I l 27 luglio del 1969, nella sontuosa cornice dell’hotel Hilton Cavalieri di Roma, si tiene il ventiseiesimo congresso dell’International Psychoanalytic Association (IPA). Per la prima volta l’Italia ospita il gotha della psicoanalisi mondiale e l’evento diventa un caso mediatico. Le riunioni, però, sono avvolte da un velo di mistero: i giornalisti non possono presenziare durante le discussioni e lo stesso vale per i curiosi e i professionisti senza un invito formale. Gli aspiranti terapeuti ancora in formazione possono iscriversi come pubblico ma senza diritto di parola. Tuttavia, il giorno dell’inaugurazione, la macchina istituzionale, che appariva impenetrabile e perfettamente oliata, viene messa in crisi da una protesta nata nel suo proprio grembo. Alcuni partecipanti, che si autoproclamano il gruppo Piattaforma, tappezzano la hall dell’Hilton con i manifesti di un contro-congresso in cui la parola inglese “Congress” appare scritta con le due “s” finali barrate: Congre$$, simbolo del dollaro e del denaro. Le dissidenti invitano a boicottare l’evento ufficiale per recarsi all’incontro alternativo nel ristorante Carlino al Panorama, a meno di quattrocento metri dallo sfarzoso hotel.
Al Carlino, lontano dalle piscine, i tappeti lussuosi e l’aria condizionata, ci si siede per terra perché non ci sono abbastanza posti e si discute della deriva burocratica della psicoanalisi. Secondo gli animatori del contro-congresso l’IPA è troppo impegnata a difendersi da ciarlatani e dilettanti e ciò l’ha portata a chiudersi in una torre d’avorio impermeabile. Un’istituzione autoreferenziale fondata su relazioni formative verticali e priva di contatto con i grandi cambiamenti sociali di quegli anni. La notizia della protesta della “Piattaforma” arriva fino in Francia dove la superstar Jacques Lacan prende il primo aereo per Roma e va ad ascoltare gli psicoanalisti insorti.
Tra i vari personaggi che partecipano al convegno dissidente c’è anche Marie Lizbeth Glas Langer, detta Mimì, una signora che parla spagnolo con uno strano accento tedesco ma soprattutto un personaggio chiave per la storia della psicoanalisi del Novecento. Langer si forma come anestesista negli anni Trenta e inizia una formazione psicoanalitica a Vienna dove le idee di Freud sono in pieno fermento. Nel 1932 aderisce clandestinamente al Partito Comunista Austriaco, diventato da poco illegale, e per questo viene denunciata e espulsa dal circolo psicoanalitico della capitale. Nel ’36 parte per la Spagna, con le Brigate Internazionali, prestando servizio come personale medico nella guerra contro l’avanzata del fascismo. Con la sconfitta della Repubblica spagnola e l’inizio della guerra mondiale, Marie è costretta a emigrare verso il Sudamerica, prima in Uruguay, dove lavora come cuoca, e poi a Buenos Aires dove si stabilisce negli anni Quaranta. Nella capitale porteña riscopre la sua passione per la psicologia clinica e partecipa alla fondazione dell’Associazione Psicoanalitica Argentina (APA). Negli anni sudamericani Marie si concentra sul lavoro con le sue pazienti donne e scrive il libro Maternità e sesso riprendendo gli scritti della psicoanalista Melanie Klein, l’antropologa Margaret Mead e la filosofa Simone de Beauvoir.
Nel ‘71 fa già parte del gruppo Piattaforma, che ha travalicato i confini diventando Plataforma Internacional, e ritorna per la prima volta nella sua Vienna per partecipare a un congresso dell’IPA. Durante il suo intervento, dal titolo “Psicoanalisi e/o rivoluzione sociale”, sprona i suoi colleghi a non rinunciare né a Marx, demonizzato nei paesi capitalisti, né a Freud, snobbato dagli psicologi del blocco socialista. La sua conferenza genera scandalo e viene contestata duramente dall’ortodossia dell’Internazionale che si rifiuterà di pubblicarla. Ancora una volta Marie viene ostracizzata dalla burocrazia psicoanalitica e decide di rompere con l’IPA. Nella raccolta di saggi ¡Cuestionamos! (Mettiamo in discussione!), Marie invita la psicoanalisi argentina a prendere posizione di fronte al dilagare della violenza politica dell’ultimo governo di Juan Perón. Lo spettro del fascismo ritorna a far visita nella sua vita quando il suo nome finisce sulla lista nera dello squadrone della morte Tripla A, la famigerata Alleanza Anticomunista Argentina. Per scampare agli omicidi sistematici dei gruppi paramilitari Marie è costretta ad abbandonare anche il suo Paese adottivo per trasferirsi in Messico. Con il trionfo nel ’79 della Rivoluzione Sandinista in Nicaragua, Marie si mette di nuovo in viaggio per aiutare a costruire il primo sistema sanitario gratuito nel paese centroamericano. Durante i successivi sei anni, coordina la Squadra Internazionale di Lavoratori della Salute Mentale Messico – Nicaragua, supervisionando medici, psicologhe e operatori sociali.
La vita di Marie Langer mette in evidenza l’influenza reciproca che esiste tra la pratica clinica e le istituzioni che la regolano, le quali, a loro volta, sono immerse in processi storici determinanti.
La vita di Marie Langer non è solo avvincente come la trama di un film d’azione ma è anche esemplare nel mettere in evidenza l’influenza reciproca che esiste tra la pratica clinica e le istituzioni che la regolano, le quali, a loro volta, sono immerse in processi storici determinanti. Nel film Un divano a Tunisi, della regista esordiente Manele Labidi Labbé, la protagonista Selma è una giovane psicoanalista che si è formata in Francia e ritorna in patria dopo gli sconvolgimenti della Primavera Araba. Selma decide di aprire uno studio terapeutico a Tunisi nel quartiere popolare dove è cresciuta. Vuole prendersi cura degli abitanti che vivono il disorientamento del periodo post-rivoluzionario e di una società in rapida trasformazione. Le sue ambizioni, però, devono fare i conti con una burocrazia asfittica che la intrappola in un labirinto di procedure che non gli permettono di ottenere il permesso per esercitare la professione. Nonostante il suo studio, improvvisato nella soffita di casa, diventi rapidamente un punto di riferimento per la comunità, i sospetti di alcuni agenti di polizia le mettono continuamente i bastoni fra le ruote.
Nei momenti di incertezza Selma dialoga con un Sigmund Freud immaginario e trova la forza e il coraggio per sfidare i pregiudizi patriarcali, le trappole burocratiche e l’occhio vigile delle forze dell’ordine che la sorvegliano mentre riceve i pazienti sul suo divano. La depressione, i dilemmi esistenziali e i conflitti coniugali dei pazienti si intrecciano con lo sfondo di una società in crisi, anch’essa in cerca di un’identità mentre lotta contro la corruzione delle autorità e l’immobilità delle istituzioni. La clinica terapeutica ha bisogno di un setting accogliente, sicuro e protetto; ciò nonostante, la storia di Selma, come quella di Marie, ci insegna che lo studio clinico non sarà mai totalmente isolato dalle trasformazioni istituzionali e dagli eventi storici che lo attraversano. Per questo, prendere posizione, come professionisti, non è solo necessario ma anche inevitabile. Marie, cosí come il personaggio fittizio di Selma, ha orientato il suo lavoro clinico a favore della liberazione dai malesseri che reprimono la psiche degli individui e, al contempo, si è scontrata con i regimi autoritari che opprimono la libertá degli esseri umani.
Il senso storico del malessere
Lo psichiatra Frantz Fanon, nativo dell’allora colonia francese dell’isola Martinica, ha passato la sua carriera occupandosi dei disturbi mentali nel contesto delle tensioni etniche e politiche tra i paesi del Maghreb e l’impero francese. Negli anni Cinquanta, durante la guerra d’indipendenza algerina, Frantz lavora nell’ospedale psichiatrico di Blida nel nord dell’Algeria. È un impiegato del governo francese ma collabora segretamente con il Fronte di Liberazione Nazionale che si scontra con l’esercito di occupazione. Ne I dannati della terra, il libro che detta in fin di vita alla sua compagna Josie, Fanon descrive alcuni quadri diagnostici che riscontra nella popolazione esposta alla violenza dei colonizzatori. Tra questi vi è la “contrazione generalizzata” che rendeva impossibile rilassare i nervi, come se i pazienti fossero in attesa permanente, sempre in tensione tra la vita e la morte.
Secondo i medici francesi si trattava di una conseguenza di una struttura neurologica degli “indigeni”: il dominio del sistema extrapiramidale, ovvero le vie e centri nervosi che regolano il movimento nel loro cervello “primitivo”. Secondo Frantz, la rigidezza muscolare del colonizzato rappresenta invece una risposta posturale di fronte alle autorità francesi, la reticenza e il rifiuto che il corpo esprime come forma di resistenza alla violenza coloniale. Nel suo celebre saggio lo psichiatra smonta altre spiegazioni neurologiche basate sulle teorie eugenetiche dominanti nella scienza psichiatrica. La pigrizia del nordafricano, per esempio, non era dovuta a un profilo di personalità patologico ma doveva considerarsi, secondo l’autore, come una forma di sabotaggio cosciente della macchina coloniale che rubava il frutto del suo lavoro per usarlo contro di lui. Nell’ospedale di Algeri, Fanon assiste soprattutto i militari francesi, molti dei quali erano impegnati a torturare i combattenti algerini durante gli interrogatori. Secondo lo psichiatra, i soldati erano coscienti che i loro disturbi mentali erano dovuti al tipo di pratiche disumane che erano costretti ad applicare. Quello che gli chiedevano era un aiuto per trovare serenità senza smettere di torturare. Volevano provare sollievo dal rimorso della coscienza che li perseguitava senza mettere in discussione le azioni che producevano il loro malessere.
Lo studio clinico non sarà mai isolato dagli eventi storici che lo attraversano. Per questo prendere posizione, come professionisti, non è solo necessario ma anche inevitabile.
Nel film di Oliver Stone, Nato il 4 di luglio, si racconta la storia di Ron Kovic, un marine di ritorno dalla guerra in Vietnam dove, oltre a perdere l’uso delle gambe, ha ucciso per errore un suo commilitone e ha preso parte al massacro di un villaggio di civili. Ron, interpretato da Tom Cruise, deve fare i conti con i traumi della disabilità fisica ma anche con i flashbacks e i pensieri intrusivi che gli ricordano i bambini vietnamiti trucidati dalla sua squadra. La storia dell’ex marine, che si basa sull’autobiografia del vero Ron Kovic, dà un’idea dei problemi che tuttora i veterani statunitensi devono affrontare di ritorno dalle missioni di guerra in Medio Oriente. Non solo i sintomi del disturbo da stress post traumatico, ma una degradazione esistenziale fatta di dipendenza da alcol e droghe, isolamento, violenza domestica, comportamenti antisociali e tentativi di suicidi.
La risalita dal vortice di autocommiserazione e miseria personale di Ron Kovic inizia con la presa di coscienza dell’ingiustizia della guerra a cui ha partecipato. Milioni di bombardamenti nel sud est asiatico, territori disseminati di mine, donne e bambini bruciati dal napalm, armi chimiche che ancora oggi generano malformazioni genetiche e centinaia di migliaia di persone uccise per il solo motivo di imporre l’ideologia del libero mercato. Il personaggio interpretato da Tom Cruise si riscatta grazie al suo impegno contro la guerra nel movimento antimilitarista che negli anni Settanta si diffonde a macchia d’olio negli Stati Uniti. A differenza dei soldati francesi assistiti da Fanon, Ron affronta il suo trauma personale comprendendo il senso storico e le ragioni del suo malessere. Non solo prende coscienza della follia della guerra a cui ha partecipato ma scende in strada con la sedia a rotelle a fianco dei giovani pacifisti sfidando le manganellate delle forze dell’ordine. La storia di Kovic e il lavoro di Fanon dimostrano che sia per i colonizzati che per i colonizzatori la liberazione dal trauma della violenza passa necessariamente per la presa di coscienza e di posizione di fronte all’ingiustizia strutturale e alla discriminazione sistemica.
Secondo il sacerdote spagnolo Ignacio Martin Baró il ruolo della psicologia dovrebbe essere quello di liberare i popoli dal giogo dell’oppressione capitalista e coloniale. Come si può intuire, Ignacio non era un sacerdote qualsiasi ma aderiva alla corrente della Teologia della Liberazione, una dottrina cristiana impegnata nell’ottenere la giustizia sociale, l’uguaglianza e la libertà dei popoli qui e ed ora, senza dover aspettare l’aldilà come invece predica la Chiesa di Roma. Martín Baró lavora come professore di psicologia in El Salvador durante il conflitto armato degli anni Settanta e Ottanta tra il movimento guerrigliero del Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale e il governo golpista della giunta militare appoggiata dagli Stati uniti. Studiando i processi di formazione dell’opinione pubblica Martín capisce che il sistema coloniale e classista che governa il Paese si riflette nella mentalità dei suoi abitanti: lo sfruttamento crudele e la discriminazione costante a cui sono sottoposti trasforma la loro soggettività e li rende passivi e fatalisti, immersi cioè in un eterno presente e disillusi rispetto alla possibilità di un cambiamento.
Lo psicologo spagnolo documenta inoltre come la violenza degli operativi militari generi una serie di effetti psicosomatici negli abitanti delle comunità contadine come la torsione intestinale, il mal di testa, gli attacchi di diarrea, la tachicardia e le convulsioni. La militarizzazione si riflette secondo Ignacio anche nella mente infantile e per questo cita un questionario somministrato nel 1983 a 200 bambini salvadoregni in cui veniva chiesto “Cosa dovrebbe succedere affinché non esistano più i poveri?”. Tra le risposte appare ripetuta in diversi casi quella di “ucciderli tutti”. Secondo il sacerdote spagnolo la cura per il malessere generato da questa mentalitá è la “psicologia della liberazione”, ovvero il lavoro di smascheramento dell’ideologia che plasma la quotidianità della popolazione.
Sia per i colonizzati che per i colonizzatori la liberazione dal trauma della violenza passa necessariamente per la presa di posizione di fronte all’ingiustizia strutturale.
Si tratta di recuperare la memoria storica e le tradizioni popolari per mettere in discussione il regime di turno che viene percepito come un ordine naturale, uno status quo che è sempre esistito e sempre esisterà. La liberazione dall’oppressione e la possibilità di svilupparsi coscientemente dipendono dalla capacità di comprendere il passato per costruire un futuro diverso. Per far ciò, secondo Martín Baró, gli psicologi devono partecipare nelle organizzazioni popolari, nelle comunità ecclesiastiche di base e nei sindacati per stimolare la presa di coscienza collettiva e recuperare la solidarietá, la dedizione e la speranza nella coscienza popolare.
Oltre le prigioni fisiche e mentali
La “Liberazione” viene invocata oggi anche dalla psichiatra palestinese Samah Jabr nel suo libro Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione. La dottoressa Jabr è la responsabile dei servizi di salute mentale della Cisgiordania e si trova a dover assistere le persone vittime della violenza dell’esercito israeliano. Samah racconta che i sintomi che manifestano i pazienti, come la depressione, l’insonnia, i pensieri paranoici, l’isolamento sociale, i problemi locutori, i dolori articolari e dermatologici sorgono in concomitanza con eventi traumatici: non poter celebrare il lutto di un parente, un pestaggio efferato, lunghi periodi di carcerazione, interrogatori con diversi tipi tortura, o vedere il cranio del proprio figlio spaccato.
Molti bambini palestinesi vengono prelevati nel cuore della notte, insultati, bendati e portati in luoghi ignoti dove sono esposti a condizioni termiche estreme. Vengono spaventati dai cani dell’esercito, torturati psicologicamente e fisicamente, e in alcuni casi stuprati e umiliati sessualmente. Il loro sviluppo come adolescenti viene compromesso, la loro intimità danneggiata e le loro reti affettive demolite. Jabr non può liberarli dalle prigioni israeliane ma il suo compito è quello di liberarli dalle prigioni interiori in cui sono intrappolati quando ritornano nelle loro comunità e non riescono più ad andare a scuola, a relazionarsi con gli adulti e a costruire dei legami affettivi. Non hanno bisogno di una diagnosi di disturbo da stress post-traumatico ma di essere ascoltati, di qualcuno che sia testimone dell’ingiustizia subita e che li aiuti a ritrovare il senso che è stato distrutto dal trauma.
Per Samah si tratta di un trauma intergenerazionale che ferisce tutta la società palestinese. Secondo lo storico israeliano Ilan Pappé, dal 1947 è in corso in Palestina la cosiddetta Nakba, letteralmente la catastrofe, un piano di pulizia etnica portato avanti dai coloni israeliani. Le umiliazioni costanti che devono subire gli abitanti della Palestina producono vergogna, rabbia inespressa e l’interiorizzazione del punto di vista razzista del colonizzatore. Per questo, secondo Jabr, la conseguenza dell’occupazione è il dilagare dei conflitti sociali, della violenza domestica, la corruzione e l’asservimento della classe dirigente palestinese, la polarizzazione della politica interna e la frammentazione in fazioni contrapposte. La missione di Samah è quella di rafforzare la dignità e l’autostima del suo popolo, liberarne la capacità di agire, fornire strumenti per scegliere ed elaborare nuove modalità di vivere nella catastrofe. “Liberare la nostra mente, il nostro corpo e la nostra terra”, come scrive nel suo libro.
Le umiliazioni costanti che devono subire gli abitanti della Palestina producono vergogna, rabbia inespressa e l’interiorizzazione del punto di vista del colonizzatore.
Nell’autunno del 2022, cinquantatré anni dopo il congresso dell’International Psychoanalytic Association (IPA) all’Hotel Hilton di Roma, la capitale è tornata ad essere una vetrina internazionale della psicologia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha coordinato l’incontro “Trasformare la salute mentale per tutti” all’ospedale Santo Spirito ubicato a pochi metri dal Vaticano. La classe dirigente italiana, dopo lo scandalo del collasso sanitario durante la pandemia che ha fatto il giro del mondo, ha cercato di cancellare le sue responsabilità facendosi promotrice dei valori progressisti di una salute mentale comunitaria. Un colpo di spugna per tornare alla cosiddetta normalità. Tra le invitate c’era anche Samah Jabr che, come sempre, ha portato la sua esperienza di lavoro e ha spiegato le difficoltà di promuovere la salute mentale sotto l’occupazione e i bombardamenti israeliani.
I suoi interventi pubblici vengono spesso osteggiati perché citano contenuti politici in ambienti scientifici che si vogliono presentare come neutrali e super partes, ma la stessa Jabr ha fatto notare un dettaglio che smaschera l’ipocrisia di tali discorsi: a inaugurare il summit della OMS è stata Olena Zelenska, architetta e sceneggiatrice diventata famosa a livello internazionale per essere la moglie del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj. Un personaggio scelto per il suo portato politico e mediatico, nel contesto del conflitto bellico tra Russia e Ucraina, e non per le sue competenze in ambito psicologico.
All’ideologia della neutralità, che pretende nascondere la sua natura politica, Langer, Fanon, Baró e Jabr propongono una posizione impegnata a favore della liberazione mentale, fisica e politica dal malessere che ci opprime e dalla violenza che ci traumatizza. Samah recupera il concetto di sumud dalla cultura palestinese: un atteggiamento che combina uno stato mentale resiliente alle condizioni avverse e una spinta resistente all’azione per mettere in discussione lo status quo. “Quando l’occupazione [israeliana] sradica i nostri ulivi, noi ne piantiamo altri”, scrive Samah, “quando demoliscono le nostre case ne ricostruiamo di nuove. Quando chiudono le nostre scuole ne improvvisiamo altre. Quando oscurano la nostra storia, noi opponiamo le nostre testimonianze, i nostri ricordi e le nostre prove”.
Il passaggio all’azione politica viene spesso visto con sospetto in ambito clinico, la sfida all’autorità tende a essere patologizzata in ambito psichiatrico e l’autodifesa viene criminalizzata dai mass media. Quello che insegnano Jabr, Langer, Fanon e Baró, invece, è che promuovere un sumud popolare, un’azione di resistenza e liberazione dall’oppressione, non è solo un diritto e un dovere, ma anche una forma di cura che ci permette di affrontare le radici del nostro malessere psicologico.