Di cosa vogliono avere paura le donne?
Desiderio femminile e appetiti mostruosi nelle serie Yellowjackets e Swarm.
Desiderio femminile e appetiti mostruosi nelle serie Yellowjackets e Swarm.
L a maggior parte delle ragazze che conosco non guardano horror. Una sera, a cena con un’amica, l’ho pressata sulle ragioni di questa circostanza, chiedendole se fosse la violenza o la tensione o il sangue a disturbarla di più. Lei mi ha risposto semplicemente che nell’horror tradizionale (lo slasher movie) una donna si trova a rivivere amplificate situazioni che fanno parte della sua vita di tutti i giorni – tornare a casa la sera con la paura di essere seguita, o col terrore che qualcuno sbuchi da dietro un angolo buio per attaccare. Perché, chiese lei, dovrei espormi a immagini che fanno da trigger alle mie ansie preesistenti? L’horror ci mette in uno stato di allerta continuo: le chiavi fra le nocche e lo spray al peperoncino in borsa. That’s no horror, that’s my life, mi ha detto.
L’horror ci mette in uno stato di allerta continuo: le chiavi fra le nocche e lo spray al peperoncino in borsa.
I film slasher sono un tipo di horror dove un killer terrorizza, pedina, uccide o semplicemente rende le donne oggetto di un desiderio sessuale perverso. Non tutto l’horror è slasher, ma è innegabile che, per molto tempo, sia nel crime che nell’horror le donne siano state vittime di fantasie maschili. Esempi di questo genere includono Halloween (1978), Texas Chain Saw Massacre (1974), e tutti gli altri film in cui c’e una giustapposizione problematica fra erotismo e violenza, ovvero dove il sesso e la violenza inflitti sulle donne (e uso “inflitto” anche per il sesso dato che spesso si tratta di desideri non reciprocati) sono usati per attrarre gli spettatori, che sono per la maggior parte uomini.
Eppure l’horror continua a spopolare, soprattutto, oggi, nelle sue forme di rivendicazione politica. Nomi che vengono senz’altro in mente sono quelli di Jordan Peele, il cui Get Out ha stabilito un nuovo canone nel genere, e Donald Glover, con Atlanta (la terza stagione in particolare) e poi Swarm (di cui parleremo più avanti). Ma quello che colpisce ancora di più è la crescita esponenziale di film e serie TV horror pensati per le donne e diretti da donne impegnate a riappropriarsi dello storytelling tradizionale per liberarlo dagli stilemi dettati da altre generazioni di artisti.
La stessa cosa a pensarci bene vale per i thriller, che hanno subito un’evoluzione più rapida, e in cui la violenza gratuita sul corpo delle donne (rapite, violentate, abusate, tradite eccetera – un tropo del genere), ha sortito come effetto boomerang la comparsa del cosiddetto “revenge thriller” di cui Promising Young Woman è uno degli esempi più lampanti; ma si potrebbero citare, ancor prima, Gone Girl e Killing Eve.
In ciò che consideriamo più strettamente horror, Raw (2009) prima, e Jennifer’s Body (2016) poi, aprono la strada a un nuovo tipo di immaginario all’inizio degli anni zero, in cui è la donna a diventare protagonista: non nelle sue variazioni di vittima, ma in quanto vera e propria persecutrice. Negli ultimi anni questo fenomeno si è acuito – un risultato, forse, del sentire apocalittico di un’epoca fra distruzione ecologica, pandemie e terze guerre mondiali – e ha raggiunto il suo potenziale di sfumature.
Molte registe donne si sono avvicinate all’horror, e hanno avvicinato a loro volta il pubblico femminile, chiedendosi: di cosa vogliono avere paura le donne? E secondo me la risposta è “non più degli uomini, bensì di loro stesse’.
Il 2022 è stato l’anno del cannibalismo: Fresh, la commedia romantica trasformata in horror di Mimi Cave, e Bones & All, il film di Luca Guadagnino in cui Timothée Chalamet e Taylor Russel impersonano una coppia di giovani cannibali che si innamorano nel mezzo di un’odissea americana lunga migliaia di chilometri, e infine Yellowjackets, la serie americana in cui l’aereo di una squadra di calcio femminile liceale dirotta nel mezzo di una foresta, e le ragazze si trovano costrette a entrare in modalità survivor, sono tra gli esempi più conosciuti di questo trend.
Fresh è un film denso di commento sulle politiche di genere. Ci parla, prima di tutto, degli orrori del “modern dating”. Il film inizia con l’incontro occasionale fra Noa (Daisy Edgar-Jones) e Steve (Sebastian Stan), che flirtano e si raccontano l’un l’altra davanti a svariati bicchieri di vino. Prosegue con il corteggiamento – il love bombing – da parte di Steve, che infine invita Noa per un weekend romantico nel suo chalet nel bosco (classico tropo dell’horror/thriller). Le prepara una cena coi fiocchi, le versa vino buono, le mette su dischi. Noa e Steve ballano finché lei non riesce più a reggersi in piedi e lui, da buon cavaliere, la porta via in braccio. Fin qua, tutto da manuale. Il plot twist avviene quando Noa si risveglia incatenata in una cella, scossa dalle urla di altre donne provenienti da celle vicine, e capisce di esser stata fatta prigioniera da uno psicopatico. Questo dà avvio alla seconda parte del film, in cui scopriamo che Steve è un trafficante e avido consumatore di carne non genericamente umana, ma esclusivamente femminile (possibilmente proveniente da donne molto attraenti). Steve si occupa di macellarla, impacchettarla elegantemente e spedirla ai consumatori.
Temi come la mercificazione e oggettivizzazione del corpo femminile sono lampanti in questa feature di Mimi Cave, in cui le donne sono, letteralmente e sotto ai nostri occhi, fatte a pezzi e vendute sul mercato nero ai feticisti del genere (“the 1% of the 1%” – un’elite ingorda e depravata di uomini facoltosi che è disposta a pagare qualsiasi prezzo per la proverbiale fetta di culo). “We don’t just win; we devour” scrive Chelsea G. Summers nel suo saggio A Certain Hunger, “We go to bars described as meat markets in search of a piece of ass, and if we find a lover, we nibble, we ravish, we swallow them whole.” La connessione tra erotismo e cannibalismo è di vecchia data, ma qua si aggiunge un discorso su chi è che ha il coltello dalla parte del manico. La donna, qui, è percepita come inferiore alla somma delle sue parti, da parte dell’uomo c’è un limite al vederla come essere umano intero. Eppure, nonostante Cave adotti una prospettiva femminista, il ritorno del represso è tutto maschile. Ci troviamo di fronte ad una sorta di dark, twisted fairytale, in cui è l’uomo (prima principe azzurro e poi furfante) a decidere le sorti, ad attrarre e poi aggredire, mentre la donna agisce reagendo, difendendosi.
Anche nello slasher esiste una sorta di eroina, la cosiddetta final girl, quella che alla fine riesce a salvarsi dal massacro e sconfigge il mostro. Lungi dall’essere un’elemento femminista, o un’esempio di “feminine agency”, la final girl è, nelle parole di Carol J. Clover (studiosa che per prima identificò questo tropo nel 1992): “the embodiment of what a woman should be” (Men, Women and Chain Saws: Gender in the Modern Horror Film). Si tratta solitamente di una ragazza “perbene”, vergine, scevra da vizi come bere e fumare e fare sesso occasionale (la pia e abbottonata Laurie Strode che attacca Michael Myers con un ago da cucito è un esempio calzante). Sconfiggere il mostro è, dunque, un premio per la sua virtù e per la sua obbedienza.
Nonostante Fresh sia stato presentato come un’innovazione del genere, in realtà fa un passo indietro rispetto ad altri film sul cannibalismo venuti prima (come appunto Jennifer’s Body e Raw) perchè non va mai ad intaccare o a mettere in discussione la purezza morale del personaggio femminile – presentato solo o come vittima o come eroina – e che appunto attacca solo per difendersi, per reagire alla violenza subita. Manca, insomma, che sia la donna a tenere il coltello.
La connessione tra erotismo e cannibalismo è di vecchia data, ma qua si aggiunge un discorso su chi è che ha il coltello dalla parte del manico.
A portare avanti questo discorso, invece, sono due show che non a caso prendono il nome delle api, Swarm e Yellowjackets. La premessa di Yellowjackets ricorda un po’ quella di Lord of The Flies, ma, nota un giornalista del New Yorker, “flies may have been a fine analogue for boys, but girls require the ferocity of wasps, with their venom and their stingers. And their intelligence”. Yellowjackets si sviluppa su due linee temporali, una si svolge negli anni Novanta e ha come protagoniste le adolescenti il cui aereo è precipitato nel mezzo di una foresta. L’altra, ai giorni nostri, ci presenta le stesse ragazze in versione adulta, impegnate ad andare avanti con la loro vita facendo fronte al trauma che hanno subito venticinque anni prima.
Le due timeline in Yellowjackets mettono in relazione una femminilità in potenza con una che invece è stata “fissata”. Molti dei critici che hanno analizzato lo show notano come le versioni adulte delle Yellowjackets impallidscano di fronte alle ragazze feroci che cacciano nel bosco, cuciono vestiti di pelliccia e si lasciano andare a rituali orgiastici nella natura. Shauna (Melanie Lynskey), da grande ha sposato Jeff, quello che era il fidanzato di Jackie (la sua ex migliore amica e queen bee – ape regina – delle YJ). Ma quello che una volta era il ragazzo più ambito della scuola (ma forse lo era solo perché usciva con la ragazza più ambita della scuola…), adesso ha perso tutto il suo lustro: gestisce una concessionaria, è pieno di debiti fino al collo e ha smesso di far sesso con la moglie, la quale infatti sospetta si sia fatto l’amante. Natalie (Juliette Lewis), entra ed esce da centri di recupero, ha un passato di overdose e tentati suicidi. Misty (Christina Ricci) lavora come infermiera e combatte la noia fingendosi investigatrice sui forum di true crime.
Se, apparentemente, il fatto di esser riuscite a costruire vite “normali” dopo il trauma subito da ragazze sembra una conquista, verso metà della prima stagione e poi, più distintamente, nella seconda, si inizia a capire che se da un lato queste donne vogliono solo dimenticare e andare avanti con le loro vite, dall’altra covano una nostalgia per quello che hanno perso addomesticandosi. Nella prima stagione si vede Shauna ricorrere a metodi estremi per liberarsi di Adam, l’uomo con cui aveva iniziato una relazione extraconiugale e che però sospetta avere qualcosa a che fare coi ricatti che stanno ricevendo le Yellowjackets. L’omicidio di Adam potrebbe sembrare legittima difesa, ma 1) la facilità con cui Shauna ricorre alla violenza, e 2) il fatto che Adam si scopre poi essere innocente, dimostrano, più che un naturale istinto all’auto-difesa, una vera propensione alla violenza. Che diventa ancora più evidente nella seconda stagione, quando a Shauna viene rubata la macchina e lei vorrebbe inseguire il ladro, ma il marito, spaventato dal rischio, insiste per lasciar perdere. Shauna, in piena notte, disobbedisce al marito, prende un Uber e una pistola e va al deposito dove sa che troverà l’auto, minacciando il ladro di restituirgliela. Ci sorprende non tanto il fatto che sia disposta a rischiare tanto per recuperare un’auto che cade pezzi, ma quanto desideri recuperare un senso di potere. “My hand wasn’t shaking because I was nervous. It was shaking because of how badly I wanted to do this.”
In quel momento non si ha più davanti la Shauna madre e moglie addomesticata, ma la ragazza nel bosco che è stata a contatto con la propria mostruosità (o con la sua “wilderness”) e che sa che di lei si può avere paura. “Have you ever peeled the skin off a human corpse?” chiede al ladro. “It’s not as easy as you might think. It’s really stuck on us, skin”. Gli dice che la gente suda quando stai per ucciderla. È tutta unta.
Gli autori dello show hanno voluto presentare il cannibalismo come sì espressione di mostruosità femminile, ma anche come desiderio animale ed erotico.
L’episodio cult di Yellowjackets, che ha il titolo perfetto di “Edible Complex”, si verifica nella seconda stagione. È dall’episodio pilota che sappiamo che nella foresta sono stati consumati atti di cannibalismo. Ci vengono mostrati in dei flashback, ma la prima stagione si limita a stuzzicare il pubblico senza mostrare niente. Nella prima stagione Jackie e Shauna litigano ferocemente quando Jackie scopre che la migliore amica, prima che partissero, di nascosto stava portando avanti una relazione con il suo fidanzato, Jeff. Rifiutando di stare sotto allo stesso tetto di Shauna, Jackie dorme all’aperto, e la mattina dopo le Yellowjackets la trovano assiderata. Nella seconda stagione, all’alba di questa tragedia, Shauna fatica a liberarsi del corpo di Jackie, che tiene come una reliquia nascosta nel capanno vicino alla loro casa. Affetta da allucinazioni suscitate sia dal senso della perdita che dal senso di colpa, le parla, e Jackie le risponde, la trucca e la pettina, finché un giorno, per sbaglio, le stacca un orecchio. La relazione fra le due amiche ruota tutta intorno a quanto Shauna voglia essere Jackie; da un lato vuole assimilare l’amica, averla sempre con sé, essere come lei, dall’altro distruggerla, perché da sempre ha vissuto nella sua ombra. E ora che l’amica e’ morta, non riesce a lasciarla andare, perche’ lasciarla andare significherebbe perdere una grossa parte di sé: “I don’t even know where you end and I begin”, le confessa Shauna. Così, quando Shauna si trova fra le mani un pezzo del corpo di Jackie, non ci stupiamo che decida prima di metterselo in tasca per averlo vicino, e poi, infine, di mangiarlo.
Quest’episodio apre le porte a una riflessione sull’anatomia del desiderio che culmina con la cannibalizzazione del corpo di Jackie, non a caso ape regina del gruppo, da parte delle sue compagne di squadra. Quando le amiche finalmente mettono Shauna di fronte al fatto che è arrivato il momento di lasciar andare Jackie e cremare il corpo, per il bene della sua salute fisica e mentale, Shauna a malincuore accetta. Ma la notte in cui il corpo di Jackie sta bruciando davanti casa, una tempesta scuote la foresta e interrompe la combustione proprio nel momento in cui la carne della ragazza sembra essere cotta a puntino. Jackie inizia a emanare un odore irresistibile che sveglia e porta tutte le Yellowjackets in giardino. Mentre fra sonno e allucinazione si guardano fra sé, incerte su cosa stia succedendo e su come decodificare l’impulso che provano, è Shauna a prendere la parola e dire “She wants us to,” dando il permesso alle compagne di squadra. E così il baccanale orgiastico comincia, le ragazze si fiondano sulla carcassa fumante di Jackie e la divorano.
Tornando al titolo, “Edible Complex”, si capisce come gli autori dello show abbiano voluto presentare il cannibalismo come sì espressione di mostruosità femminile, ma anche come desiderio animale ed erotico (una chiaro gioco di parole sull’Oedipus Complex), recuperandolo come atto di amore e female agency. Non a caso, l’intera scena è rappresentata cinematograficamente come un baccanale romano, le ragazze vestite di bianco si abbuffano libidinosamente su questa tavola imbandita di leccornie: carni, frutta fresca, vino. Questo prisma, attraverso cui da spettatori assimiliamo la scena, ci permette di accedere a quello che sta succedendo a livello concettuale, senza necessariamente essere disturbati visivamente da ciò che sta effettivamente accadendo. Diventa – in un certo senso, seppure tabù e, va da sé, moralmente discutibile – un momento di estasi e un disperato atto di sopravvivenza per delle ragazze che ogni giorno rischiano la morte per la fame o per il freddo.
Parlano non di donne, ma di ragazze, con pulsioni irrefrenabili e discutibili, che mettono in crisi lo spettatore.
L’unico a non partecipare al banchetto è il coach Scott, il quale traccia un confine morale fra ciò che è accettabile fare per sopravvivere e ciò che non lo è. Mentre le ragazze rappresentano pura potenza e desiderio, Scott incarna i paradigmi morali e sociali che definiscono la vita adulta. Nonostante l’ambiente ostile e impervio e i molti momenti tragici che le Yellowjackets si trovano ad affrontare nella foresta, è innegabile che sperimentino anche un tipo di libertà ideale e scevra dalle norme di genere. Che è quello che poi manca alle protagoniste adulte, decisamente meno affascinanti rispetto alle loro giovani controparti.
Quando mi sono trovata a guardare la nuova serie di Janine Nabers e Donald Glover, Swarm, non ho potuto fare a meno di notare alcuni dei parallelismi fra i due show. Entrambi parlano non di donne, ma di ragazze, con pulsioni irrefrenabili e discutibili, che mettono in crisi lo spettatore. Entrambe utilizzano lo sciame (swarm), come metafora, e giocano con figure assimilabili all’ape regina.
In Swarm, Dre (Dominique Fishback), una giovane ragazza nera problematica ed introversa, diventa una serial killer in nome della pop star della quale è completamente infatuata, Ni’jah – che poi è un avatar di Beyoncé (detta Queen B, l’ape regina per antonomasia). Ciò che Dre prova per Ni’jah è una devozione assoluta e quasi religiosa, e dopo che la sua migliore amica/sorella, Marissa (con la quale Dre ha un legame quasi patologico), si suicida la notte in cui Ni’jah rilascia il nuovo album, qualcosa in Dre si spezza. L’amore per Marissa si fonde con quello per Ni’jah, giustificando la furia omicida della protagonista che si trasforma in una sorta di spietato giustiziere. Seguendo come traccia commenti su Twitter e Facebook, che diffamano Marissa o Ni’jah, Dre inizia uccidendo l’ex della migliore amica e continua a sfoltire una lista di “haters”, senza risparmiare chiunque le metta i bastoni fra le ruote. Dre è ciò che nel linguaggio di internet si chiamerebbe uno “stan”, la versione perversa del “fan”, ma è anche una ragazza sola. Uno degli episodi più iconici della show è quello in cui Dre finalmente si trova a tu per tu con Ni’jah. È la sua occasione, quello che aspetta da sempre, ma invece di andare a parlarle, l’emozione è tale che l’unica cosa che Dre riesce a fare è lanciarsi sulla popstar e morderla.
L’anatomia del desiderio trascende ciò che reputiamo socialmente accettabile per esprimere una voracità e un erotismo che sono impropri, tabù.
In generale, l’appetito è una delle caratteristiche più lampanti di Dre. La ragazza mangia in continuazione. Si ingozza di pumpkin pie dopo la sua prima vittima, ancora coperta di sangue, e, nell’episodio in cui Dre lavora come stripper, dice all’uomo che sta per masturbarsi di fronte a lei: “I’m still gonna eat” – l’appetito di Dre non si ferma davanti a niente, e anzi forse è nutrito proprio da ciò che fa. Anche in questo caso, l’anatomia del desiderio trascende ciò che reputiamo socialmente accettabile per esprimere una voracità e un erotismo che sono impropri, tabù. Nello stesso modo, il personaggio di Megan Fox, in Jennifer’s Body, è preso da fame bulimica dopo esser stata posseduta, e saccheggia il frigorifero di Needy. Un preludio all’appetito per gli uomini che svilupperà poi. Insomma, c’è una ragione se il cannibalismo (quello letterale e quello metaforico, del fagocitare impudentemente tutto ciò che ci si para davanti) è diventata la metafora preferita di molte registe horror contemporanee. In primis, perché “la femminilita” storicamente ha sempre avuto a che fare con le restrizioni, il controllo dell’appetito – sessuale e sensuale – avendo come obiettivo un restringimento del corpo stesso: ci affamiamo per sembrare più magre. E il cannibalismo non solo va in controtendenza, ma annichila con la sua forza questo paradigma patriarcale.
Se, in un certo senso, come scriveva Simone De Beauvoir ne Il Secondo Sesso, è vero che “la donna ispira orrore all’uomo: è l’orrore della propria contingenza carnale che egli proietta su di lei”, credo che in queste rappresentazioni ci sia nuova consapevolezza, un ribaltamento. Ovvero che la mostruosità non è qualcosa da temere, ma qualcosa da far propria, in quanto più vicina a noi di quanto pensiamo. “Horror” scrive sempre Chelsea G. Summer, “belongs to women, because we understand, on a gut-punch level, how it feels to be viewed as a monster.” In tutti questi esempi, la trasformazione del desiderio in istinto cannibale non è più una proiezione subita e quindi passiva, come in Fresh, ma un’attiva riappropriazione da parte del soggetto femminile desiderante. Manifesta, anche, una mancanza. Una fame di amore, soggettività, potere, rappresentazione, che si sfoga divorando ciò che si ha di fronte. A Dre viene spesso chiesto se abbia fame, e lei risponde sempre di sì.
Swarm ha ricevuto molte critiche (soprattutto di misoginoir – la misoginia verso le donne nere) ed è considerato controverso per la rappresentazione problematica di Dre. Nonostante ci sia terreno fertile per queste considerazioni, trovo anche che Dre, e tutti questi personaggi che ci fanno sentire a disagio per il loro atteggiamento impenitente, che, anche, ci disgustano, e che trovano espressione particolarmente compiuta nel nuovo horror, soprattutto per certe libertà stilistiche e narrative che consente, siano necessari per inquadrare, ed accogliere, un nuovo soggetto femminile che vive al di fuori delle regole e che è sia pienamente incarnato che consapevole del proprio potere.
Sia Yellowjackets che Swarm mettono in evidenza i temi della femminilità, del desiderio e della trasgressione delle norme sociali, esplorando il concetto di desiderio e potere delle protagoniste femminili in modo non convenzionale, sfidando le aspettative culturali e suscitando reazioni contrastanti nello spettatore. Sono personaggi, e come tali hanno una funzione metaforica: i loro atteggiamenti non ci invitano al cannibalismo o all’omicidio, piuttosto ad arrenderci al desiderio. Queste ragazze sperimentano una libertà al di fuori delle norme di genere e del patriarcato, ma allo stesso tempo mostrano come questo tipo di libertà possa comportare conseguenze complesse e ambigue. La loro forza sta nel fatto che molto di quello che fanno sia ingiustificabile attraverso logiche razionali e buonsenso, ed è proprio per questo che ci fanno paura.