Q uanta pazienza deve avere un cane che passeggia al nostro fianco, e sì che siamo abituati a pensare il contrario, ma nell’esperienza del cane le nostre camminate devono apparire terribilmente noiose, un incedere meccanico, devitalizzato, privo di alcuno scopo. Nel mondo dei cani non si attraversano i luoghi, si esplorano, il loro andamento è erratico, non è l’esercizio di una traiettoria. È il loro naso a dettare il passo, a costruire olfattivamente il passato, il presente e possibilmente anche il futuro di un oggetto, di un luogo, di un incontro. È proprio l’olfatto a definire la loro stessa esistenza rispetto ad un mondo preminentemente visuale, come ad esempio il nostro, e quando questo manca o viene negato l’animale ne può risentire profondamente, addirittura deprimendosi.
Mettere in dubbio il nostro primo senso, la vista, è uno degli inviti a cui Ed Yong ricorre nel suo Un mondo immenso (La Nave di Teseo, 2023) per acclimatarci alla straniante pratica dello studio dei mondi percettivi degli animali non umani. Il testo è un entusiasta compendio di eccezionali peculiarità sensoriali nel mondo animale, di come si siano formati gli studi a riguardo, la loro evoluzione, la confutazione talvolta di vecchie teorie, e la necessità di una forma investigativa poco ortodossa rispetto ad altre scienze, vista l’alienità dei soggetti studiati.
“Agli autori di fantascienza”, scrive Yong, “piace inventare universi paralleli e realtà alternative, dove le cose sono simili a quelle del nostro mondo ma leggermente diverse. Esistono!”. Il lavoro di biologi e zoologi è già quello di chi muove incerto i propri passi su pianeti alieni: parafrasando Oliver Sacks, bisogna sentirsi come etologi su Marte, affidarsi a intuito e immaginazione come maggiori risorse. Introducendoci al lavoro del biologo e zoologo estone Jakob von Uexküll, Yong cita la definizione che il biologo dà del suo lavoro come di un “diario di viaggio”.
Le nostre camminate devono apparire terribilmente noiose ai cani, un incedere meccanico, devitalizzato, privo di alcuno scopo.
In questo viaggio straniero Yong però non è interessato all’intrattenimento e alla nostra brama di esotismo, non si tratta di scegliere quali siano gli animali più bizzarri, formidabili o potenti. Ciascuna specie è limitata in alcuni aspetti e più evoluta in altri, non ha senso quindi una narrazione teriofilica – un ribaltamento demagogico che guarda agli animali come creature naturali più dignitose e migliori dell’uomo. Si tratta piuttosto di un invito a ritrovare un ascolto andato perduto, a pensare e sentire “con gli animali” anche se non “come loro”.
“Non è un libro sulla superiorità ma sulla diversità. È anche un libro sugli animali in quanto animali”. Yong chiede che al cane sia concesso di essere cane, di fare il cane, di vivere cioè alle sue condizioni, non alle nostre. Gli animali non sono semplici modelli di studio, attraverso i quali comprendere di riflesso la nostra natura umana o perfezionare le nostre tecnologie. Gli animali “hanno valore in sé”, puntualizza Yong. “Esploreremo i loro sensi per meglio comprendere le loro vite”. Si tratta di scoprire un altro ordine delle cose, che esiste e prolifera anche se non è destinato a noi.
Premio Pulitzer per una sua serie di inchieste sulla pandemia da Coronavirus e precedente autore di Contengo moltitudini (2019), Yong si cala nel mondo della sensorialità animale Yong muovendo da una sensibilità spiccatamente umanistica e facendo un uso pragmatico del linguaggio, senza ansia descrittiva e senza quella ispirazione metafisica che ha permeato negli ultimi anni anche la letteratura scientifica. Nella sua mente riecheggiano le parole di Amleto a Orazio: “‘esistono più cose in cielo e in terra […] di quante non ne sogni la tua filosofia’. Questa citazione è spesso interpretata come un appello ad accogliere il soprannaturale; io la considero piuttosto un appello a comprendere meglio il naturale”.
Il lavoro di biologi e zoologi è già quello di chi muove incerto i propri passi su pianeti alieni.
I dodici capitoli del libro sono dedicati ognuno a un senso diverso e alla costituzione dei corpi degli animali non umani. In “Odori e Sapori” apprendiamo che gli orsi polari, pare, posseggano l’abilità di orientarsi nelle migliaia di chilometri quadrati di ghiaccio indistinto grazie alle scie odorose che le ghiandole nelle loro zampe si lasciano dietro a ogni passo. Gli uccelli marini procellariformi hanno un senso dell’olfatto così straordinario da consentire loro di annusare la topografia segreta delle montagne e delle valli sottomarine altrimenti invisibili agli occhi.
Nel 1996 uno studio ha isolato un composto chimico – (z)-7-dodecen-1-yl acetato – che le femmine degli elefanti rilasciano nella loro urina per informare i maschi di essere pronte all’accoppiamento, ed è sorprendente come la stessa sostanza sia utilizzata dalle falene per attrarre i maschi: “fortunatamente”, ironizza Yong, “gli elefanti maschi non cercano di accoppiarsi con le falene femmine, poiché queste ultime producono quantità irrisorie del feromone”.
Nel capitolo dedicato alla ecolocalizzazione, Yong racconta che, mentre i pipistrelli possono percepire rapidamente forma e consistenza esterna dei loro obiettivi, i delfini possono persino “sbirciare al loro interno. Se un delfino vi ecolocalizza può percepire i vostri polmoni e il vostro scheletro. Riesce a percepire le schegge di granata nei reduci di guerra e il feto nelle donne incinte”, riesce a distinguere le proprie prede determinando la forma delle vesciche natatorie che permettono ai pesci di controllare il galleggiamento.
Yong chiede che al cane sia concesso di essere cane, di fare il cane, di vivere cioè alle sue condizioni, non alle nostre.
Nello spazio dedicato al gusto, leggiamo che il senso del gusto più esteso in natura appartiene ai pesci gatto e il racconto diventa vertiginoso:
Sono vere e proprie lingue che nuotano. Hanno papille gustative sparse su tutto il corpo privo di squame, dalla punta dei barbigli simili a vibrisse fino alla coda. È praticamente impossibile sfiorare un punto del loro corpo senza toccare migliaia di papille gustative. Se ne leccaste uno, sarebbe come se vi assaggiaste contemporaneamente a vicenda.
Il neuroscienziato Marco Gallio ha dimostrato invece come i percorsi fluttuanti di mosche e moscerini siano tutt’altro che casuali e caotici: grazie alla chitina di cui sono fatte le loro antenne percepiscono istantaneamente le variazioni nella temperatura dell’aria anche solo di 0,1°C e si muovono attraverso gli spazi prendendo decisioni a incredibile velocità. Vi sono insetti invece attratti dal calore e in grado di cercarne attivamente le sorgenti anche a grande distanza, come i coleotteri della specie Melanophila acuminata.
Arrivati sul luogo di un incendio, i Melanophila acuminata si accoppiano “nello scenario forse più spettacolare di tutto il regno animale: mentre intorno a loro la foresta brucia. In seguito, le femmine depongono le uova sulla corteccia bruciata”. Le larve si schiudono e iniziano a nutrirsi del legno abbrustolito, gli alberi che divorano sono troppo lesionati per difendersi, e i predatori che potrebbero mangiarle sono tenuti lontani dal fumo e del calore che sale dalle braci e dalla cenere. In questo modo le larve possono svilupparsi in pace prima di maturare e volare in cerca di altri roghi.
Si tratta di scoprire un altro ordine delle cose, che esiste e prolifera anche se non è destinato a noi.
In queste cronache scientifiche a volte ci viene svelata un’insospettabile poesia. L’Umwelt dei ragni saltatori – la loro bolla sensoriale cioè, l’insieme dei sensi che descrive il mondo per loro – può ad esempio cambiare quando invecchiano. Il biologo Nathan Morehouse ha dimostrato che i ragni saltatori nascono con una scorta per la vita di cellule che rilevano la luce, che si ingrandiscono e si sensibilizzano con il passare dell’età. Scrive Yong: “‘per loro le cose diventano sempre più luminose’, mi dice Morehouse. Per un ragno saltatore, invecchiare ‘è come vedere sorgere il sole’”.
Eppure, più ci addentriamo, più acquisiamo nozioni, e meno il mistero di questa strana famiglia che chiamiamo animali sembra chiarirsi. I limiti dei nostri strumenti, la necessità di lavorare meglio su di una immaginazione eterofenomenologica, e talvolta persino l’ostinata inaccessibilità dei mondi percettivi animali pervade tutto il libro di Yong. D’altronde c’è ancora moltissimo che non riusciamo a spiegare: da dove iniziare quando il tuo soggetto di studio è così riccamente stravagante? Pensi che il funzionamento di quel determinato fenomeno avvenga in un modo specifico e invece è più complicato, è più sorprendente. Siamo costretti al fuori, i mondi sono permeabili, ma abbiamo solo piccole fessure a disposizione per spiarvi dentro. Con la nostra tecnologia a malapena riusciamo a capire come sistemi sensoriali così complessi si tengano assieme.
Il momento del libro che meglio conferma questa sensazione è il capitolo dedicato alla magnetoricezione: a sfogliarlo sembra di avere tra le mani un libro alchemico. Attraverso la magnetoricezione le specie animali che ne sono dotate, sono capaci di spostarsi per migliaia di chilometri attraverso una “mappa magnetica” dei mari e dei continenti raggiungendo i luoghi desiderati con straordinaria precisione. Quando leggiamo delle peregrinazioni delle tartarughe caretta o delle falene bogong leggiamo anche di molte ipotesi brillanti ma di nessuna prova definitiva. Nessuno sa come funzioni la magnetoricezione e perché lo faccia così bene.
Per i ragni saltatori le cose diventano sempre più luminose, invecchiare è come vedere sorgere il sole.
I campi magnetici attraversano senza impedimenti la materia biologica, per cui le cellule che li rilevano o un eventuale organo preposto alla sua percezione – ciò che chiamiamo magnetorecettori – potrebbero essere ovunque, non solo perché specie diverse potrebbero aver sviluppato soluzioni fisiologiche diverse, ma perché potrebbero essere indistinguibili dai tessuti organici che li circondano. Cercare i magnetorecettori nel corpo degli animali sembra come cercare acqua nell’acqua. Ad oggi, la magnetoricezione resta l’unico senso privo di un sensore conosciuto. È un senso che si prende gioco della scienza.
Ma nonostante l’opacità delle domande che continuiamo a porci e soluzioni mai completamente soddisfacenti, mi sembra vi sia un aspetto fondamentale sulla natura del mondo che ritorna a più riprese nell’analisi di Yong, e che emerge forse al di là delle intenzioni dell’autore. Il tentativo di investigare e comprendere le qualità percettive di un Altro così altro da noi mi sembra sia meritevole perché ha a che fare persino con un tratto esistenziale, ed è quello della “relazione”.
Non la relazione intesa come un concetto fatto di mediazioni o come costrutto sociale, neppure come uno spazio che colmiamo tra noi e qualcos’altro con le nostre intenzioni, volontà, rispecchiamenti, interazione dei corpi eccetera. Ma semplicemente eventi, processi, ciò che si compie, tutto ciò che è in atto. La relazione non è un significante astratto, è semplicemente cosa ci forma, cosa ci descrive, ciò che implica le nostre singole esperienze e in generale l’esistenza di tutti. Ciò che chiamiamo relazione è l’esistenza stessa.
Da dove iniziare quando il tuo soggetto di studio è così riccamente stravagante?
Per chiarire il concetto prendiamo ad esempio i versi di una specie di rane, la Engystomops pustulosus. Dopo il tramonto, per attrarre le femmine i maschi gonfiano le loro sacche vocali e fanno passare l’aria da una grossa laringe. Il risultato è un gracidio che termina con una o più brevi “infiorettature” ritmiche note come chucks. Le femmine sono irresistibilmente attratte da questo canto e i chucks più bassi riscuotono maggior successo perché più vicini alla frequenza ideale dell’orecchio interno della femmina. Il biologo Mike Ryan ipotizzò che per via dei chucks emessi dai maschi l’orecchio della rana fosse andato sintonizzandosi in quel modo, ma quando si mise a studiare alcuni parenti stretti della Engystomops pustulosus scoprì che le cose erano andate diversamente.
“Tutte quelle specie avevano un orecchio interno sintonizzato in modo da trovare attraenti i chucks anche se in realtà non li avevano mai sentiti”. L’udito della Engystomops pustulosus non si era modificato per accordarsi al suo verso, era accaduto il contrario: l’antenato di questa rana aveva già le orecchie sintonizzate sui 2130 Hz, e i chucks si erano evoluti per sfruttare questa preferenza. Il maschio si è modellato sulle preferenze sensoriali dell’orecchio della femmina.
Nel capitolo dedicato alla percezione dei colori, Yong riflette che, se i segnali sono fatti per essere visti, così come avviene per i colori che decorano il pelo, le squame e l’esoscheletro degli animali, allora vuol dire che quel segnale deve nascere per qualcuno in grado di poterlo cogliere percettivamente. La dendrobate pigmeo è una rana dell’America centrale, e questa specie si presenta in quindici livree dalle forme e dai colori incredibilmente diversi: verde con le zampe azzurre, arancione con macchie nere, gialle maculate di blu, rosso corallo e zampe bianche – una follia visiva per nulla casuale. Sono rane velenose, e le più tossiche sono anche le più appariscenti.
Ma è stata la visione del colore dei suoi predatori a diversificarne l’aspetto. Le rane dendrobate pigmeo cioè, come hanno scoperto Molly Cummings e Martine Maan, sono appariscenti solo per gli uccelli e non per altri predatori come i serpenti. È probabile che sia stata proprio la vista tetracromatica degli uccelli a condizionare la stravagante colorazione della pelle di questi anfibi. D’altronde i colori sono considerati segnali di avvertimento, ed è possibile che le rane dalle tinte più adatte alla vista dei loro predatori venissero attaccate di meno perché a quella capacità visiva, e non ad altre, risulta pericolosa. Cummings e Maan hanno quindi dimostrato che si può ricostruire quali sono i predatori di un animale – in questo caso, gli uccelli – studiando i colori delle prede.
La magnetoricezione resta l’unico senso privo di un sensore conosciuto: è un senso che si prende gioco della scienza.
La stessa logica può essere applicata ai fiori. Nel 1992, Lars Chittka e Randolf Menzel analizzarono 180 fiori e scoprirono la tipologia di occhio più adatta a distinguerne i colori. La risposta è un occhio con tricromatismo verde, blu e UV: esattamente quel che hanno le api e molti altri insetti. Intuitivamente si potrebbe pensare che questi impollinatori abbiano evoluto occhi in grado di vedere bene questi fiori, invece non è andata così. Il loro tricromatismo si è evoluto centinaia di milioni di anni prima della comparsa dei primi fiori, quindi devono essere stati questi ultimi a evolversi per adattarsi agli insetti. I fiori hanno sviluppato colori tali da solleticare il loro sguardo. “La bellezza”, commenta Yong, “non è soltanto nell’occhio di chi guarda. È quello stesso occhio a farla sbocciare”.
L’esistere di ciò che abbiamo intorno, il nostro essere ciò che siamo, è frutto dell’esistenza dell’altro. La relazione è trovarsi nell’esistenza dell’altro animale: il suo sguardo ci ha formato, giorno per giorno, millennio dopo millennio, ci ha letteralmente inventati. Lo sguardo si modifica nell’ambiente ma modifica a sua volta, i sensi sentono il mondo e il mondo risponde modificandosi nei sensi. La plenitudine delle esistenze animali raccontate da Yong mostra la “relazione” come un artificio linguistico che abbiamo inventato per interporre un nuovo fenomeno e colmare distanze che non esistevano o che al contrario non andavano colmate, perché di quella distanza sono costituite.
Il corpo di tutte le creature si differenzia costantemente nel e con il mondo, e di conseguenza la loro esistenza. È questa struttura di differenziazione, e quindi questo grado di separazione e descrivere anche le nostre esistenze. La nostra somiglianza risiede nell’alterità. La somiglianza dell’alterità è nell’alterità stessa, l’alienità crea il significato. Continuiamo a guardarci gli uni gli altri perché “i conti non tornano” e di questo non siamo mai paghi. Certo, esiste una continuità ed una coevoluzione biologica tra animale e umano. Ma non è in quella genealogia che il discorso si esaurisce, si soddisfa. Differenze e similitudini esistono senza esclusione.
Si può ricostruire quali sono i predatori di un animale studiando i colori delle prede.
Il sentimento di appagamento che abbiamo dalla lettura di libri come quello di Ed Yong o dal condurre studi e osservazioni come quelli di etologi, biologi e zoologi, nonostante tutte le incertezze irrisolte, forse deriva proprio da questa gratificazione inutile, da questa consapevolezza dormiente che abbiamo sull’esistenza di tutto, e sul fatto che gli animali non umani sono ancora qui per testimoniarlo. In questo senso Un mondo immenso è anche un libro su di noi in quanto animali. Ma noi siamo animali che toccano, modificano, rompono, una specie di bambino freudiano che dice sempre “mio”:
Invece di entrare in punta di piedi negli Umwelten degli altri animali, abbiamo costretto tutte le creature a vivere nei nostri, travolgendole con gli stimoli che noi produciamo. Abbiamo riempito la notte di luce, il silenzio di rumore, il terreno e l’acqua di molecole sconosciute. Abbiamo disorientato gli animali, allontanandoli da ciò che avrebbero bisogno di percepire, annullando i segnali da cui dipendono, e attirandoli, come falene verso la fiamma, in infinite trappole sensoriali.
Nel corso dei secoli abbiamo imparato moltissimo sul mondo sensoriale delle altre specie, per poi dimenticare tutto in pochissimo tempo di quella familiarità. Per la maggior parte di noi la natura non è che un essere vago e lontano, respinto dalle città, dalle strade, dalle case. Oppure, come scrive ancora Yong, “equiparando la natura alla magnificenza soprannaturale, la si tratta come qualcosa di remoto, accessibile soltanto a chi ha il privilegio di poter viaggiare ed esplorare”. Da tempo non sappiamo cosa voglia dire waldeinsamkeit: la sensazione di trovarsi soli in un bosco, in quella posizione precaria, fuori controllo, fianco a fianco, petto a petto, con creature che ci rimettono in fila, in cerchio, tra le maglie, toccati, respirati dai loro sonar, catturati dalla loro chimica, dai loro occhi bui e spettrali.
Lo sguardo si modifica nell’ambiente ma modifica a sua volta, i sensi sentono il mondo e il mondo risponde modificandosi nei sensi.
La disabitudine all’alterità animale ha generato un nuovo tipo di aspettativa nei confronti di tutto ciò che è considerato oltre-umano. In Ser o no ser (un cuerpo) (2017) il filosofo spagnolo Santiago Alba Rico nota come, nonostante la letalità dei centri urbani nei quali vive la maggior parte di noi, “gli abitanti delle città, ormai lontani da boschi e giungle, hanno meno paura di macchine o ladri piuttosto che di bestie feroci che mai incontreranno (o addirittura, come nel caso degli Stati Uniti, di zombi o alieni)”. Di questa perdita di contatto tratta anche Ted Chiang nel racconto dal titolo “Il Grande Silenzio” della raccolta Respiro (2019), riferendosi a una videoinstallazione nella quale si volevano mettere a confronto le riprese del radiotelescopio di Arecibo con quelle di una specie di pappagalli in via d’estinzione, l’Amazzone di Portorico:
Gli esseri umani usano Arecibo per cercare segni di un’intelligenza extraterrestre. È così forte il loro desiderio di stabilire un contatto che hanno creato un orecchio in grado di sentire l’intero universo. Ma io e gli altri pappagalli siamo già qui. Perché agli umani non interessa udire la nostra voce? Siamo una specie non umana capace di comunicare con loro. Non è forse questo, esattamente, ciò che stanno cercando?
Nell’ultimo secolo e mezzo abbiamo accresciuto esponenzialmente la nostra capacità di estinguere le specie animali. Abbiamo scatenato la sesta grande estinzione, un’era di “sterminio biologico” paragonabile alle cinque grandi estinzioni di massa della preistoria. Ma l’estinzione non rappresenta solo la perdita di una specie, significa anche “la sparizione del nostro linguaggio, dei nostri riti, delle nostre tradizioni. Significa far tacere la nostra voce”, comunica l’Amazzone di Chiang. Sparisce cioè una possibilità in più di capire come si manifesti l’esistenza nella differenza.