenderà il nostro posto.
Il mondo contemporaneo si è reso centripeto rispetto a questa mitologia della logica, a questa crociata a rettificare il mondo secondo una geometria tutta antropogenica.
Il tuo libro parte dal presupposto che la realtà non sia data come un elemento naturale e oggettivo condiviso, ma che ognuno vive e abita mondi diversi, plasmati da coordinate culturali differenti. A tale proposito, chiami giustamente in causa un concetto mutuato da Heidegger, il cosiddetto worlding, la capacità umana cioè di “fare mondo” che coincide in buona sostanza con la possibilità di coesistenza tra una o più realtà nel tempo e nello spazio. Nel mondo di oggi sembra dominare a livello globale la narrazione del reale che chiami “modernità occidentalizzata”, quella cultura, cioè, legata allo sviluppo tecnologico e all’economia capitalista della quale stiamo osservando una progressiva crisi. Ma se lo scopo del libro è indirizzare un messaggio a chi verrà dopo di noi, come sarà possibile attuarlo se i posteri saranno estranei al nostro racconto del mondo e immersi in una realtà in movimento su vettori a noi completamente ignoti? In che modo potremo comunicare loro un’eredità?
Creare in questi termini un mondo nuovo è una pratica particolarmente difficile e noi in qualche modo abbiamo una responsabilità per così dire “parentale” nei confronti di chi verrà dopo di noi e si troverà a ricostruire la realtà dopo di noi. Quest’aspetto è facilissimo da cogliere, se si guarda la questione ambientale. Oggi, finalmente, abbiamo capito di avere una responsabilità ecologica nei confronti delle generazioni che verranno e che questo onere non consiste affatto nel “congelare” l’ambiente intorno a noi esattamente com’è adesso, ma di renderlo così vitale che quando arriveranno altri, sarà fertile e vivo, invece di ucciderlo. Culturalmente abbiamo lo stesso compito. Il nostro compito culturale non è quello di consegnare a chi verrà dopo di noi un archivio della nostra idea di mondo e di realtà, di quello, insomma, che abbiamo creduto. Che importa dare ai posteri un giardino già costruito, articolato e vincolato a specifiche forme? Dovremmo consegnargli, invece, una foresta fertile di storie sulla realtà, che servano – a loro – per costruire nuove storie sulla realtà. In fondo, una nuova mitologia. Ecco la cultura profetica.
Sempre in relazione al concetto di “mondificazione” nel libro scrivi che ciò che noi percepiamo come realtà – come costrutto sociale – non è altro che un “canto”, un’idea collettiva che quotidianamente, credendoci, mettiamo in atto come un diligente coro. Da qui discende il tuo forte relativismo verso le presunzioni della nostra cultura occidentale, in particolar modo quando la prospettiva da cui tendiamo a considerare il nostro tempo appare totalizzante nel sentirlo moderno in senso assoluto, come se appunto la nostra realtà (o idea di realtà) fosse l’unica possibile, l’unica esistente e, forse, l’unica da salvaguardare. Ma come possiamo quindi fare un passo al di fuori di questo nostro stesso “canto” per guardare a chi verrà da una prospettiva in cui il crepuscolo che si dice incombere sembra non arrivare mai?
All’inizio del libro ho messo una storiella che viene da un libro di René Daumal in cui il protagonista racconta che, da ragazzo, aveva sentito parlare di questa zanzara che quando pungeva, uccideva. Funzionava così: la zanzara ti pungeva, tu ti addormentavi e quando poi ti svegliavi, eri morto. Già morto. Ecco, più o meno credo che le apocalissi funzionino così. La fine del mondo non è un fenomeno che accade come in un film americano in cui ti accorgi che sta avvenendo, contemporaneamente al verificarsi dei fatti. Invece, penso che sia più corretto dire che di un evento simile ci si accorge solamente dopo che è successo. Questo crepuscolo che non finisce di finire è più un dato percettivo che reale. Non possiamo accorgerci del momento in cui il nostro mondo finisce, ma solo quando è già accaduto. Ci svegliamo e siamo già morti, come nella storia della zanzara. Culturalmente e percettivamente le cose trovano più verità in questo meccanismo che nell’ansia di veder arrivare i barbari: non c’è nessun evento. E questa cosa storicamente è già avvenuta, basta pensare a come il mondo medioevale guardava a quello antico. Siamo stati noi moderni a dire ai medievali, parlando da un altro futuro, che il mondo di cui si credevano epigoni era in realtà già finito da un pezzo. Quindi più che ragionare su una maniera hollywoodiana, preferisco occuparmi di una fine del mondo che arriva con le tempistiche lunghe e silenziose della storia.
Come questa fine silenziosa che descrivi si relaziona con la percezione diffusa – e talvolta teorizzata – di un presente che sembra estendersi sempre un po’ di più fino a coprire l’orizzonte del futuro, rigettandoci costantemente in un regno dell’uguale?
Per parte mia, non sono totalmente d’accordo sulla questione di un presente in estensione. È vero, molti dicono e hanno detto che viviamo in un presente che si riproduce e non termina mai, ma è vero che il presente non è un concetto che possiamo tirare in ballo tanto alla leggera. Ontologicamente, il presente è questione di un attimo, è una modalità temporale tipica dell’estasi. Vivere il presente in senso assoluto è cosa da pochi e pensare di replicare una simile intensità in maniera diffusa ci racconta più di uno stato di grazia che della realtà in cui ci muoviamo. Ciò che percepiamo come inceppato, non è il presente; è la nostra contemporaneità. Di certo, siamo bloccati all’interno di una temporalità specifica che contiene passato, presente e futuro. Di questi credo che il presente sia in realtà il più elusivo e che la nostra temporalità sia invece sbilanciata verso il futuro; questo squilibrio può essere messo in atto con tanti tratti differenti. Può essere entusiastico e ottimista, come negli anni ‘80, edonistico e incurante come nei ‘90, oppure paranoide e suicidario come il nostro presente. Ciò che importa è che per come osserviamo il tempo dalla finestrella della nostra modernità è sempre al futuro che guardiamo, perché, socialmente e idealmente, è lì che prevediamo di realizzare i disegni dell’oggi, lì sta la naturale estensione della progettualità collettiva.
Ecco, a questo punto, se siamo contemporanei, tutti noi, volenti o nolenti – soprattutto nolenti – siamo parte di questo progetto verso il futuro. Lo siamo anche quando non vogliamo ed è questa la sensazione di inevitabilità che percepiamo, questa la nostra difficoltà: sembra difficile uscire da questa proiezione verso uno specifico futuro, verso un tempo cioè che sembra delinearsi in forme precise. Ecco, la dialettica che abbiamo davanti è questa: presuppone le magnifiche sorti progressive della modernità occidentalizzata in cui viviamo e a noi sembra solamente o di poterne abbracciare la realizzazione o di impuntarci per fermarle. Quello di cui parlo nel libro, invece, tenta di riconcettualizzare questa visione del tempo come gabbia. Cultura profetica parla del fatto che noi oggi possiamo pensare che il nostro futuro non è una linea infinita da cui non potremo mai uscire, un orizzonte che si sposta via via che camminiamo. Possiamo, invece, immaginare una fine e oltre la fine di questo futuro l’esistenza di un’altra storia, completamente differente, e ripensare di conseguenza un nostro ruolo, oggi, non solo dentro, ma anche oltre l’orizzonte del nostro futuro. Se rimaniamo dentro ai nostri confini, non serviremo altro che questa narrazione nelle sue diverse parti; oltre ad essi, invece, possiamo aspirare a un compito completamente diverso.
Mutare il nostro ruolo significa mutare la nostra prospettiva sul mondo: come possiamo attuare questa trasformazione, uscendo dalla funzione di conservatori ostinati del mondo presente, da archivisti alla fine dell’impero?
Per uscire dall’idea che il mondo che abitiamo sia l’unico possibile, io suggerisco di considerarci non come abitanti del presente, ma del passato. Perché è chiaro che a seconda del modo in cui ci identifichiamo la nostra prospettiva culturale è in grado di cambiare radicalmente. Certamente, oggi, siamo gravati da un’attitudine faraonica a portare tutto con noi durante la fine che sentiamo imminente. Io però mi sto rivolgendo anche e soprattutto ai produttori di cultura e sto suggerendo che ci sia una nostra responsabilità nei confronti di chi verrà dopo di noi, così come chi si occupa dell’ambiente si rivolge alla politica sottolineando il ruolo che ricopriamo verso il futuro. Nello specifico, questa responsabilità non ha a che fare con l’archiviazione di quello che abbiamo fatto noi, non ha nemmeno a che fare con noi. L’attitudine parentale di cui parlavo è tale nella misura in cui ciò che trasmettiamo a chi verrà dopo di noi, non deve essere il catalogo esatto di cosa abbiamo fatto al fine di avere una magnifica e perfetta fotografia di noi. Quello che interessa a chi verrà è di avere un passato migliore, ovvero un passato da cui poter attingere. E se questo significa modificarlo in modo da renderlo più fertile per loro, come un serbatoio di memorie migliori, di ispirazioni migliori a costo di mentire, modificare, cambiare, oggi, su ciò che siamo stati, ieri, ben venga. Ed è esattamente ciò che propongo.
Alla luce di questa postura che la società dovrebbe assumere collettivamente, come valuti il fatto che al centro del dibattito sociale ci sia oggi una frattura tra generazioni che appare essere più profonda di quelle già avvenute in passato. I giovanissimi sembrano oggi non riconoscere come propria la cultura che, appunto, ereditano, aprendo un conflitto che si basa esattamente su questo disconoscimento del passato e mettendo in discussione non solo alcune dinamiche della società odierna, ma forse l’impianto ideologico e culturale che l’ha prodotta. Come valuti questo rapporto tra generazioni e come pensi che sia possibile indirizzare una comunicazione al futuro partendo dalle fratture del presente?
L’impressione che ho non è quella di avere davanti a me dei giovani rivoltosi e insofferenti. Rispetto alla condizione in cui si trovano mi sembra invece che le ultime generazioni siano fin poco inclini al conflitto. Posseggono sì certi elementi molto specifici su cui hanno deciso di investire come le loro libertà personali, la fluidità di genere e il rapporto con il proprio corpo, anche il clima e l’ambiente. Ma detto questo, il vero conflitto che a me sembra di osservare tra le generazioni passate e quelle presenti mi pare molto simile a quello tra le classi sociali, ossia un conflitto unidirezionale. Come le classi capitalistiche stanno conducendo una lotta serrata contro quelle lavoratrici e proletarie, da sopra a sotto, così mi pare che le generazioni più anziane si stiano accanendo contro quelle più giovani bloccando ogni possibilità di ridistribuzione di reddito, di accesso ai mezzi di produzione, di mobilità sociale. E come le classi lavoratrici e impoverite giacciono oggi sorprendentemente tranquille dentro questa lotta condotta contro di loro, così i giovani mi sembrano eccessivamente quieti, nonostante gli apparenti risvegli degli ultimi anni. Per quanto riguarda il nostro rapporto con le generazioni che verranno, io sposto il bersaglio un po’ più in là, in una prospettiva di lungo termine. Quando ho scritto questo saggio, ho assunto la posizione del filosofo con una passione per l’archeologia e l’antichità classica, ed è da questa prospettiva che mi sono posto la domanda alla base di Cultura profetica: in che modo possiamo rimanere o restare o dare o essere generosi nel futuro, così come pochi altri popoli sono stati prima di noi; popoli che ci hanno dato cose fantastiche, come Omero, l’epica, l’astronomia, l’idea dell’aldilà, che ci hanno regalato il linguaggio, la grammatica? E noi? Cosa lasciamo?
Una criticità che mi permetto di rilevare però è questa. Se è vero che da un lato hai disaminato lo scontro tra classi e generazioni come un conflitto direzionato dai forti contro i deboli, dai ricchi contro i poveri, vecchi contro giovani, sostenere che il tuo libro – il quale preconizza la rivoluzione di una prospettiva metafisica su scala totale – abbia come referenti particolari i produttori di cultura non rischia di incappare in una posizione tanto elitista quanto quella egemonica che bersaglia? Di chi è appannaggio questa cultura profetica?
Nel libro utilizzo una serie di figure simboliche che esprimono vari ruoli comunicativi in una società. C’è lo sciamano, il mistico, il sacerdote e altri. Di molti di questi ruoli dico che in effetti non è da tutti sostenerli, in nome dello sforzo che richiedono. Ad esempio, il ruolo dello sciamano non è sostenibile per tutti in una collettività tribale ed è senz’altro particolarmente elitario proprio perché non tutti possono ricoprirlo. Per il profeta, però, le cose stanno diversamente. Quando definisco il profeta non sto più parlando di una figura, di un ruolo da ricoprire singolarmente, ma di una posizione. È, cioè, un modo particolare di guardare verso la realtà, un modo particolare di immaginare se stessi, di modulare la voce. Tutti lo possono fare. Il profeta non è uno, è nessuno, ovvero è un “uno” anonimo. Il profeta è quella stessa figura che ha edificato le cattedrali del gotico europeo – tutte costruite da architetti anonimi –, il profeta è Omero dietro cui si celano tutti e nessuno. Ecco, la figura del profeta la vedo esattamente come un mito collettivo che è però in grado di riverberarsi e di essere composto dalle anonime singolarità che lo compongono, le quali a loro volta non devono essere per forza tutte concordi – non siamo in un comitato centrale – quanto piuttosto compartecipare di questo racconto collettivo. Perciò ecco che tutti possono ricoprire un ruolo profetico.
Data questa natura topologica e quasi postumana del profeta, ti chiedo se e in che modo possono rientrare nella cultura profetica tutti quegli elementi estranei all’antropocentrismo. Presupponendo questa sua essenza corale, la postura del profeta riesce a sganciarsi, a superare, questo aspetto culturale rispetto al mondo circostante?
La figura del profeta è in questo senso centrata sull’idea che il mondo è composto da una serie di consapevolezze che osservano una realtà di per sé senza confini, senza linguaggio e senza ordine. Un caos che, guardato, viene ordinato tramite la creazione di mondi. Quello che fa il profeta è soffermarsi su quell’atto; il profeta è colui che osservando il reale coglie il momento in cui il caos diventa cosmos, in cui un abisso senza senso viene chiuso e legato dentro un ritornello di senso. Focalizzandosi su questo il profeta tiene a mente contemporaneamente il fatto che il tempo e il mondo sono storie possibili, mentre con l’altro occhio e l’altro orecchio vede e sente il fatto che il tempo e il mondo in realtà sono storie false, fittizie, che la realtà in qualche modo non le contiene e le contraddice. Il profeta fa tutto questo contemporaneamente, con un piede dentro e uno fuori dalla storia e dal mondo.
Da quanto abbiamo detto, però, è rimasto escluso il metodo. Tu descrivi il profeta come questa figura ibrida, che fa un passo indietro rispetto alla sua coscienza, che vede il linguaggio e vede l’indicibile insieme – scrivi tu che “è colui che si rende conto che il mondo non è nulla né un’illusione, ma è soltanto un mondo”. Ma se in questo discorso è centrale l’idea o l’atto del mondificare, attorno ad esso, in qualità di atto – anche – estetico, diventa centrale lo stile con cui tutto ciò si compie. Quale stile deve avere il profeta?
La posizione profetica, dicevo, supera di per sé il concetto di autore e anche l’idea della sua morte, entrambe caratteristiche prettamente moderne, se non novecentesche. Come ho già detto prima, la posizione del profeta ha molto più in comune con un modo di pensare la figura autoriale tipico del medioevo o delle età arcaiche. Ciò a sua volta genera un rapporto particolare nei confronti del pubblico. Il pubblico stesso viene fatto scomparire, cosa che invece generalmente nell’arte contemporanea non si fa – anzi, oggi assistiamo piuttosto a una scomparsa dell’autore e a una glorificazione del pubblico. A differenza di quelli che Claire Bishop chiama artificial hells, riferendosi alla presenza invasiva e partecipativa dello spettatore davanti all’opera d’arte, io suggerisco di abolire anche il pubblico. Altri aspetti dello stile hanno invece a che fare con l’idea del parlare. Fondamentale per me è l’idea del balbettare, la possibilità cioè di utilizzare un registro a un tempo chiaro, descrittivo, ma anche spaventosamente oscuro. Questi intervalli di oscurità in un piano assolutamente chiaro non rendono il tutto incomprensibile, ma il parlare del profeta deve essere un preciso alternarsi di chiarezza e oscurità. E questa oscurità è necessaria dato l’argomento. Perché il profeta parla solamente di una cosa: l’universo nella sua totalità e questa totalità contiene sia il linguaggio, il chiarore, la luce, il tempo, i nomi, l’ordine, ma anche l’oscurità, il caos, il nulla e l’assenza di senso. Ecco, per poter restituire e testimoniare questi due aspetti del reale, il profeta deve avere un linguaggio che sappia adattarsi a entrambi. E un simile linguaggio può apparire certo grottesco, ma il suo scopo è tenere insieme i fatti della storia, gli eventi mitologici, le estasi mistiche. Questi registri stilistici, questi modi di dire il mondo non li ho inventati io, ma sono strategie comuni a tutte quelle opere che ci sono rimaste dall’antichità e che sono state in grado di essere lo strumento per la fondazione di nuovi mondi.
La posizione che descrivi sembra sempre assumere una certa verticalità che mi pare risultare forse un po’ aliena – o decisamente anacronistica – rispetto alla nostra sensibilità di moderni, anche e forse soprattutto per quanto riguarda la produzione culturale. Per una cultura come quella occidentale, che è riuscita a spogliarsi dal giogo di molti dogmi attraverso un processo lunghissimo di secolarizzazione, è la strada giusta, è l’unica strada, recuperare proprio quel tipo di sacralità, di metafisica, che proponi per poter comunicare con i posteri?
Prima di tutto bisogna distinguere come ci sia una differenza tra il sacro e la religione. Questa ha nel suo stesso significato l’idea di re-legare, quella cioè di legare insieme una comunità attorno a un culto e ha una funzione sociale normativa. Il sacro è un’altra cosa, è una prospettiva più vicina a quella monacale, che anche in questo caso contiene nel suo stesso nome un seme di significato: monaco è colui che abita da solo, questo perché il sacro è un’esperienza individuale; la religione, invece, è una dimensione collettiva. Nel mio pensiero c’è di certo un elemento sacrale. Soprattutto dal momento che credo che la nostra laicità di moderni sia solo presunta. Non penso che l’assenza di sacro che certamente percepiamo attorno a noi sia dovuta tanto a una secolarizzazione, come dici tu, quanto piuttosto al fatto che siamo diventati del tutto prigionieri del mondo che abbiamo creato. La mancanza di verticalità e di metafisica è il risultato del fatto che siamo diventati a tutti gli effetti completamente contemporanei a noi stessi – tant’è che definiamo tutto in questo modo, dal cinema al design, tutto oggi è contemporaneo. Ed è proprio quest’ossessione con l’essere totalmente interni al nostro stesso tempo a decretare la fine del sacro. Perché, se ci pensi bene, il sacro è proprio ciò che invece risiede fuori dal tempo e fuori dal mondo. Il sacro sta fuori dall’illusione necessaria che è il mondo, dimora in un aldilà, negli spazi interstiziali tra i mondi, dove anche Lucrezio posizionava i suoi dei. Il sacro sta proprio lì, in quello che non è mondo. Per questo, se noi vogliamo ripensare al di là del nostro mondo, suggerisco che sia importante ripensare al sacro perché questo allungherebbe il nostro sguardo in un territorio ben al di là dell’orizzonte. Noi ci riteniamo molto intelligenti, evoluti e scaltri in virtù del fatto che ci siamo integralmente laicizzati e convinti della realtà del nostro mondo. Convincersi di queste illusioni in maniera tanto forte al punto da renderle vere è una cosa senz’altro necessaria per vivere bene, ma praticare tali convinzioni in maniera così esagerata non penso sia motivo di orgoglio.