“N ove personaggi in fuga d’autore”: col solito misto di erudizione e modestia, Grazia Cherchi tratteggia i nove amici chiamati a raccolta in un villone della campagna piacentina. Con lei, “che scrive il libro”, gli altri protagonisti hanno condiviso gli anni della militanza e dell’impegno, lontani ormai da almeno un paio di decenni. Durante un weekend i compagni di una volta sono invitati a raccontare cosa ne è stato di loro in tutto quel tempo, a chiedersi se c’è ancora “uno straccio di speranza”. Un “Decamerino”, come ironizza uno di loro, ma soprattutto la reunion di un gruppo di ex sessantottini (anzi, dei fratelli e delle sorelle maggiori): ecco il soggetto di Fatiche d’amore perdute, l’unico romanzo che ci ha lasciato Grazia Cherchi. Uscito originariamente nel 1993 per Longanesi, due anni prima della sua morte, è sparito dalla circolazione diventando ricercatissimo, finché quest’estate Minimum Fax non l’ha riportato alle stampe con un’introduzione di Fabio Stassi e una postfazione di Daria Bignardi.
Ai fan di Cherchi, il romanzo sembrerà continuazione lunga dei racconti, l’altra opera narrativa firmata dalla co-fondatrice dei Quaderni Piacentini, che fu anche critica letteraria finissima, editor e scout senza la quale la letteratura italiana sarebbe oggi diversa. Già dal titolo, Fatiche d’amore perdute funziona infatti un po’ come un Basta poco per sentirsi soli reloaded (scusa Grazia), similmente pervaso da una mestizia sarcastica ma pacata, immersa nell’arte della parola e tenuta in vita dall’unica cosa che conta, dopo la letteratura: le relazioni umane. Il termine giusto sarebbe “rassegnazione attiva” – ma di quello scriverò nella seconda parte di questo articolo. Ora basti dire che è innegabile: formalmente e tematicamente il romanzo aggiunge poco o nulla alla penna della Cherchi narratrice che già conosciamo. Anzi, privata dalla forma breve – così appropriato per il suo stile sintetico e preciso – ne soffre anche un po’, per una serie di motivi che lei sicuramente conosceva. Uno svolgimento esile, troppi personaggi dalle voci simili, tematiche schizzate e non approfondite – un romanzo conversazionale, più appendice che svolta nella bibliografia dell’autrice.
Ma invece di parlare dei contro, ecco una valanga di pro, primo fra tutti il piacere di ritrovare tutto quello che si era amato nella raccolta (del 1986, poi estesa nel 1991): una scrittura limpida, succinta ma varia, che non perde occasione per andare al sodo o tagliare corto quando serve (“Intanto il tempo passava – cos’altro avrebbe potuto fare?” o “‘… come facevo a prendere tanto sul serio la mia infelicità?’ È una domanda che talora anch’io mi pongo. Significa che si sta andando giù per la discesa. Ma preferisco non dirlo.”). Ritorna una dialettica armonica tra parlato e scritto (“‘Break!’, ordina Filippo scampanando. E spalanca le vetrate sul tramonto in diretta”). Poi le imperdibili massime cherchiane, giudizi sul particolare che si fanno immediatamente generalizzazioni condivise (“Essere miti senza mietere vittime: sarà mai possibile?”). E ancora l’umorismo, gentile o tagliente, alle spese di tutti, inclusa sé stessa (“‘Neanche un capello bianco! Complimenti.’ ‘La devastazione ha lavorato all’interno e alla grande.’”). Di nuovo il citazionismo letterario svelto, talvolta dotto altre volte elementare, mai autoindulgente (“Mi viene in mente Maccari: vedendo del granturco, astenersi dal citare Faulkner” o “Camminiamo lentamente nella notte dolce e chiara e con un po’ di vento”). Sempre lo sguardo acuto ed empatico rivolto al prossimo. E così, in procinto di servire un tagliere di salumi in tavola: “Scroscia un applauso. È per la coppa, ma è lo stesso un buon momento per fare il mio ingresso”.
Il progetto della reunion nella grande casa, con la scusa di rivedere gli amici e poi scriverci un libro, suona proprio come il sogno di chi sta per accomiatarsi.
Evidentemente Grazia Cherchi non doveva annunciarsi per entrare nel proprio libro; è lì che dice Io fin dalla prima riga. È questo il grande pro di Fatiche d’amore perdute: la cospicua presenza di rivelazioni che l’avvicinano a un abbozzo di autobiografia. “L’autofiction vi ha dato alla testa,” mi rimbrotterebbe oggi Grazia, che detestava banalità e ripetizioni, “vedete memoir dappertutto!”. Ma è vero, soprattutto perché i frammenti personali in cui ci si imbatte affrontano tre temi cruciali: l’amore (poco), la riflessione sulla propria scrittura (tanto), la ragione del romanzo (e cioè la/il fine di tutto).
Chissà che nelle fatiche perdute del titolo non si celi un’esperienza dell’amore vissuta perlopiù platonicamente, suo malgrado. Scrive ad un certo punto: “‘Amore è: non voglio che tu muoia’, scandisco emozionata. Esito un attimo e poi decido di buttarmi: ‘Forse per questo io ho sempre amato uomini più vecchi, anche molto più vecchi di me’.” Più avanti, all’amico che le confida “‘ero un po’ innamorato di te’. Lo abbraccio sorridendo e penso: Il mio guaio è sempre stato quell’‘un po’’”.
Nella rimpatriata ci sono solo due altre donne, oltre a lei (suggerisce anche perché: “Il fatto è che io preferisco la compagnia degli uomini a quella delle donne. Facendo con ciò il mio danno: le donne mi hanno sempre amato meglio e di più”). Una racconterà la sua storia solo a Grazia, invece che al gruppo intero come fanno gli altri. L’altra non racconterà nulla – se non, in chiusura, del tumore forse maligno di cui attende la diagnosi. Cherchi morirà due anni più tardi, gestendo la sua sorte in privato. È difficile non fare congetture; soprattutto perché il progetto della reunion nella grande casa, con la scusa di rivedere gli amici e poi scriverci un libro, suona proprio come il sogno di chi sta per accomiatarsi (invece del funerale, fantasia da megalomane). Infatti poi l’ammette nero su bianco: “Ho realizzato soltanto ora questo sogno: per un weekend. ‘Ciò che desideri in gioventù, lo otterrai nella maturità’, diceva Goethe. Forse sottintendendo: quando ti interesserà poco o niente”. Riconosce anche di trovarsi un po’ in difficoltà: oltre al perché di quella rimpatriata, anche il per come: “È un’emergenza, un suicidio, a far riunire un gruppo di ex amici nel film Il grande freddo di Kasdan. (…) Ma sto divagando! Cortese lettore, vienimi in aiuto! Se potessi indovinare cosa ti aspetti adesso… (…) Insomma, qui non c’è emergenza alcuna, anche se in Italia è emergenza continua. Grazia, complimenti per la banalità” chiude infine, bacchettandosi da sola. Come fa del resto spesso, in riferimento alla propria narrazione: you can’t take the editor out of the… eccetera.
Penso: Devo delineare un po’ più i… personaggi. Si dirà che mancano di spessore, o, peggio, che sono intercambiabili (…). Uffa, faccio quello che posso! Sempre lì a criticare…
Si tiene a bada, costantemente: forse anche per questo non produsse tanta narrativa. O forse perché, semplicemente, pur avendo il dono della scrittura, le mancava il talento della narratrice. Una tragedia tutto sommato trascurabile, per noi posteri, considerato il ben di dio che ci ha lasciato. Per lei chissà come dev’essere stato. Sicuro “tra l’agro e il dolce”, ma vigile e mai noioso – nonostante la consuetudine del dramma: “Eros e Thanatos: la solita, vecchia solfa”. E però, tornando a noi che siamo venuti dopo, volgendosi al futuro che il gruppo evita di guardare: comprensibile che Grazia Cherchi abbia volato con una certa leggerezza fino all’ultimo, perché aveva ben intuito che le cose sarebbero cambiate molto di più di quanto erano cambiate dal 1972, quando fu scattata la “foto di gruppo con falliti” che troneggia sul caminetto della casa. In Fatiche d’amore perdute si paventa la vera fine, non solo dei presenti: pure i lettori venturi – tocchiamo ferro – vengono messi in dubbio: “Hildesheimer (…) mi raccontò che aveva smesso definitivamente di scrivere: era inutile, non ci sarebbero stati i posteri”. Quanta lungimiranza, cara Grazia… ecco perché, nel suo romanzo, la scena dell’addio è scritto in terza persona. La nostra fine può raccontarla solo qualcun altro.
Cherchi si tiene a bada, costantemente: forse anche per questo non produsse tanta narrativa.
“‘Do you remember militante?’” chiede retoricamente uno degli amici nel capitolo intitolato “Che fare?”, in cui al quesito di come organizzare le confessioni della reunion, i presenti cominciano a sciorinare i vari modi in cui facevano politica vent’anni prima. Si ricordano eccome – proprio come i personaggi de Il grande freddo, il film di Lawrence Kasdan del 1983 citato da Cherchi, in cui otto amici si ritrovano per il funerale di uno di loro morto suicida. Di anni, da quando volevano fare la rivoluzione, ne sono passati solo dieci. Ma siccome siamo negli Stati Uniti il trapasso è accelerato: il buonone del gruppo sta per diventare milionario, l’avvocata penale per i meno fortunati ora difende speculatori terrieri e l’intellettuale impegnato nelle scuole disagiate del Bronx ora scrive profili di costume per un rotocalco e pianifica di aprire un locale notturno. Questi sembrano mestieri del tutto passabili, oggi – tranne, certo, la legale di coloro che “stuprano solo la terra”. Guadagnare sfruttando l’ambiente è colpa über maxima; ma prima di chiedersi se una qualsiasi forma di profitto sia ecologicamente possibile, all’epoca come adesso, si consideri la spiegazione del personaggio in questione, che chiarisce così la transizione: “El greedo strikes again”. Un eccezionale gioco di parole tra “gringo” – termine dispregiativo coniato in centro-sud America per descrivere lo straniero perlopiù statunitense e imperialista, “greed” – avidità, e “Greedo” – personaggio comparso nel primo Guerre Stellari (il cui seguito del 1980 s’intitolava per l’appunto L’Impero colpisce ancora / strikes back). Sintesi appropriatamente post-moderna dei tempi che cambiano.
Inoltre, il personaggio di Meg sarà anche un first cinematografico della donna che cerca la maternità autarchica, fuori dalla coppia. Ma per le associazioni che sollecita il romanzo di Cherchi, la sua trasformazione professionale non può che ricordare il Gianni Perego di C’eravamo tanto amati. Il film di Ettore Scola uscì nel 1974, quasi dieci anni prima di Il Grande Freddo e venti di Fatiche d’amore perdute. Anche lì, al centro, c’è il ritrovarsi a Roma di tre amici ex-partigiani. I loro destini dai tempi della Resistenza saranno diversi, nonostante gli ideali e le risorse simili alla partenza. Colui che davvero “farà il giro” sarà il personaggio di Gianni (Vittorio Gassman), da squattrinato tirocinante ad avvocato-tesoriere di un palazzinaro di umili origini, mezzo fascista e tutto mafioso. All’inaugurazione di un nuovo mostro edilizio, la famiglia – di cui Gianni entrerà a far parte sposando la dolce ma ignorantissima secondogenita – si raduna sul tetto del grattacielo in costruzione e un maialino arrostito viene leggiadramente depositata da un elicottero sulla tavola apparecchiata. Si sfilano i coltelli e fettone di porchetta riempiono i panini degli astanti.
Il primo ospite ad arrivare nella casa di Grazia Cherchi in Fatiche d’amore è Filippo, anche lui avvocato, che, deluso dalle metodologie di difesa integraliste dell’estrema sinistra, diventa “avvocato dei ricchi”. Varcata la soglia, esclama con approvazione: “Ottimo. (…) Una dimora di ricchi e non di arricchiti”. Il parvenu non si apprezza mai e non gli si concede alcuna attenuante, come ad esempio le origini modeste. Legittimo pare solo, in quel caso, sfruttarlo il più possibile – tipo vendetta per interposta persona contro il padrone – e trarne il massimo guadagno col minimo senso di colpa. Se non c’è amarezza, rimane però una rassegnazione vigile: consapevoli ma mai corresponsabili. L’individualismo, si direbbe, ha fatto carriera prima di diventare il nuovo paradigma sociale.
Ma nonostante le scelte professional-esistenziali che i vari personaggi si rimproverano a vicenda, la sincerità non è qualità che manca a questi ex partigiani e baby boomer, come neppure agli amici di Grazia Cherchi. C’eravamo tanto amati e Il grande freddo esplicitano questa trasparenza interiore anche visivamente. Nel primo, presa in prestito la tecnica dal teatro, si illuminano i protagonisti che confessano – al pubblico e a sé stessi – i propri stati d’animo più intimi, mentre il resto della scena rimane immobile, avvolta nel buio. Nel secondo viene ritrovata una videocamera e i personaggi si riprendono inscenando delle specie di sessioni di autocoscienza; noi spettatori vediamo le riprese insieme a loro, nello sgranato VHS della televisione. Guardarsi e raccontarsi diventa pratica ermeneutica, non più politica. Forse un anticipo della cultura dell’autorappresentazione? All’epoca queste opere vennero considerate pessimiste (rinunciatarie, ciniche). E volevano anche esserlo: il grande freddo è il termine scientifico che descrive un’ipotetica fine dell’universo, mentre il film di Scola – che originariamente voleva esplicitare il tributo e il superamento del neorealismo chiamandosi “Voglio uccidere Vittorio de Sica!” – incapsula già nel verbo del titolo un passato “che è veramente passato”, proprio come osserva un personaggio di Fatiche d’amore perdute di fronte al rifiuto, da parte della maggioranza del gruppo, di imbarcarsi in un nuovo progetto culturale tutti assieme.
A una rimpatriata di millennial, la rassegnazione mi sembra difficile che spunti come novità, perché siamo partiti un po’ svantaggiati, con in eredità l’abitudine già frustrata all’idea di cambiare il mondo.
Eppure, viste da qui, dalla prospettiva di chi oggi si avvicina agli -anta degli amici de Il grande freddo (che infatti figliavano proprio negli anni Ottanta), sembra che la rassegnazione agita di queste figure sia piuttosto una conseguenza naturale dell’invecchiamento, non un problema generazionale o una conseguenza puramente storica. Anzi, da certo un punto di vista, le opere a tema rimpatriata sono dei coming-of-age della senilità (vedi la linea invisibile tracciata da Come eravamo di Sydney Pollack fino a Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti). Ma esistevano, prima di queste, generazioni che a livello così esteso e connesso, globale e simultaneo, hanno pensato di cambiare il mondo con le proprie forze?
Nel chiedermelo, ricordo che il fenomeno si è ripetuto in diverse istanze storiche del secolo scorso e mi stuzzica l’esercizio al presente: m’immagino di andare a una reunion di miei coetanei oggi. Eri a Genova o stavi al mare, hai visto le torri cadere o hai cambiato canale, ti sei affacciato al mondo del lavoro quando era del tutto sparito e poi hai provato ad affermarti proprio quell’anno in cui il mondo intero è rimasto a casa? A una rimpatriata di millennial, la rassegnazione mi sembra difficile che spunti come novità, perché siamo partiti un po’ svantaggiati, con in eredità l’abitudine già frustrata all’idea di cambiare il mondo. A chi ancora lo credeva, le batoste sono state poche ma ben assestate. Perciò, guardandoli da qui, non sembrano così tremendi, i finali di questi ritrovi – al massimo ammonitori, oppure tautologici. Io li capisco. Del resto, non ci si ritrova solo per sé stessi, ma anche per lasciare qualcosa, almeno un’illusione di traccia. Gli americani la buttano sul ridere. Gli italiani si radunano letteralmente intorno al grande “boh”: “una conclusione ambigua ma aperta, (…) una paroletta semplice, magari dialettale, che non vuole dire niente, ma che potrebbe esse’ pure minacciosa”. Cherchi e compagnia si disperdono senza risultati: “Cortese lettore, anche io sono dell’avviso di Rosa: con un nulla di fatto, abbiamo fatto la cosa migliore”.
Già, non dimentichiamolo: alla fine, il cortese lettore muore. E perché, secondo Hildesheimer, sparirà dalla faccia della terra, forse “per una catastrofe nucleare?”. Ah, che sollievo essere nel 1993, quando la Guerra Fredda era “finita” e la paura dell’atomica poteva passare come un capriccio demodé o l’effetto collaterale di un errore umano. Poi rileggo e trovo un errore: ho scritto “naturale” anziché copiare l’originale “nucleare”. Rimango di sasso, evidentemente ho assorbito una verità a cui razionalmente non voglio credere. Visualizzo una rimpatriata di millennial pieni di gadget elettronici e memorie ibride tra online e offline. Che si pavoneggiano pensando di passare alla storia come l’ultima generazione che ricorda un mondo pre-internet. Che verranno spazzati via dall’ultima generazione che ricorderà. O che ci sarà.