I
l lettore distratto che una sera si appresta a dare una sbirciata alle pagine culturali di quotidiani e riviste è certo di trovare sempre le stesse cose. Non tanto gli stessi nomi, che quelli sono, quanto proprio le stesse tipologie di opere: manufatti o rappresentazioni che siano. Tele, sculture, costruzioni, musiche, libri, film, performance, coreografie, messe in scena. Sono sempre quelli i prodotti culturali che da qualche secolo chiamiamo arte. Poi, più tardi, al lettore distratto arriva una notifica, sul telefono o sul pc. In una qualche chat c’è un link. Lo apre e… ecco spalancarsi le porte dell’abisso: frammenti digitali, visivi o sonori, a tratti olfattivi o psicotropi, che rispondono a determinati codici estetici. Sono la nuova arte. Una tempesta che lo circonda e lo spinge inevitabilmente e con forza verso il futuro. Come quel famoso quadro di Klee raccontato da Benjamin.
Una nuova estetica che per essere compresa ha bisogno di originali strumenti di lettura, e per essere scardinata cassette per gli attrezzi differenti da quelle che usiamo di solito. Questi nuovi utensili ce li presta gentilmente Valentina Tanni, storica dell’arte e curatrice, docente di Digital Art al Politecnico di Milano e di Estetica dei new media alla Naba di Roma, nel suo nuovo libro Exit Reality (Nero Editions, 2023). Una mappa concettuale che ci aiuta a orientarci nel nuovo mondo delle arti e delle estetiche digitali una volta che abbiamo attraversato lo specchio, quando aprendo il link siamo stati catapultati nel regno magico dello spazio virtuale. Uno spazio di confine che è tanto fuori quanto dentro di noi. In questa nuova antropologia culturale del futuro anteriore, Valentina Tanni, come un Bianconiglio, ci accompagna in allucinanti viaggi in soggettiva attraverso le stanze vuote di uffici disabitati con moquette e pareti di colore tra il giallastro e il verdognolo, piscine escheriane anch’esse rigorosamente vuote, paesaggi bucolici tanto tranquilli quanto perturbanti, centri commerciali abbandonati, ambienti dove ogni cosa è una torta, collage surreali dove l’antico e il moderno si confondono a ricordare i quadri metafisici di De Chirico e immagini che si giustappongono a scritte o ad altre immagini e diventano così capaci di produrre infinite ramificazioni di senso. Il tutto avvolto in tappeti sonori fumosi e smaterializzati. Queste estetiche si chiamano Vaporwave e Asmr, Backrooms e Dream Pools, Weirdcore, Dreamcore, Traumacore e Corecore, Reality Shifting, Cake e Meme. E in mille altri modi. E sono estetiche che, ricorda l’autrice, “non sono la periferia dell’arte contemporanea: ne sono il centro. Costituiscono i sintomi più affidabili della temperie culturale che ci avvolge perché nascono da un’elaborazione collettiva che coinvolge milioni di persone. Influenzano – e allo stesso tempo svelano – il nostro sguardo sul presente e gli strumenti concettuali di cui ci serviamo per immaginare il futuro”.
Quello che hanno in comune queste nuove estetiche digitali sembra essere la nostalgia di un’epoca – databile più o meno con la nascita della rete – che pochissimi degli artisti e quasi nessuno dei fruitori ha mai realmente vissuto.
Quello che hanno in comune queste nuove estetiche digitali diversissime tra loro sembra essere la nostalgia di un’epoca – databile più o meno con la nascita della rete – che pochissimi degli artisti e quasi nessuno dei fruitori ha mai realmente vissuto. Non si tratta però della nostalgia conservatrice di un passato idealizzato, di quella nostalgia mercificata di epoche d’oro mai esistite che è alla base di ogni fascismo. Ma di una nostalgia della nostalgia di quando eravamo nostalgici. Una hauntologia derridiana che ci mette a confronto con i fantasmi e le tragedie del nostro passato. Ecco il perché della similitudine iniziale con l’Angelus Novus di Klee e Benjamin che emerge dalle catastrofi della storia. È una deriva nel passato in cui a ogni approdo si scopre che il passato è vuoto, disabitato. Non c’è più nessuno perché non c’è mai stato nessuno. Sono vuoti i paesaggi bucolici e i centri commerciali, le piscine e le stanze degli uffici. In queste estetiche non emerge mai uno sguardo a un passato che cura e consola, ma è sempre un perdersi in un passato che spaventa e terrorizza. Fino ad arrivare alla kenopsia: quel senso di smarrimento e disagio che ci assale davanti alla totale scomparsa degli esseri umani in luoghi che ci aspetteremmo abitati, per non dire affollati. E questo effetto straniante si ottiene attraverso la creazione di spazi e suoni che sono tutti liminali: ovvero limbi. Luoghi e stati mentali di passaggio che non si sa dove portano, e si è certi solo del luogo da cui partano. Partono da noi e dalla nostra storia, dal nostro passato. Partono dal nulla. Perché se dentro, tra sensazioni di perdita, vuoto e alienazione, non si sta certo bene, fuori è ancora peggio.
Nell’estetica digitale tutto è davvero replicabile meccanicamente all’infinito senza mai essere uguale a sé stesso.
Osservando le fotografie dell’artista americano Nick Vyssotsky sulle postazioni (scrivanie, schermi, computer, casse, tastiere) dei viaggiatori liminali si vedono solo degrado, disordine, caos. “In qualche caso semplicemente povertà estrema. In questi ambienti vivono i corpi delle persone che hanno deciso di abbandonare la dimensione reale per concentrare la propria attenzione interamente sullo spazio digitale. Mentre la psiche si lancia a tutta velocità dentro forum, giochi e video, il mondo materiale va incontro a un destino di declino e decomposizione”, scrive l’autrice. Ecco che allora, oramai sprofondati nella tana del Bianconiglio, possiamo renderci conto che questi viaggi digitali, questi stati ipnagogici che coinvolgono tutti i sensi, queste “uscite dalla realtà” per ritornare al titolo del libro, non sono viaggi fuori dal nostro sé. In territori altri. Sono viaggi in quello spazio interiore teorizzato da James G. Ballard che è il lungo precipitare degli esseri umani verso (dentro o fuori?) il loro inconscio collettivo. E infatti queste estetiche si richiamano più o meno consapevolmente alle estetiche degli stessi anni dello scorso secolo, dalla pittura surrealista al collage dadaista. Ieri come oggi, sempre alla ricerca di un nonsenso perduto in un’epoca di crisi che prefigura tragedie ancor peggiori. Un nonsenso che in epoca di panottici digitali e capitalismi della sorveglianza si perpetua all’infinito.
Accanto agli artisti in carne e ossa, di cui in verità non si conoscono né la carne né le ossa, ma solo astrusi nickname e codici binari, ecco sorgere all’orizzonte la potenza dell’intelligenza artificiale. Nell’estetica digitale tutto è davvero replicabile meccanicamente all’infinito senza mai essere uguale a sé stesso. Perché oggi siamo solo all’inizio del viaggio nelle infinite possibilità e potenzialità di queste nuovi prodotti culturali (che sempre con i modi di produzione si devono confrontare). E libro di Valentina Tanni diventa più che mai necessario per comprendere le loro infinite possibilità e potenzialità politiche. Come i dada e i surrealisti, queste nuove estetiche ci permettono di uscire verso il nostro mondo interiore per fare emergere e detonare dentro di noi tutte le contraddizioni del mondo esteriore.