D ell’amore non sappiamo granché. Se ne sapessimo qualcosa, non disprezzeremmo i nostri corpi e mestruare non sarebbe così faticoso. Se ne sapessimo qualcosa, dell’amore, la violenza con cui giudichiamo noi stesse non sarebbe socialmente incoraggiata, né ci sarebbe motivo di punire la gioia di sentirsi vive e gaudenti. Se conoscessimo l’amore, nessuno ne cercherebbe le briciole tra gli abusi e tutti gli uomini si lascerebbero spazio per sperimentarlo, senza fuggire la vulnerabilità a cui ci espone il desiderio. Se sapessimo cos’è l’amore, non avremmo bisogno di contare i cadaveri delle donne uccise da chi diceva di amarle. Non porteremmo, ardenti sul corpo, le ferite del disamore, dell’abuso, del disprezzo. Non guarderemmo le nostre sorelle desiderando per loro tutto l’amore che non credono di meritare, non avremmo bisogno di tamponare il loro sangue, né di raccogliere i loro corpi. Se sapessimo cos’è l’amore, non saremmo deformi di lutto, di un dolore che ci viene proibito di dire.
Visto che non lo sappiamo, però, Giulia Cecchettin è morta, Filippo Turetta è un assassino e per tutte le bambine che vedono la luce sotto il patriarcato è normale conoscere il disprezzo, la violenza e la punizione. Visto che non sappiamo cos’è l’amore, siamo piene di rabbia, perché lo abbiamo disimparato un colpo dopo l’altro, guardandoci morire. E visto che desideriamo impararlo, lasceremo spazio a questa rabbia e la renderemo una rabbia politica, che ci apra all’inedito. Visto che desideriamo amarci, amare ed essere amate, ci prenderemo lo spazio che serve ad esprimerla, questa rabbia, e “bruceremo tutto”, senza sentirci dire che è fuori luogo. Fuori luogo è la repressione, fuori luogo sono i nostri corpi morti.
Dell’amore e del desiderio di conoscerlo ha scritto bell hooks nel suo Comunione. La ricerca femminile dell’amore. È un libro che parla d’amore, specialmente dell’amore che vorremmo ci fosse e invece non c’è, di quello che desideriamo e che abbiamo la responsabilità politica di inventare. Fa male come il sale su una piaga, perché parla di un dolore silenziato. Parla ai nostri corpi laceri e raccomanda loro di urlare forte. L’opera è stata pubblicata per la prima volta in inglese da HarperCollins, nel 2002. La prima versione italiana è arrivata solo lo scorso settembre, edita dal Saggiatore con la traduzione di Maria Nadotti.
Questa pubblicazione restituisce a bell hooks voce in capitolo su un tema di cui l’editoria italiana recente, specialmente quella indipendente, ha riconosciuto la rilevanza. Testi come Per una rivoluzione degli affetti di Brigitte Vasallo (effequ 2022), Poliamore di Car G. Lepori e Nicole (Nic) Braida (Eris Edizioni 2023) e Un poliamore così grande di Dania Piras (Edizioni Sonda 2023) hanno contribuito ad alimentare il dibattito sulla possibilità di ripensare le relazioni affettive. Parlare d’amore, però, è profondamente rischioso; bell hooks ci riesce senza tagliare fuori il dolore, la complessità, il turbamento del desiderio. È per questo che Comunione è anche un libro imbarazzante, perché è impossibile leggerlo senza al contempo sentirsi letti, osservati spudoratamente.
“Bruceremo tutto”, senza sentirci dire che è fuori luogo. Fuori luogo è la repressione, fuori luogo sono i nostri corpi morti.
Pensavamo di essere al sicuro, prima che arrivasse bell hooks a raccontare quanto siamo vulnerabili. Prima che ci dicesse che il dolore che siamo invitati a lenire con un vuoto incoraggiamento a “bastarci”, proprio quel dolore, non può essere lenito se non ammettendo che non ci bastiamo affatto, con tutta la scomodità del caso. Siamo ossessionati dalla “positivity”, sessuale ed estetica, da messaggi di accettazione di sé, da incoraggiamenti alla reciproca cura: eppure dichiararsi desiderosi d’amore è imbarazzante, è una cosa per disperati. Anche i discorsi femministi non sempre riescono a mettere a fuoco l’urgenza del tema: il sostegno all’empowerment delle donne non si sposa necessariamente con l’attenzione ai loro bisogni affettivi. Il femminismo ha insistito e insiste sui diritti riproduttivi, sul diritto ad un’eguale remunerazione lavorativa, sul diritto a contrastare la violenza di genere e, nel farlo, ha compiuto passi enormi. Ma il potere è molto più facile da ottenere dell’amore e se le femministe avessero continuato a parlare d’amore, saremmo state obbligate a parlare dell’estremo vuoto d’amore che è al cuore del dominio. Non avremmo potuto proseguire con la parità dei diritti, i posti di lavoro, i soldi e il potere da noi appena acquisiti senza dire a tutti che il patriarcato, come ogni sistema coloniale, non crea un ambiente in cui le donne e gli uomini possano amarsi.
Abbiamo cercato il potere e lentamente ci viene riconosciuto, eppure le nostre storie personali sono piene di frustrazione. Sono piene di padri anaffettivi e di madri mortificanti, della sensazione di dover ammutolire il nostro desiderio d’amore. Laddove lo abbiamo cercato, abbiamo imparato ad accontentarci, a stare nella mancanza, a raccogliere le briciole del silenzio e a silenziarci a nostra volta. Per l’amore, attorno a noi, non c’è ancora abbastanza spazio. Non c’è un lessico che ci lasci il diritto di articolarlo, non ci sono orecchie per ascoltare il desiderio di esprimerlo. Abbiamo cercato il potere ma non abbiamo smantellato uno spazio che dell’esercizio del dominio fa l’unica attività possibile: ci siamo solo entrate dentro.
Il sostegno all’empowerment delle donne non si sposa necessariamente con l’attenzione ai loro bisogni affettivi.
Adesso il potere è più inclusivo, non meno asettico. “Se continuiamo a non essere in grado di immaginare un mondo in cui l’amore sia riconosciuto come principio unificante che può portarci a cercare e usare il potere con saggezza, rimarremo legati a una cultura del dominio che ci impone di anteporre il potere all’amore”, scrive hooks. La difficoltà ad amare e a lasciarsi amare è motivo di sofferenza, indipendentemente dal genere: la femminilizzazione del dovere di cura è un fenomeno storico, legato alla privatizzazione del lavoro riproduttivo, e l’accudimento, molto spesso, ha poco a che fare con l’amore. Ne consegue che le donne, sebbene socialmente incoraggiate a farlo, non siano più brave ad amare degli uomini. Finché alle donne sarà insegnato a cercare l’amore e agli uomini a cercare il sesso e il dominio, quello che tutti e tutte troveranno sarà un deserto. La desolazione di indossare un corpo che non si ama, annichilito dalla violenza; il dolore sordo di non avere parole per dire l’amore che meritiamo.
L’impegno a “immaginare un mondo in cui l’amore sia riconosciuto come principio unificante” fa di Comunione un libro politico. Laddove l’immaginare, però, è un gioco di desiderio. Non ci sono prescrizioni, non c’è una morale dell’amore: c’è il dolore della sua assenza e il desiderio di colmarla, assieme alla consapevolezza che non è possibile farlo con le regole chirurgiche del dominio. Progettare un mondo possibile ha poco a che vedere con la visione nitida di quel che dovrebbe essere, del modo in cui l’amore si dovrebbe fare, delle cose giuste che dovremmo dire per raccontarcelo. Come scrive Tim Ingold in Making. Antropologia, arte, archeologia e architettura: “prevedere (…) è vedere dentro il futuro, non proiettare sul presente un futuro stato di cose; è guardare dove si sta andando, non fissare un punto d’arrivo. (…) È esattamente dove la vastità dell’immaginazione incontra l’attrito dei materiali, o dove le forze dell’ambizione vengono levigate dai bordi ruvidi del mondo, che la vita umana è vissuta”.
È solo lasciando spazio alla nostra fame d’amore che possiamo ambire ad un orizzonte di soddisfazione possibile. Solo sentendo l’attrito con il proprio dolore si possono aprire percorsi d’amore inediti, si può cominciare ad amare il nostro corpo maltrattato dalla cultura del dominio. La regolamentazione dispotica e la cura ossessiva sono nemiche dell’inedito: come ben spiega Elisa Cuter nel suo Ripartire dal desiderio, ripartire dal desiderio, appunto, significa muoversi senza sapere bene dove si sta andando, nutrire il tentativo incerto di assecondare il proprio piacere, sentire la propria identità vacillare, sotto la spinta espropriante del desiderio. Quello di bell hooks è un libro che parla della nostra carne, e fa della ricerca dell’amore un principio di movimento infinito, la spinta immaginativa verso un altro mondo.
Quello che il patriarcato non contempla è un autentico desiderio dell’altro: un desiderio che non abbia l’ambizione di annichilire il suo oggetto, ma che si accompagni alla consapevolezza che non siamo autosufficienti, non possiamo “bastarci”. Desiderare ci apre all’ignoto che sono gli altri, ci lascia vulnerabili e sfilacciati. È nello spazio di questa apertura che possiamo immaginare l’amore, un amore che si nutre della possibilità asintotica di essere noi stessi solo allontanandoci dal nostro centro. Siamo noi stessi solo se non lo siamo più, solo se attraversiamo la “ripetuta morte” che comporta l’abbandono di un’identità monolitica e la rinuncia a qualsiasi tentativo di manipolarci secondo idee preconcette di quello che dovremmo diventare. È in questo contesto che è possibile sperimentare le possibilità dell’amore; è così che il romanticismo e l’erotismo possono assumere forme nuove, declinarsi in legami diversi da quelli canonici, diversi innanzitutto perché non fondati “sulla visione patriarcale prevalente secondo cui in ogni relazione ci sono un dominante e un sottomesso”, indipendentemente dal genere.
Quello che il patriarcato non contempla è un desiderio che non abbia l’ambizione di annichilire il suo oggetto, ma che si accompagni alla consapevolezza che non siamo autosufficienti, non possiamo “bastarci”.
Fare spazio all’amore significa consentire agli uomini di sviluppare tutte le loro potenzialità inespresse, delle quali il patriarcato ha profondamente paura; significa insegnare alle donne a non odiarsi, così che possano amare autenticamente gli altri. Significa, ancora, abbandonare l’idea che l’amore romantico sia alimentato dal reciproco mistero, che la tensione erotica fiorisca nell’assenza di comunicazione, che la retorica degli opposti e il mal di pancia da innamoramento siano una strada verso l’intimità: non c’è intimità senza comunicazione e l’idealizzazione dell’innamoramento è uno strumento della politica del dominio, che promuove le relazioni eccitanti e procreative, molto più di quelle fondate su un’esplorazione autentica del piacere. Non serve a molto “cadere in amore”, scrive bell hooks, e Brigitte Vasallo le fa eco, scrivendo che l’amore dovrebbe essere più adattivo che cieco. (…) Nelle relazioni a lungo termine c’è poco da nascondere. (…) L’ammirazione per la persona o per le persone che condividono la vita con te è un sentimento fatto anche di buchi, fatto anche di miseria e della capacità comune di condividere quella miseria (…) e questo, in un mondo di sfarzo, è un problema. Ma il problema è il mondo, non siamo noi.
Quella di Comunione di bell hooks è una lettura scomoda, che si porta dietro la consapevolezza che il “lavoro dell’amore” richieda molto più tempo e fatica di quanta non gliene abbiamo mai dedicata. Eppure, oltre ad essere doloroso, imbarazzante, politico, è anche un libro gioioso, come solo può essere gioiosa la pienezza della vita di chi corre il rischio di guardarsi autenticamente.