A l di là di pronostici, battute e rivendicazioni di routine più o meno sportive sulla sistematica dimenticanza di alcuni nomi che ogni anno accompagnano la cerimonia, nel 2022 il Nobel alla scrittrice francese Annie Ernaux ha sollevato una serie di polemiche e dibattiti sugli argomenti più disparati. La spaccatura che si è creata nell’opinione pubblica ha dimostrato, proprio per la natura divisiva del discorso critico, l’attualità della produzione di Ernaux, delle tematiche che affronta e di un’evoluzione dei generi letterari che, accantonando momentaneamente i gusti personali, si sta facendo strada sulla scena editoriale. Si può sicuramente dibattere, ed è il caso di molti dei detrattori, sull’importanza o meno del premio o sulle politiche di inclusione e la loro validità o, nel caso di Ernaux, domandarsi se il riconoscimento nel canone o la legittimazione istituzionale siano o meno una forma di rivalsa; ma accantonando il discorso sulla ricezione, la letteratura di Ernaux si trova al crocevia di numerose istanze quanto mai attuali, e che nello specifico caso dell’autrice si sviluppano nel rapporto tra forma e contenuto.
Una delle principali fonti di preoccupazione di fronte al corpus di Ernaux è stata infatti la matrice autobiografica della sua produzione letteraria, in un’epoca in cui il primato dell’autofiction e lo statuto di verità e finzione nella narrativa sono temi particolarmente urgenti. La letteratura di stampo confessionale non è un fenomeno di per sé recente, ne sono prova opere come le Confessioni di Sant’Agostino o i Saggi di Montaigne, ma la consacrazione commerciale del genere viene spesso considerata il sintomo più acuto dell’impoverimento della narrazione o, più in generale, della sfiducia nelle potenzialità della finzione. La ricerca spasmodica di una verità o di un racconto che le corrisponda, sia esso in forma di reportage, autobiografia o documentario, sarebbe pertanto una ribellione al nichilismo postmoderno, o, secondo altri, la sua naturale conseguenza, ma questa ossessione per la verità porta con sé il rischio di scalzare tutto ciò che rende tale la letteratura. È una preoccupazione condivisibile, ma che non intacca una sfumatura dei testi di Ernaux su cui ci si dovrebbe soffermare di più: l’esperienza femminile, certo, ma ancor più quella di classe.
Se la tradizione autobiografica è lunga e variegata lo è anche quella femminile, e uno dei tratti salienti della produzione autobiografica delle donne è l’enfasi sull’aspetto rappresentativo dell’esperienza, su ciò che lega l’io narrante a un’esistenza o un’identità collettive. Nonostante (o forse proprio per) le criticità del genere, dalla tendenza a enumerare i dettagli più scabrosi delle esperienze traumatiche alla confusione tra autobiografia e fiction, la ricezione si è sempre dimostrata prevalentemente funzionale: i trascorsi delle autrici vengono letti per ricercare una corrispondenza con le proprie esperienze di lettrici, così che la fruizione del testo poggi non tanto sulla forma o sul piacere della lettura in sé, quanto sulle possibilità di immedesimazione con il contenuto.
Quella di Ernaux è a tutti gli effetti una letteratura che nell’esperienza individuale cerca di dar voce a una memoria pubblica e collettiva.
Se l’esperienza individuale non vanta più quella patina di eccezionalità tipica delle personalità illustri, il racconto autobiografico diviene un processo dialettico, dove alla centralità dell’elemento soggettivo subentrano processi sovrastrutturali di tipo sociale e ideologico. Quella di Ernaux è a tutti gli effetti una letteratura che nell’esperienza individuale cerca di dar voce a una memoria pubblica e collettiva, dove la scrittura, sempre in tensione, si snoda tra la ricerca di una tanto vituperata autenticità e la continua riflessione sull’eccezionalità o meno del sé narrante. Ma in un contesto storico e sociale in cui la nozione di autenticità e la condivisione sono ormai una forma distorta di consuetudine, venendo elogiate persino per la loro “valenza politica”, una simile prassi autoriale appare più difficile che mai – soprattutto per il carattere necessariamente collettivo che la politica deve avere.
Del resto, sul binomio personale-collettivo nella letteratura autobiografica delle donne si è già ampiamente dibattuto in molti studi. Nel suo articolo The Politics of Subjectivity and the Ideology of Genre, Felicity Nussbaum osserva come i sé narranti siano il prodotto sfaccettato di una serie di ideologie discorsive e conflittuali che, nella loro contraddizione, cercano di mantenere una struttura del soggetto quanto più unificata possibile. Facendo riferimento al pensiero di Lacan, Althusser e Gramsci, risulterebbe possibile per chi scrive stabilire un proprio posizionamento all’interno della società, scandagliando così le profondità del sé per mettere in discussione tematiche sociali di ampio respiro attraverso l’esperienza personale e la scrittura privata. Questo stesso posizionamento, però, non è scevro da condizionamenti. Anche senza essere totalmente d’accordo con l’affermazione di Nussbaum secondo cui raccontarsi in un testo autobiografico, o persino asserire l’esistenza di un sé privato, equivalga a essere complici della produzione politica ed economica di quel soggetto, è innegabile che la scrittura autobiografica sia frutto di un lungo e attento processo di scrematura. La decisione di omettere o includere alcuni particolari a fronte di altri è altrettanto ideologica, e produce una forma di verità letteraria anche e soprattutto nell’artificio. Il soggetto della scrittura autobiografica si trova allora scisso, non sempre con lo stesso grado di consapevolezza, tra il tentativo di affermare la propria identità individuale come io narrante e quello di articolare le categorie che ne regolano e ne delimitano la realtà.
La scrittura di Ernaux, tuttavia, è estremamente lucida nei suoi propositi: il problema centrale, parafrasando La vergogna, è ricercare la realtà invece di produrla. Conscia delle trappole dell’io narrante e al tempo stesso delle sue potenzialità politiche e collettive, l’autrice tenta sempre di ricondurre il proprio vissuto, con tutte le specificità del caso, a quello della sua classe. Non a caso, nel discorso di accettazione del Nobel dichiara, citando Rimbaud, poeta che “si è sentito di razza inferiore per tutta l’eternità”: “J’écrirai pour venger ma race”, scrivo per vendicare la mia razza. E la razza in questione è la “stirpe di lavoratori senza terra, operai e negozianti, persone disprezzate per i loro modi, il loro accento, la loro mancanza di istruzione”. In uno splendido articolo uscito su Jacobin, Jessy Simonini parla della pratica di soggettivazione di Ernaux, da sempre attenta a conciliare la propria funzione testimoniale con istanze di tipo sociologico, come di una liberazione di classe.
Non è raro, nota Cynthia Cruz, che scrittori e artisti working class della nostra epoca rinneghino le proprie origini una volta assurti alla popolarità, ascrivendo il proprio successo alla nozione neoliberista di meritocrazia.
È infatti lo spettro della classe, che Prunetti ha definito “il rimosso letterario di vite fin troppo concrete e per nulla romanzesche, vite di persone che l’industria editoriale considera troppo ignoranti per leggere, […] che non riescono a raccontare la propria storia perché troppo occupate a fare tre lavori”, che affiora anche più dell’esperienza femminile nella letteratura di Ernaux. La scia lasciata (o, il più delle volte, non lasciata) nel canone dalla classe operaia è una storia di “ciò che è perduto nei silenzi innaturali”, scriveva Tillie Olsen sul rapporto tra circostanze e creazione nel suo Silences, saggio che è, a oggi, uno dei testi più emblematici della critica letteraria working class. Pur soffermandosi sull’area anglofona e sulle peculiarità del vissuto delle donne, come il tempo che il lavoro domestico sottrae alla scrittura e allo studio, Olsen ha dedicato ampie riflessioni alle difficoltà che autori e autrici si trovano ad affrontare nel panorama editoriale, dall’esiguo ritorno economico al classismo della critica. E non è raro, nota Cynthia Cruz, che scrittori e artisti working class della nostra epoca rinneghino le proprie origini una volta assurti alla popolarità, ascrivendo il proprio successo alla nozione neoliberista di meritocrazia.
Proprio in Melanconia di classe c’è un passaggio dall’eco particolarmente fatalista, ma che porta alla luce una delle principali problematiche affrontate dagli intellettuali working class: per Cruz risulterebbe infatti più facile morire o assimilarsi che riuscire a documentare il processo di annientamento della memoria collettiva degli oppressi. L’opera a cui fa riferimento per questa riflessione è Savage Messiah di Laura Grace Ford, collezione di fanzine che a cavallo tra pamphlet, teoria critica, collage e graphic novel offre un resoconto culturalmente e cronologicamente mappato dei processi di gentrificazione che hanno interessato alcune aree di Londra. Un’operazione underground compiuta con medium completamente diversi dai testi di Ernaux, certo, ma che persegue obiettivi analoghi. E, sempre sulla scia di Walter Benjamin, a interessare Cruz è la possibilità di redenzione offerta dalla memoria, dalla citazione e dalla giustapposizione di frammenti all’apparenza eterogenei.
Questo processo di elaborazione del ricordo avviene per collocazione, per collazione, per confronto, negli interstizi e nei salti tra memoria volontaria e involontaria che permettono al rimosso di riaffiorare e darsi un ordine narrativo. Un modo di smuovere il passato e riscriverne le coordinate, rende possibile la conservazione della memoria con un lavoro dialettico di negazione e presenza, riportando l’assenza a galla e rendendo finalmente visibile l’invisibile e il taciuto rappresentati non tanto dall’esperienza working class, ma la perdita della sua testimonianza. A spingere Ernaux ad approfondire il funzionamento e gli effetti della memoria è proprio l’idea che “un giorno non ci sarà più nessuno per ricordarsene. Ciò che è stato vissuto […] resterà inspiegato, vissuto invano”, la possibilità per lei e per la sua esperienza di classe di “vivere al di sopra del tempo”.
Un modo di preservare la memoria ci viene offerto, come testimoniato dal collezionismo maniacale di Benjamin, dalla storia che gli oggetti raccontano. In letteratura, quella degli oggetti è stata spesso una questione legata al consumo e radicata nel contesto sociale, che si tratti degli studi sull’ambivalenza di cianfrusaglie e antiquariato nella letteratura dell’Ottocento sulla scia della prima rivoluzione industriale o degli oggetti come sistemi segnici e simulacri della postmodernità, svincolati da ogni rapporto affettivo con il possessore. Nel pensiero di Benjamin hanno però una funzione diversa: le cose, che a differenza degli oggetti hanno un particolare legame con i proprietari, possiedono la singolare capacità di intessere una storia da una serie di elementi sparsi, di evocare sensazioni e ricordi sulla base dei sentimenti suscitati nel possessore. La collezione e l’archivio diventano allora testimonianza tangibile del mondo interiore e della vita di chi sceglie attivamente di conservarli e di averne cura; e insieme alla tecnica del montaggio, che ne ricostruisce una traiettoria narrativa, permettono una riscrittura dell’esperienza che sarebbe altrimenti rimossa.
Una declinazione del genere autobiografico emersa di recente è la cosiddetta autotheory, una commistione che in letteratura si sviluppa al limitare di memoir, saggistica e critica culturale.
Anche la letteratura di Ernaux si muove su questo doppio binario. Da una parte troviamo la catalogazione clinica del proprio vissuto che non risparmia i particolari più concreti, anche nella loro apparente futilità (liste della spesa, inventari, fotografie), dall’altra la cernita, tanto sapiente quanto invisibile, di un bagaglio personale diviso tra cosa raccontare e cosa omettere. La frammentarietà dei testi che ne consegue fa eco alle esperienze individuali della scrittrice, che si muovono tra passato e presente in un processo di anamnesi e autoanalisi costanti, e si colloca in una serie di punti di riferimento della sua formazione che riaffiorano di continuo. Ne sono esempio la storia del quartiere di Y., quella della professione e del negozio dei genitori, le differenze sociali tra l’autrice e le compagne di scuola: una mappatura della quotidianità delle classi povere che, in assenza di una testimonianza letteraria o di una presa di coscienza che ne sancisca la legittimazione, poteva esistere soltanto in una serie di pratiche condivise, una routine fatta di codici incompatibili con quelli dei ricchi.
Ernaux racconta allora del patois, di quell’inflessione dialettale per cui la madre di Ernaux rimbrotta costantemente il padre, delle conversazioni con i giovani della piccola borghesia, chiacchiere sul jazz o sul cinema di René Clair, dell’inconciliabilità tra i valori e le abitudini di chi ha sempre lavorato e di chi, come lei, ha avuto la possibilità di intraprendere gli studi. È in momenti come questi, nota Cruz, quelli in cui si profila una frattura insanabile, che è possibile rinvenire il significato di questa crepa nella realtà e trovare una redenzione per il proprio passato – o una vendetta per la propria razza. Sono molti gli intellettuali che hanno optato per l’assimilazione e la dimenticanza in un mondo in cui il modello di pensiero dominante è quello neoliberista, o per la più semplice e altrettanto frequente mancanza di domande sul proprio posizionamento nella società, ma la scelta di raccontare il proprio “perenne senso di mancanza” può creare un linguaggio e con esso una giustizia per quanto perduto, per quel “dramma che non aveva avuto luogo”, fuori da ogni stigma o vergogna.
L’utilizzo del termine vergogna non è casuale. Nel suo La vergogna è un sentimento rivoluzionario, che nell’analizzare le implicazioni sociali della vergogna si serve di numerosi esempi letterari, Frédéric Gros dedica un’ampia analisi alla produzione testuale di Ernaux. Accostando le riflessioni dell’autrice a quelle dell’Eribon di Ritorno a Reims, dove alla vergogna per la propria omosessualità subentrava quella sociale, Gros elabora un aspetto della società “che i filosofi […] non hanno mai adeguatamente considerato: quello che intende la società come sistema di giudizio, organizzazione gerarchica, potenza di stigmatizzazione, violenza delle esclusioni simboliche, esperienza ripetuta di umiliazione e vergogna”.
Se il provare vergogna è innanzitutto una questione di posizionamento sociale all’interno di tali gerarchie, complicata dalla compresenza più che ragionevole di sentimenti come l’umiliazione e la rabbia, è altrettanto scontato che la povertà in sé, osserva Gros, non sia vergognosa. La frase che il padre di Ernaux le rivolge con orgoglio ne Il posto, “Non ti ho mai fatto vergognare”, o la fierezza della madre rievocata in Una donna sono emblematiche di questa distinzione tra povertà e miseria, separate da un principio di dignità. Gros sostiene infatti che questa fierezza della povertà, polo opposto della già discussa vergogna, operi non sul piano della gerarchia del guadagno, bensì su quello della morale e della virtù, e dimostra come il disprezzo sociale degli abbienti e della classe media produca vergogna solo quando nel disprezzato c’è un’approvazione interiore, anche inconscia, “di quel sistema che mi condanna”. Le conseguenze possibili sono l’introiezione rassegnata, ampiamente dibattuta da psichiatri e sociologi come Dejours e de Gaulejac (che in epilogo al suo La névrose de classe include una lettera scritta proprio da Ernaux), o, come avviene in Ernaux, un’ambizione furiosa che indaga di continuo e con lucidità la vergogna che prova, e che in questa riflessione domanda giustizia.
La scelta di raccontare in prima persona, di dire io, di essere una voce narrante per i non ancora narrati, è stata una scelta politica che le ha richiesto tempo e coraggio.
Il ricondurre l’individualità dell’io narrante alla collettività, però, va a toccare una problematica etica. Una declinazione del genere autobiografico emersa di recente è la cosiddetta autotheory, una commistione che in letteratura si sviluppa al limitare di memoir, saggistica e critica culturale, e che cerca di integrare l’esperienza del sé in contesti sociali o artistici più ampi mantenendo la consapevolezza (ma non sempre il rigore) del ragionamento filosofico. Può apparire come una contraddizione in termini, se non addirittura una forma di provocazione, ma getta luce su un modo diverso di concepire la letteratura e i suoi effetti sulla società e sugli individui. Lauren Fournier, che ne ha studiato lo sviluppo, osserva come l’integrazione del personale e del concettuale abbia sempre ricoperto un ruolo centrale nel pensiero femminista e postcoloniale, e anche quando derubricata in semplice speculazione narcisista da scettici o detrattori, questa scelta stilistica solleva degli interrogativi che nel campo dell’analisi letteraria sono molto attuali. Quanto del proprio vissuto può essere astratto e legittimamente ricollegato a questioni sociali più ampie, ad esempio? Quanto della neutralità e del rigore della scrittura vengono compromessi da una simile operazione, e in che termini si può parlare di legittimità scientifica, se gran parte delle dissertazioni sul metodo riflettono un pensiero che rifiuta in partenza l’esperienza degli esclusi?
Anche a fronte delle criticità appena menzionate, questa modalità di scrittura autobiografica (Fournier circoscrive la sua ricerca alla teoria femminista e all’arte contemporanea statunitensi, con qualche sporadica digressione letteraria sulla New Narrative di San Francisco e sulla filosofia di Irigaray e Cixous) permette di ritagliare uno spazio parzialmente istituzionale per dar voce alle esperienze degli esclusi e ridefinire i limiti di possesso e legittimazione del sapere, spesso relegati alle sole accademie. Riflette su quali generi di teorie vengano ritenuti meritevoli di prendere parte al contesto istituzionale, su quali invece vengano esclusi, su chi, tenendo conto di questo discrimine, ha diritto a raccontarsi in prima persona. È proprio in questa possibilità di ridefinire i parametri dell’io narrante che si torna all’aspetto etico della scrittura, alla possibilità di unire la propria verità e il proprio bagaglio di conoscenze al contesto collettivo: ma la ridefinizione della verità secondo criteri esclusivamente etici è una questione altrettanto spinosa. Si torna infatti al problema dell’autenticità in letteratura, complicato dal carattere performativo della scrittura autobiografica – dove con performativo si intende un tipo di scrittura in cui l’io narrante viene a concretizzarsi nell’atto stesso dello scrivere, come accade per Ernaux, e non più nell’esperienza vissuta antecedente al racconto, che nel momento della scrittura viene semplicemente rimemorato.
Quando scrive, infatti, Ernaux si mantiene vigile sugli effetti che menzioni e omissioni hanno sul testo. La tecnica di montaggio non procede solo per elenchi, che riuniscono sotto un’unica dicitura le diverse iterazioni di un vissuto ancora sconnesso e non traducibile a parole, ma anche per citazioni letterarie, a ricollegare l’esperienza della propria inadeguatezza sociale a ciò che, nell’opinione comune, si è dimostrato degno di essere raccontato e accolto nel canone. In Memoria di ragazza la scrittrice guarda attraverso una fotografia la sé dell’epoca, e ne deplora, in terza persona (come spesso accade nei suoi romanzi, quasi a sottolineare il progressivo estraniamento di classe), “l’incapacità di ritrovare il suo linguaggio, tutti i linguaggi che compongono il suo discorso interiore”.
L’aspetto peggiore della vergogna, ricorda infatti Ernaux, “è che si crede di essere gli unici a provarla”. La scelta di raccontare in prima persona, di dire io, di essere una voce narrante per i non ancora narrati, è stata una scelta politica che le ha richiesto tempo e coraggio. Perché la collettività dei ricchi non è mai uniforme, è sempre diversificata, un ventaglio di eccezioni che nasconde l’esemplarità di classe dietro quella dell’individuo, mentre la collettività dei poveri deve accontentarsi di un’uguaglianza di comodo, di un’omogeneità che si sviluppa nel disinteresse. Davanti alla prospettiva di questo annientamento, la memoria e la permanenza garantite dalla scrittura creano un linguaggio che permette di articolare quest’oppressione e questa dimenticanza invisibili. E se nelle parole di Ernaux “la grande memoria della vergogna” è “più irremovibile di tutte le altre”, altrettanto forte è il suo proposito di opporsi, con la disciplina e l’ostinazione che la migliore letteratura e la migliore vendetta richiedono, alla più irremovibile delle vergogne: quella dell’insignificanza e dell’oblio.