I l 23 settembre in tanti, nella chiesa di San Lorenzo a Torino, abbiamo dato l’addio a una persona gradevole che ricorderemo con il sorriso. Avevo 23 anni quando Gianni Vattimo mi bloccò in via Po mentre camminavo, studente, senza guardare dove mettevo i piedi. Ero immerso in un libro e mi disse: “deve essere interessante quel che legge”. Era un testo di Alberto Caracciolo, Leopardi e il nichilismo, e lui commentò: “Caracciolo era mio amico. Era bravo. Purtroppo adesso è morto”. Lo leggevo su consiglio del mio professore di letteratura, Giorgio Ficara, che pochi giorni prima mi ero trovato accanto alla camera ardente di Norberto Bobbio. Anche lui era a salutare Vattimo in piazza Castello due settimane fa.
Quando mi iscrissi a Filosofia mi spiacque che Vattimo, europarlamentare, non tenesse corsi. Quando lo incontrai in via Po ero reduce da due anni di lettura appassionata di Nietzsche e sapevo che lui ne era interprete tra i più rispettati. Al suo posto, a tenere i corsi di Filosofia teoretica, c’era il suo allievo Maurizio Ferraris, che da qualche anno si era rivoltato contro la filosofia del maestro e quindi contro lo stesso Nietzsche, che punzecchiava a lezione con toni al limite del canzonatorio. Mi convinse ben presto ad abbandonare il nichilismo e l’identificazione, molto spesso inconsapevole, tra ontologia ed epistemologia; anzi, a interpretarla come una forma di conformismo teorico caratteristica della precedente generazione. Riuscii comunque a seguire l’ultimo corso che Vattimo tenne, tornato da Strasburgo, al palazzetto Venturi; e allora, inaspettatamente, avemmo occasione di conoscerci in modo più personale.
Vattimo intendeva prendere le parti del polo più debole nel conflitto delle narrazioni pubbliche.
Insieme ad altri studenti mi attivavo in quegli anni contro le politiche di George W. Bush e Ariel Sharon contro il mondo arabo, di cui prevedevo gli effetti storici disastrosi. La polizia aveva da poco perquisito la mia casa (e quella dei miei genitori) accusandomi aver scritto e affisso un volantino che prendeva le distanze dall’occupazione dell’Iraq e dichiarava legittima la resistenza locale a un occupante straniero, quand’anche indossasse l’uniforme del nostro paese. Il rettore, Rinaldo Bertolino, propose al Senato accademico la mia espulsione e quella di altri due studenti, che la polizia riteneva coinvolti, dall’università. Quasi tutti in Senato si opposero, per fortuna, e noi avviammo una battaglia per la libertà di espressione coinvolgendo decine di docenti in un seminario contro la guerra. Costruimmo un muro nell’atrio di palazzo Nuovo per denunciare quello imposto da Sharon in Palestina e, quando Giuseppe Cruciani ci invitò con Vattimo a una delle sue prime, orride trasmissioni, il professore dichiarò con grande scorno del conduttore, e con mia sorpresa, che stava dalla nostra parte.
Tutto avrei pensato tranne che l’autore con Pier Aldo Rovatti de Il pensiero debole avrebbe preso le parti di un movimento certo diversificato, ma decisamente non scettico, come quello palestinese. Lo coinvolgemmo, con le associazioni degli scrittori giordani, siriani, palestinesi, venezuelani e cubani nel boicottaggio internazionale del Salone del Libro dedicato a Israele nei sessant’anni della sua dichiarazione di indipendenza ma anche della Naqba, la “catastrofe” vissuta dai palestinesi nella guerra del 1948 – che lo storico israeliano Ilan Pappe, non distante dagli influssi filosofici francesi che anche Vattimo apprezzava, aveva appena ricostruito e classificato come pulizia etnica in un celebre volume. Nulla avevamo contro la presa di parola degli scrittori israeliani, anche distanti dalle nostre posizioni, al salone: ciò che contestavamo era la dedica dell’edizione a quello stato in occasione di un anniversario così controverso. Durante un’assemblea in cui intervenne su nostro invito, Vattimo spiegò il perché del suo sostegno ai palestinesi: affermò di essere nato “in una stalla, tra un bue e un asinello” e aggiunse che se Israele fosse stato oggetto del vituperio pubblico di cui erano oggetto i palestinesi, avrebbe sostenuto il governo di Tel Aviv.
A lui importava arricchire il dialogo dispiegato e plurale che concepiva come elemento liberatorio della postmodernità.
Il suo intento – compresi bene perché – non era schierarsi dalla parte giusta: coltivava troppe incertezze su quale fosse. Intendeva prendere le parti del polo più debole nel conflitto delle narrazioni pubbliche, vedendo in questo anche l’affermazione di una religiosità autenticamente cristiana. Per lui significava riequilibrare e arricchire, moltiplicandone le voci, il dialogo dispiegato e plurale che concepiva come elemento liberatorio della postmodernità. Aveva costruito questa impostazione sulle ricerche dell’amico Hans Georg Gadamer, e appariva ora divertito dalle reazioni che provocava tra colleghi e giornalisti. Io apprezzavo la sua ironia, la sua autoironia e il suo spirito di contrasto, ma temevo le conseguenze della sua impostazione filosofica. Quell’ironia era qualcosa di più profondo dell’inclinazione alla battuta di spirito: era un’ironia schlegeliana, imparentata con l’idea di una sospensione completa del reale. Ferraris non cessava di ricordare a noi studenti quando, la notte del 1991 in cui gli aerei delle Nazioni Unite avevano iniziato a bombardare l’Iraq, Vattimo era stato interrotto in diretta dalla notizia proprio mentre affermava che, nella postmodernità, la guerra non esiste se non come immagine.
I moniti di Ferraris si rivelarono azzeccati. Qualche giorno dopo, rispondendo sulla stampa locale alle critiche di giornalisti e colleghi – il più duro era Ugo Volli – Vattimo dichiarò che, accerchiato da una tale schiera di granitiche certezze sulle ragioni di Israele, avrebbe “rivalutato” i Protocolli dei savi di Sion. Anche quella, in effetti, era una narrazione (per fortuna) emarginata e (al momento) perdente; ma anziché comprendere che proprio questo smentiva la validità della sua concezione della verità e il suo metodo di intervento politico, Vattimo volle sondare i limiti della sopportazione pubblica della sua sospensione del vero e del falso. Per la nostra mobilitazione in favore dei palestinesi fu, naturalmente, un disastro: combattere i tentativi di infiltrazione antisemita nelle nostre file era stato il fondamento della nostra campagna. Nessuno credette che Vattimo fosse antisemita, ma tutti dovemmo prendere atto che era disposto a scherzare su questo tema.
Benché nessuno credette che Vattimo fosse antisemita, tutti dovemmo prendere atto che era disposto a scherzare su questo tema.
C’è una profonda connessione tra nichilismo filosofico e la difficoltà a porsi dei limiti. Le persone si offendono se si scherza sulle loro tragedie perché sono reali, non sono narrazioni; fatti della storia ed emozioni che nulla hanno a che fare con le interpretazioni che possono discenderne. Un altro amico di Vattimo, Jacques Derrida, aveva scritto che il monito fondamentale contro il nichilismo è etico, perché giustificato, se non altro, proprio dall’impossibilità di falsificare, a partire da esso, il negazionismo sui crimini nazisti e sulla shoah. Per falsificare qualcosa, qualunque cosa essa sia, è necessario un riferimento alla verità. L’uscita di Vattimo aveva a che fare con questi rischi, ma era anche manifestazione di una condizione storico-culturale che lo trascendeva.
Giorgio Napolitano, allora presidente, intervenne pubblicamente contro il nostro boicottaggio perché appoggiava le violenze israeliane a Gaza e in Cisgiordania con lo stesso spirito con cui aveva appoggiato l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, l’occupazione angloamericana dell’Iraq, o avrebbe supportato i bombardamenti sulla Libia del 2011: non in base a un criterio del bene e del male, ma come prodotto politico di una ginnastica del potere. Le stesse istituzioni accademiche ci negarono l’aula per ospitare il poeta israeliano Aaron Shabtai, ebreo e dissidente, in nome della libertà di espressione degli scrittori israeliani (che mai avevamo messo in discussione) e dei “rischi di antisemitismo”.
Non che noi fossimo immuni da paradossi, né dalle conseguenze della tendenza generale all’indebolimento del pensiero. Insieme a Vattimo e Shabtai invitammo Tariq Ramadan, per nulla preoccupati dall’ambiguità delle sue posizioni sul rapporto tra religione e diritto. La battaglia contro la guerra e l’occupazione rischiava di tracimare nell’appoggio a retoriche confessionali che accrescevano in quegli anni i consensi alle fazioni reazionarie nel mondo musulmano. Convinti, in fondo come Vattimo, che l’antagonismo al discorso dominante basti a sé stesso, non ci rendevamo conto che gli islamisti avrebbero capitalizzato quei consensi e li avrebbero usati, tre anni dopo, contro i nostri coetanei egiziani e siriani, portando al fallimento se non all’incubo le primavere arabe. Eravamo incapaci di formulare interpretazioni autonome dei fatti storici e sociali su cui volevamo schierarci tanto quanto lo erano i nostri avversari. Fagocitati da narrazioni già esistenti, entravamo in contraddizione con i valori stessi per cui lo scontro aveva avuto inizio.
C’è una profonda connessione tra nichilismo filosofico e la difficoltà a porsi dei limiti.
Vattimo si trovava a suo agio, credo, non soltanto in queste contraddizioni, ma con un dibattito pubblico che sembrava confermare la componente descrittiva delle sue ipotesi sulla nostra epoca, sposandosi alla perfezione con la sua ironia. Quest’ultima lo spinse di lì a poco a dichiararsi “comunista”, mettendo il suo attivismo al servizio di nostalgici non tanto del comunismo come tale ma dei campi siberiani e che, in alcuni casi, avrebbero presto corteggiato l’estrema destra. Spiegò questa scelta rispondendo, sul Manifesto, alla lettera di un lettore che gli contestava di aver costruito il pensiero debole proprio contro il marxismo. Lui gli dava ragione, ma puntualizzava che il suo obiettivo era stato – a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta – contrastare le componenti armate della sinistra extraparlamentare, ostaggio a suo parere di un “pensiero forte” che non avrebbe portato alla libertà, ma a sofferenze e oppressione. A vent’anni dal 1989 la narrazione comunista era però diventata l’underdog, ed era dunque il momento di rivalutarla nel gioco infinito dei flussi linguistici. Obbediva, nonostante tutto (si noti il paradosso), a un pensiero normativo governato da una logica interna piuttosto ferrea.
Non è stato lui ad aver prodotto la stagione crepuscolare del dissenso organizzato e orientato a un fine, ma ha senza dubbio accompagnato la diffusione dell’idea che la contraddizione sia di per sé salvifica e la coerenza in sé pericolosa. La critica è stata gradualmente confinata a una funzione negativa, di condanna o delegittimazione di ciò che di volta in volta è individuato come “potere” o “modernità” sulla base di categorie spesso vaghe o implicite, per questo immunizzate alla critica e infinitamente strumentalizzabili; stagna nell’alienazione da qualsiasi formulazione positiva, se non nei limiti di interventi sul reale limitati e parcellari, popperiani, in fondo conservatori. La critica ha tradito sé stessa e si è chiusa nell’irrilevanza, attirandosi l’antipatia crescente degli strati popolari: l’inconcludenza sistematica è percepita a buon diritto come espressione di un privilegio.
Vattimo ha accompagnato la diffusione dell’idea che la contraddizione sia di per sé salvifica e la coerenza in sé pericolosa.
Questa condizione colpisce il postmodernista che, come Massimo Cacciari, presente ai funerali di Torino, si sforza di mantenere un’attitudine propositiva nel dibattito pubblico di questi anni. Le sue osservazioni sulle misure pandemiche o sull’invasione russa dell’Ucraina sono state più o meno azzeccate, spesso utili, talvolta acute. Non ha esitato, tuttavia, a cooperare su questi temi con personalità che hanno espresso posizioni del tutto diverse e decisamente meno utili, come Giorgio Agamben o Carlo Freccero. Deve averlo considerato, come Vattimo, un preciso dovere storico: prendere le parti di chi era schiacciato dalle narrazioni del governo e delle grandi testate giornalistiche. Questa tutela universale e al limite dell’unilaterale delle tesi minoritarie è effetto di un’indifferenza tendenziale ai contenuti della critica: poiché è ben possibile essere in minoranza e avere torto come essere all’opposizione e avere idee peggiori di quelle di chi è al potere. È anche il prodotto di un’incredibile incapacità a concepire la possibilità di opporsi non ad una, ma a due o più narrazioni contemporaneamente: quella dominante e quelle antagoniste, ma reazionarie.
Concepito unilateralmente come negativo, il pensiero è ridotto a stile dialogico, ostaggio potenziale del peggio che ciclicamente è pronto a riempirlo. Per un pensiero debole in senso lato non è facile affermare una distinzione tra ciò che è progressivo, anche nel senso de-colonizzato di un Ernst Bloch, e ciò che è reazionario. Ogni voce in dialogo e ogni contraddizione sono reazioni a un significante che le sollecita. Se si rinuncia a valutare il loro valore etico o epistemico non è possibile orientarsi in relazione a fini scelti con qualche ragione nello spazio e nel tempo. Spogliare il bene e il male dal riferimento a un assoluto celeste o terreno è conquista critica fondamentale, ma credere che, senza giustificazione razionale del giudizio, sia possibile vivere e battersi per qualcosa di meglio è tutt’altra cosa. Sospendere i giudizi può essere consolatorio per l’antropologia o conveniente per la filosofia, ma costituisce un ostacolo puramente immaginario alla violenza e all’oppressione che dilagano nel mondo, a partire dall’Italia.
Per un pensiero debole in senso lato non è facile affermare una distinzione tra ciò che è progressivo e ciò che è reazionario.
La storia e la società, affrontate senza una definizione della verità che permetta di valutare l’approssimazione tra affermazioni e fatti, non vengono affrontate affatto. Su questo ha insistito Diego Marconi, altro filosofo torinese presente ai funerali di Vattimo: molti ancora non hanno compreso la svolta analitica della ricerca filosofica torinese degli ultimi vent’anni, ma essa ha rappresentato, per molti studenti della mia generazione, la ribellione verso un pantano teorico le cui ricadute politiche sono state evidenti. Con la scomparsa di Vattimo non si chiude questa contrapposizione. Nella società, e in buona parte delle scienze sociali, il pensiero debole è tuttora egemone. L’idea che qualunque concetto di verità o realtà sia “violento” (di una violenza “metafisica” che fa sfoggio di un uso per lo più fuorviante di questa nozione) è diffusa come allora. Lo è anche quella secondo cui l’opposizione politica consiste nello scegliere passivamente, tra poli narrativi esistenti e in contrasto tra loro, quello che, per avventura, è in questo momento il più debole. Il pensiero diviene allora così debole, anche con le migliori intenzioni, da limitarsi a porre a margine del discorso pubblico un simbolo di negazione, per ritirarsi nella completa impotenza.
Non si tratta di contrapporre a questo un pensiero “forte”, se questo significa autosufficiente e arrogante. Si tratta di incrementare la forza del, e la fiducia nel, pensiero: orientare l’azione verso fini abbastanza perspicui da renderci disposti a lottare per affermarli, smettendo di farci reclutare dalle teorie, o peggio dalle fedi, del passato. Produrre teorie realiste della trasformazione è imperativo: una società senza capacità di rivoluzione non è oggi destinata all’ingiustizia, ma alla catastrofe bellica ed ecologica. Chi ha conosciuto Vattimo, anche soltanto da studente, sa – lo ha sottolineato Ferraris alla camera ardente – quanto tenesse alla contraddizione. Non aver condiviso le sue conclusioni non impedisce di rimpiangere la sua personalità, né la sua levatura intellettuale. L’amicizia può affiancarsi e sopravvivere alla contraddizione se si ha stima di sé stessi e degli altri, e la stima non poggia esclusivamente su itinerari teorici. Le nostre teorie si rivelano in superficie emergendo da fondali molto più profondi. Quando il feretro è entrato in chiesa, preceduto da officianti pronti a predicare sulla fragilità della carne, la contraddizione si è sentita. Per vie diverse, abbiamo cercato la stessa cosa.