L o scorso mese, il semisconosciuto podcast danese Spiralkampagnen ha portato all’attenzione del mondo intero una storia inquietante e relativa alle ragazze inuit della Groenlandia, territorio controllato dalla Danimarca fin dal 1814, anche se in parte autonomo dal 1953. Con particolare accanimento negli anni Settanta, ma poi ancora fino a una decina di anni fa, a circa 4.500 adolescenti dai 13 anni in su, pari al 35% delle donne inuit in età fertile, sono state inserite, a loro insaputa e quasi sempre durante normali visite mediche scolastiche, altrettante spirali, affinché non restassero incinte. È successo che 67 di loro hanno dato vita a una class action, chiedendo circa 40.000 euro di risarcimento ciascuna per le conseguenze di quella pratica inaudita e crudele, che ha lasciato dietro di sé innumerevoli problemi di salute, dai dolori pelvici cronici fino all’infertilità e all’isterectomia, avendo le ragazze inuit mantenuto inconsapevolmente le spirali nei loro uteri per anni, salvo poi accorgersi della loro presenza per via di infezioni, infiammazioni, e una sequela di altri guai.
La Danimarca è tornata così sul banco degli imputati dopo un’altra vicenda molto discussa che ha riguardato il controllo della popolazione inuit, emersa solo nel 2015: nel 1951, 22 bambini inuit furono sottratti con la forza alle famiglie di provenienza e portati in Danimarca, per ricevere un’educazione totalmente danese e, una volta assimilati, ritornare a casa così da “danesizzare” la Groenlandia. L’esperimento di ingegneria sociale fu un disastro, anche per il pessimo programma educativo predisposto e per l’affidamento a genitori del tutto inadatti, al punto che molti di quei bambini, in seguito, si suicidarono o divennero tossicodipendenti o alcolisti, e nessuno, una volta tornato, riuscì davvero a reintegrarsi. Simili e diversi, i due “esperimenti” dicono anche qualcosa di più: dimostrano che la tentazione di agire in vario modo su specifici gruppi etnici o minoranze affinché si uniformino a un certo “modello razziale”, o comunque non ne rappresentino una fastidiosa deviazione – ossia realizzare una delle molte possibili declinazioni dell’eugenetica – è sempre viva e attiva, anche in paesi per altri aspetti considerati modelli di democrazia, come la Danimarca.
La tentazione ricorrere all’eugenetica per il controllo di specifiche minoranze è sempre viva e attiva, anche in Paesi apparentemente democratici.
Che sia così lo dimostra anche Adam Rutheford: genetista dello University College di Londra e autore del recente Controllo. Storia e attualità dell’eugenetica (Bollati Boringhieri, 2023), nel quale ricostruisce la nascita dell’idea stessa di eugenetica, per poi ripercorrerne l’evoluzione fino ai giorni nostri. Ci sono stati infatti secoli interi nei quali l’idea di migliorare la razza non solo era giudicata ammissibile e (assurdamente) praticabile, ma era considerata moralmente auspicabile, dipinta come un traguardo da perseguire per il bene delle popolazioni degne di essere preservate, migliorate e potenziate, non importa se a scapito delle altre.
Anche se di eugenetica si cominciò a parlare solo nel XIX secolo, l’idea di modificare la composizione del corpo sociale selezionando le nascite è sempre stata presente, nei popoli più diversi, fin dall’antichità: Platone, nella Repubblica, prevede l’infanticidio per i bambini con menomazioni, come del resto si è dimostrato facessero gli stessi inuit con le neonate femmine, per avere più maschi, o gli spartani, o i !Kung San del Botswana, e varie popolazioni di India e Cina, tra gli altri. Come scrive Rutheford, “l’infanticidio, per quanto possa essere sgradevole ammetterlo, è sempre stato presente nelle società umane”.
In epoca moderna, si fa risalire l’introduzione del concetto di eugenetica nientemeno che a un incolpevole Charles Darwin, e in particolare alla teoria dell’evoluzione della specie e della selezione naturale. Galvanizzato da quell’idea nuova e potente, il cugino di Darwin, Francis Galton, coniò il termine “eugenetica”, e si impegnò per tutta la vita, con una dedizione che Rutheford definisce quasi religiosa, a dargli sostanza e scientificità. Insaziabilmente curioso, Galton viaggiò moltissimo e lasciò contributi quali l’uso delle impronte digitali in ambito giudiziario, le mappe meteorologiche, la comprensione della sinestesia, i fischietti per cani, ma cercò anche di definire la bellezza femminile secondo criteri matematici e, soprattutto, di stabilire una sorta di modello di grande uomo, codificato nel testo Hereditary Genius del 1865, e definito secondo specifiche regole numeriche, che costituiranno la base della statistica medica, e anche della genetica.
L’idea di modificare la composizione del corpo sociale selezionando le nascite è sempre stata presente, nei popoli più diversi, fin dall’antichità.
A giudizio di Galton, la storia della civiltà sarebbe sempre stata “il prodotto di gesta intrepide di uomini eccezionali (ne nascerebbero, di norma, 250 per milione) capaci di esercitare un’influenza cruciale”. Da lì al tentativo di incrementare quel tasso di 250 uomini eccezionali per milione il passo fu breve: nei primi anni del Novecento, mentre un Galton rispettatissimo e ormai anziano dava alle stampe il suo primo romanzo The Eugenic College of Kantsaywhere, ambientato in un paese dove gli abitanti pensano “più alla razza che all’individuo”, erano già una trentina le nazioni con politiche apertamente eugenetiche, tra i quali gli Stati Uniti e la Germania.
Negli Stati Uniti, in particolare, fu fondato nel 1910 l’Eugenics Record Office, un’istituzione con sede a Long Island che per decenni esercitò un’influenza decisiva su numerose iniziative finalizzate alla selezione della fantomatica “razza americana” – la più clamorosa fu la sterilizzazione coatta, nell’arco del Novecento, di oltre 70.000 donne, tutte non conformi al presunto canone razziale, per i più svariati motivi. Anche molti scrittori e intellettuali, alcuni dei quali insospettabili come Francis Scott Fitzgerald, contribuirono a rafforzare il mito dell’americano perfetto, ovviamente bianco e di ascendenza europea.
Dall’altra parte dell’Atlantico, nel frattempo, mentre in Germania si preparava la discesa agli inferi del nazismo, altri esponenti politici come Wiston Churchill mettevano nero su bianco la loro profonda fede razzista. Nel 1927, per esempio, Churchill scriveva: “non sono disposto a riconoscere che si sia stato fatto un grave torto ai pellerossa americani o ai neri australiani. Non sono disposto a riconoscere che si sia fatto loro un torto perché una razza più forte, una razza di qualità superiore o comunque più esperta, se vogliamo metterla così, è arrivata e ha preso il loro posto”. E ancora, in merito all’Idiot Act del 1886, legge che cercava di definire i criteri della malattia mentale ed entro la quale rientrarono praticamente tutti i disadattati del Regno Unito: “la crescita, sempre più innaturale, dei ritardati e dei pazzi, accompagnata dalla diminuzione costante dei ceppi più sani, energici e superiori costituisce un pericolo nazionale e razziale di cui non ci si preoccuperà mai abbastanza”. In Germania con l’eutanasia si andò ben oltre all’incarcerazione dei malati mentali o comunque di coloro giudicati non conformi: l’operazione Aktion T4 ne condusse a morte circa 300.000, e sarà la prova generale per i successivi campi di sterminio.
Fu Galton a coniare il termine “eugenetica” e a impegnarsi per tutta la vita, con una dedizione quasi religiosa, a dargli sostanza e scientificità.
Numerose sono le vicende storiche, politiche, culturali e pseudoscientifiche che hanno portato a una così drammatica diffusione e popolarità dell’ideologia eugenetica, che Rutheford ricorda essere sempre e comunque ingiustificabile. Anche se per lungo tempo le nozioni di biologia e genetica sono rimaste inesistenti, precluse o poco più che rudimentali in molti Paesi che applicavano l’eugenetica, non sono mai mancate le voci dissonanti di fieri oppositori a una simile ideologia. Per smantellarla, soprattutto nelle sue manifestazioni contemporanee, Rutherford non manca di dettagliare alcuni concetti fondamentali e scientificamente elementari, non tutti così noti, per spiegare perché qualunque affermazione razzista o eugenetica debba essere etichettata come grottesca oltre che inattuabile, anche alla luce delle più moderne tecnologie biomediche.
Innanzitutto, le questioni etiche sollevate dalle possibilità offerte da tecnologie quali quelle di editing genetico come il CRISPR/Cas9, devono essere considerate da due punti di vista nettamente distinti: quello appunto eugenetico, e quello biomedico. Per spiegare la differenza, Rutherford cita alcuni esempi pratici come l’impossibilità, di fatto, di definire anticipatamente il colore degli occhi o dei capelli di un nascituro, nonostante le premesse genetiche più solide (le probabilità sono comunque infinitesime), per non parlare di caratteristiche quali l’intelligenza, per la quale sono stati identificati più di mille geni, su cui agiscono tutti i fattori esterni, e che ancora stentiamo a definire in modo univoco.
Ciò detto, Rutheford torna poi sul caso di He Jankui, il ricercatore cinese che nel 2018 allarmò il mondo con il suo annuncio di un intervento sul genoma degli embrioni di due gemelle, Lulu e Nana, figlie di un sieropositivo. Servendosi dell’editing genetico per “vaccinare” le due gemelle già prima della nascita, Jankui avrebbe modificato nel loro genoma un recettore chiamato CCR5, la cui variante Δ32 è stata associata, in alcuni studi precedenti, a una maggiore resistenza all’infezione da virus HIV. L’editing è fallito, ma il genoma di entrambe le gemelle è stato modificato: in un caso (Lulu) cancellando una quindicina di basi, nell’altro (Nana) sostituendo alcune sequenze di DNA con altre. Oltre all’assurdità dei presupposti scientifici dell’esperimento – CCR5 è ubiquitario nell’organismo e nessuno sa che cosa significhi alterarne l’espressione né, tantomeno, se questo protegga veramente dall’infezione – Jankui ha agito illegalmente, e ha scontato tre anni di carcere per questo.
Secondo Rutherford, qualunque ideologia razzista o eugenetica contemporanea dev’essere etichettata come grottesca, oltre che inattuabile.
Quel che a Rutherford preme sottolineare, però, è che il tentativo di modificare il genoma di Nana e Lulu rientra a tutti gli effetti nel campo dell’eugenetica, perché non c’era alcuna certezza del fatto che le bambine si sarebbero ammalate. “L’editing genetico”, scrive Rutheford, “in questo caso non doveva servire a trattare una patologia o il rischio di svilupparne una: era una specie di profilattico genetico, un preservativo a base di DNA che, in teoria, avrebbe dovuto liberare due individui dal rischio di infettarsi con un virus che la maggior parte di persone evita comunque di contrarre”. Tutt’altra natura è invece quella delle terapie genetiche, alcune delle quali ormai approvate, che sono finalizzate a sostituire un gene difettoso all’origine di una malattia, di solito rara e terribile. Si tratta di un’esigua minoranza di patologie per le quali è nota una mutazione, e anche in quel caso non sempre è possibile sostituire o vicariare in vario modo l’anomalia. Ma, avverte Rurtheford, quello è il campo della terapia, e non ha nulla a che vedere con l’eugenetica: riguarda solo il legittimo desiderio di alcuni genitori di curare i propri figli malati, non di rado destinati a una vita breve e colma di sofferenze.
E poi c’è l’ambito eticamente controverso e delicato di fronte al quale Rutheford fa un passo indietro, lasciando la valutazione a chi è direttamente interessato: quello dei test genetici che attestano una malattia come la sindrome di Down, o che predicono un aumento (che solo in pochissimi casi è una quasi certezza) di sviluppare una patologia, come accade per alcuni geni associati alle forme familiari di cancro, di Alzheimer o di malattie quali il morbo di Huntington. La decisione se portare o meno avanti una gravidanza è talmente personale che non può rientrare in alcuna forzatura statistica, e deve essere sempre tutelata. Ma la società se ne dovrà occupare più di quanto non abbia voluto fare finora, perché le tecniche genetiche consentiranno presto – e in alcuni casi lo fanno già – di intervenire sugli embrioni, almeno in alcuni casi, per eliminare quella malattia o quel rischio. Ma questo, di nuovo, non ha nulla a che vedere con l’eugenetica.
La questione è un’altra: visto che sul mondo aleggiano nuovamente teorie che cercano di reintrodurre concetti eugenetici riveduti e corretti, come dice lo stesso Rutherford “re-brandizzati” in termini aggiornati e apparentemente neutri quali “genetica umana”, è necessario essere in possesso delle giuste informazioni, per non cadere in tranelli ideologici camuffati da scienza. Senza mai dimenticare, oltre a tutte le implicazioni morali ed etiche, che “il controllo che esercitiamo sulla biologia è stupefacente, ma rimane governato dal caso”, e soprattutto che “l’eugenetica è un fuoco di paglia, una pseudoscienza che non può mantenere le sue promesse”.