L o sguardo e le attenzioni di una giovane donna alle prese con i primi turbamenti erotici sono magnetizzati dalla presenza di un affascinante architetto che le abita proprio davanti. Ogni mattina la ragazza si sveglia col pensiero di doverne spiare ogni movimento, da quando mette piede in balcone per sgranchirsi le gambe e salutare la splendida vista romana che gli si dipana davanti agli occhi a quando sta per indossare camicia e cravatta per recarsi a lavoro. Spesso è lei stessa a presentarsi da lui, a sorpresa, con il fare smaliziato e puro di chi non è del tutto consapevole di quello che sta facendo. Finché un giorno questo architetto non la invita a cenare in una magione che sta ristrutturando in campagna insieme al fratello. A un certo punto il fratello dovrà uscire. I due rimangono soli. I due fanno l’amore. Ho descritto in pochissime parole qualche momento di uno dei film più belli della storia del cinema, I dolci inganni (1960) di Alberto Lattuada, e l’ho descritto non per una consonanza tematica con l’opera dell’autrice di cui sto per parlare: a stimolare questa insolita associazione mentale sono state “soltanto” delle immagini, o meglio, il ricordo che ne avevo.
Dopo aver visto al cinema All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras, a febbraio, decido di documentarmi sulla vita di Nan Goldin e comincio a leggere articoli, interviste, ma soprattutto a guardare e riguardare le sue fotografie reperite su internet e Instagram e poi su libri fotografici. Come se queste immagini non avessero bisogno della tutela del testo e di una didascalia per parlare al pubblico. Come se bastassero da sole e anzi eventuali descrizioni le depotenziassero. E la copertina del libro The Ballad of Sexual Dependency di Nan Goldin – libro che raccoglie una serie di fotografie scattate negli anni Settanta e Ottanta in giro per gli Stati Uniti – mi ha inspiegabilmente ricordato la sequenza finale di I dolci inganni. Qui Lattuada riesce a rendere solo con l’immagine e senza alcuno scambio di battute quel senso di profonda lacerazione e distacco percepito dal corpo, dal volto corrugato e dallo sguardo perduto e senza più punti di riferimento della giovane, interpretata da Catherine Spaak, una volta trascorsa la notte con l’uomo dei suoi desideri: l’aver realizzato la fine di una fase esistenziale e tutto il dolore che questa consapevolezza si porta con sé.
Gli occhi malinconici di Spaak si riflettono in quelli ugualmente malinconici ma più cupi e rassegnati di Nan Goldin che scruta il suo fidanzato, Brian, dopo aver fatto l’amore, lui sul ciglio del letto a fumare una sigaretta e nel background dell’immagine lei che si aggrappa con tutte le sue forze a un cuscino. Questa foto, Nan and Brian in Bed, scattata a New York City nel 1983, ha una genesi particolare: Goldin capisce che a molti suoi amici non piaceva l’idea di rivedersi in fotografie sessualmente esplicite e quindi, rispettosa della loro idea, in un primo momento le toglie, e poi capisce di dover andare in scena lei stessa, di dover essere l’oggetto del suo stesso sguardo. Posiziona, dunque, la macchina fotografica fissa davanti al suo letto e comincia a fare l’amore con Brian. In una recente intervista Goldin dichiara che quella fotografia conteneva i germi di una violenza che di lì a poco si sarebbe manifestata. La donna, i cui occhi ancora tentavano di instaurare una qualche forma di connessione e contatto con l’uomo che amava, era profondamente spaventata. C’era una fibrillazione, nei suoi occhi, uno stato di inquietudine evidente anche nella posa del suo corpo che a stento si vede, con il solo rosso dei capelli che usciva dalle coperte che la avvolgevano; di tutti questi dettagli, Goldin dice di averne realizzato la forza anni dopo, al momento della foto erano tutte sensazioni che il suo corpo presagiva ma che tentava comunque di reprimere, fino alla completa distruzione, quando Brian arrivò quasi ad ammazzarla, “uccidendo” proprio i suoi occhi, tumefatti dalle botte, lasciati su un pavimento in mezzo a tutto il sangue e alle lacrime.
Creare una relazione simbiotica tra vita quotidiana e arte è ciò a cui Nan Goldin aspira fin dagli inizi della sua carriera da fotografa.
In Nan and Brian in Bed, lo sguardo di Goldin preannuncia silente la fine della sua storia d’amore e il terrore dei suoi occhi e le geometrie perfette dello scatto fanno sì che lo spettatore vi scorga ancora un altro elemento. Lo spazio vuoto tra il bordo del letto e la piccola sagoma di Goldin raccontano quando l’amore cessa di esistere e subentrano l’incomunicabilità e la distanza tra l’uno e l’altra, che a poco a poco si fanno incolmabili, cose che, a detta della fotografa, avrebbero portato la relazione nel caos più totale. La copertina di The Ballad of Sexual Dependency inquadra la calma prima della reciproca fine. Goldin ha spesso raccontato questa forma di lontananza che si crea tra le persone, dopo un litigio, dopo una relazione durata decenni, dopo l’aver preso coscienza di un tradimento, specialmente in questa raccolta di fotografie. Couple in Bed (Chicago, 1977) ritrae un’altra coppia a letto e in questo caso lo spazio vuoto tra di loro non lo vediamo ma è chiaramente costruito attraverso la posizione dei due corpi nella stanza da letto. I loro sguardi non si incrociano, guardano un punto fisso chissà dove, in un fuori campo che non c’è dato conoscere, né i corpi accennano a toccarsi e quel senso di distacco e distanza di cui parlavamo prima è acuito dalle pareti blu scuro che contrastano il giallo ocra delle lenzuola e che ci riportano a un’atmosfera quasi surrealista.
Creare una relazione simbiotica tra vita quotidiana e arte è ciò a cui Nan Goldin aspira fin dagli inizi della sua carriera da fotografa. Fin da quando decide di abbandonare i genitori che nella prima fase della sua vita percepiva come degli estranei. I suoi genitori non si sentivano in grado di crescerla, specialmente dopo il suicidio della sorella, cui era stata diagnosticata la depressione – malattia ritenuta incurabile e indegna negli anni Cinquanta: dal suicidio della sorella, che Goldin, nel documentario di Laura Poitras, definisce “il più estremo atto di ribellione” e di manifestazione di sé, ha avuto origine ogni riflessione, scatto, lotta, slide show di Nan Goldin. “She saw the future and all the beauty and bloodshed”: la cartella clinica della sorella di Nan recitava queste strane parole – insolite per una diagnosi medica – e sono le parole che potrebbero fare da sottotesto a racconto del dolore e del trauma da parte di Goldin, che si diversifica negli anni, ramificandosi nelle tantissime personalità e figure di artisti e amici che avrebbe incontrato nella sua vita.
Per trentacinque anni, Goldin ha registrato ogni sua esperienza e lo slide show The Ballad of Sexual Dependency, presentato al pubblico per la prima volta nel 1985 al Whitney Biennial, rappresenta l’apice di questo sforzo e di questa tensione conoscitiva. Un ibrido di fotografie, piccoli film e installazioni artistiche, circa settecento, accompagnate da una colonna sonora specifica che spesso era la voce di Maria Callas, considerata da Goldin perfetta perché incarnava quella mescolanza tra ruvido e armonioso che era propria della sua ricerca artistica. Ma perché lo slide show? In un’intervista rilasciata nel 1986, Goldin parla del carattere universalizzante dello slide show che crede aiuti a trascendere il mondo specifico di chi l’ha realizzato, guardando all’ampio spettro di emozioni che definiscono i rapporti tra uomini e donne, pratica legata, inoltre, all’ossessione della fotografa per la memoria. Nelle varie riproposizioni di The Ballad, le fotografie sono sempre organizzate tematicamente: immagini che rappresentano ruoli di genere stereotipati e non, coppie, l’amore, la dipendenza e l’alienazione sono combinati in maniera evocativa con il sonoro. Questa modalità di giustapposizione tra immagine – realizzata su più supporti mediali – e musica era funzionale a chiarificare determinati statement politici.
She saw the future and all the beauty and bloodshed: la cartella clinica della sorella di Nan recitava queste strane parole – insolite per una diagnosi medica.
Con The Ballad of Sexual Dependency, Goldin ha ripercorso la storia della seconda metà del Novecento costruendo quello che in, Cultura visuale, Michele Cometa definisce “dispositivo atlante” riferendosi a come Aby Warburg decideva di impostare la sua ricerca storica e iconografica nelle varie versioni dell’Atlas Mnemosyne. Due lavori, quelli di Goldin e Warburg, e impostazioni stilistico-contenutistiche senz’altro diverse e antitetiche anche in ciò che si voleva raccontare: per Warburg si trattava di comprendere la contemporaneità attraverso lo studio delle sopravvivenze dell’antico nel mondo moderno, creando un “dispositivo”, riprendendo ancora Cometa, “in cui gli spazi intermedi sono metafora e materia allo stesso tempo, su cui scorre un flusso ininterrotto, verbale come visuale, delle associazioni, memorie, delle sopravvivenze che caratterizzano la vita delle immagini.” Quella dell’atlante così come pensata da Warburg è una forma che consente di pensare il molteplice, l’ibrido e soprattutto di immaginare nuovi nessi tra le immagini, gli oggetti, le persone. L’atlante è il dispositivo a-cronico per definizione. Non rappresenta: mostra, costituisce il senso e lo decostruisce.
Il principio atlante, ossia la disposizione e collezione di immagini e parole – parole che nell’atlante di Goldin vengono sostituite dai testi delle colonne sonore – su un unico supporto mediale, individua nella comparazione e giustapposizione delle immagini una risorsa teorica fondamentale per capirne significato, evoluzione ed effetti comunicativi. Warburg, ad esempio, raccontava l’evoluzione iconografica della donna-oggetto con la giustapposizione di una incisione tedesca del 1525 di Anton Woensam (La donna saggia) la rappresentazione della donna ideale da parte dell’artista americana Anita Page, che risale al 1928 (L’ideale donna dello schermo) e l’autoritratto ironico e provocatorio che fa di sé una delle prime attiviste del post-porno, Annie Sprinke (Anatomia di una pin-up, 2006). Veniva, quindi, individuato un tema e da lì si procedeva alla sua decostruzione e ricostruzione attraverso l’immagine. Con The Ballad, Goldin mi sembra conservare l’intento politico di Warburg nella misura in cui le sue fotografie raccontano con piglio provocatorio più tagliente ed estremo una determinata realtà. Questa ambizione si definisce, in particolar modo, nella scelta delle soggettività trans e drag che ha voluto porre in risalto, in un momento storico e culturale dove, se non per qualche eccezione, vivevano nel timore e nella repressione. Il desiderio di Goldin era mostrarli come un “terzo genere” glorificandoli in quanto ri-creatori di sé stessi attraverso l’esposizione pubblica dei propri desideri. I corpi che la fotografa racconta sono dei “corpi in pericolo”, per citare Olivia Laing. Se il corpo è un oggetto la cui libertà è ridotta dal mondo e, nello stesso tempo, una forza di liberazione a pieno titolo, con una particolare narrazione per immagini di questi corpi queer come corpi che r-esistono, Goldin allude proprio a questa compresenza.
Nel saggio Corpi queer, film queer in Portogallo contenuto nel recente volume Atlante del cinema queer contemporaneo (Meltemi, 2023), a cura di Andrea Inzerillo, lo studioso Antonio Fernando Cascais scrive che un corpo queer è un corpo che r-esiste, corpo perché “si materializza come esperienza corporea, narrativa, organica, meccanica. Ed è queer perché produce e plasma sé stesso attraverso pratiche artistiche, tecniche e politiche che disarticolano il legame tra il suo sesso biologico, la sua performance sociale di genere e la sua soggettività sessuale”. Se un corpo queer è tale perché contrasta un’identità autocostruita contro quella imposta dall’eteronormatività, come si racconta, o meglio, in che modo fotografa può restituire al pubblico il potenziale rivoluzionario di questo corpo? Prendiamo Bea As a Blonde Venus (1974) o l’iconica fotografia Misty and Jimmy Paulette in a Taxi (1991): lo sguardo di Goldin, il bianco e nero granuloso della prima e l’iperdefinizione tonale della seconda, non sta lì a rivelare la “stranezza” dei soggetti ritratti, non vuole ridurli a oggetti di pura contemplazione, predatoria e violenta; il suo è un punto di vista che va a coglierne la complessità e umanità, rispettando le performance – il loro essere nel mondo in quanto corpi che rivendicano un’altra pelle – dei suoi soggetti, senza andare a cercare una qualche forma di verità dietro la maschera.
Se il corpo è un oggetto la cui libertà è ridotta dal mondo e, nello stesso tempo, una forza di liberazione a pieno titolo, con la narrazione per immagini di questi corpi queer come corpi che r-esistono, Goldin allude proprio a questa compresenza.
La fotografia queer di The Ballad ha illuminato il modo in cui i corpi dei drag king e delle drag queen sono stati rifatti, ricostruiti e “risoggettivizzati”, per riprendere Cascais, nella loro lotta per la sopravvivenza in un mondo in cui la loro esistenza è possibile solo in quanto r-esistenza. In relazione al potenziale rivoluzionario di questi corpi a cui la fotografia restituisce nuova (e vera) vita, leggere Everybody. Un libro sui corpi e sulla libertà (Il Saggiatore, 2022) di Olivia Laing è stato come ripercorrere attraverso le parole una certa parte della ballata di Goldin, specialmente le fasi in cui si racconta della malattia. Come la fotografa, non c’è percorso che Laing abbia timore di esplorare. Scrive del corpo malato, dei corpi imprigionati, dei corpi che protestano e del corpo sessuato e sessualizzato, e dei corpi che hanno subito violenze e soprusi, illuminando, con una scrittura che si situa a metà tra autobiografia e saggismo, le forze e le fragilità della forma corporea. Le esperienze personali della scrittrice fanno da sfondo al libro, permettendo ad altre voci di esprimersi in prima persona, alla stregua di Goldin in The Ballad of Sexual Dependency, in cui la fotografa presenta vari slideshow della propria esistenza dagli anni Settanta fino all’attivismo politico che ha caratterizzato i suoi anni più recenti, combinando la propria esperienza con quella di altri e altre che hanno attraversato il suo cammino, facendoli parlare tanto con la voce quanto con l’immagine.
Goldin ha ridefinito l’estetica fotografica del corpo queer così come quella del corpo malato. Alla fine del 1989, la fotografa organizza una mostra collettiva all’Artist Space di New York, “Witnesses: Against Our Vanishing”, con cui si posiziona politicamente durante la crisi sociale e culturale dovuta al diffondersi incontrollato dell’Aids. All’inizio di All the Beauty and the Bloodshed, Goldin sottolinea l’importanza della differenza tra la Storia e il vero ricordo, definendo quest’ultimo “sporco” perché contaminato dalle narrazioni egemoniche, semplificatorie e confortanti. Con le fotografie che ha scattato ai suoi amici più cari nei momenti più tragici della malattia, nella solitudine domestica così come in ospedale, l’intenzione – oltre quella più intima, viscerale, di non lasciare andare così facilmente le persone che amava– era di registrare la memoria reale congelata nel tempo.
Così come per i soggetti drag, non si trattava di documentarne semplicemente la realtà, e quindi la malattia, ma di capire in che modo questi corpi perdessero sé stessi con il progredire della malattia. Fotografie come Gilles in His Hospital Bed (1993) o Gilles and Gotcho Embracing (1992) mostrano rispettivamente un corpo steso a letto cadaverico e rigido, svuotato in tutte le sue forze vitali e due corpi che invece provano a reggersi, l’uno sull’altro, con l’enfasi sulle spalle e il torso forti. È un tentativo di definire questi corpi ancora come r-esistenti, da un lato, accompagnandoli fin nella fase finale, di rilascio e distensione. La voce di Goldin è risultata cruciale nel riconfigurare frontiere e bordi, nel trasformare quella che era un’alterità – “esotica”, per i corpi drag, e “mostruosa” per i corpi malati – in un’istanza attiva e potente.
Non si trattava di documentarne semplicemente la realtà, e quindi la malattia, ma di capire in che modo questi corpi perdessero sé stessi con il progredire della malattia.
L’attenzione si riversava, quindi, nella forza evocativa dei soggetti rappresentanti ma anche nel modo in cui le immagini sono disposte: la logica dell’atlante di Goldin è quella del montaggio, che è interessata alle relazioni più che alle sostanze. La fotografa non ha mai smesso di intervenire sui suoi slide show, con editing e rivisitazioni sempre nuove e complesse, che in un certo qual modo rispondevano a neonati bisogni ed esigenze artistiche differenti. Così come nel cinema, il montaggio è necessario a Goldin per acuire progressivamente l’effetto di inquietudine ed euforia alluso nei primi momenti dei suoi slide show, fino a scatenare nel pubblico le emozioni più radicali, riso, pianto, terrore.
Sono passati trentacinque anni da The Ballad of Sexual Dependency ed è un’opera che risuona ancora nel mondo. Su queste fotografie, che hanno raccontato la verità di un tempo, Goldin ritorna spessissimo, andando a ricontestualizzare la prefazione al libro o a modificare, con la pratica del montaggio, le presentazioni, volendo continuare ad aggiornare “the record of her life”, così come la fotografa afferma in un saggio del 2022 sulle ragioni che continuano a legarla alla sua opera più importante e incisiva. Le immagini di Goldin rimandano a un’era pre-digitale in cui catturare un volto o una situazione non era così immediato come oggi e in cui spesso si incappava in numerosi impedimenti; nonostante ciò, sono immagini che continuano ad agire nel mondo sia reale che cibernetico autonomamente, a produrre degli effetti in chi le guarda, anche senza il bisogno di un supporto testuale o di una didascalia, in continuo divenire e rinnovarsi nei significati proprio grazie alle relazioni che intrecciano con la realtà in cui si collocano.
Se lo sguardo non agisce in maniera neutrale ma è condizionato da una cultura e da un modo preordinato di vedere che influisce sul soggetto al di là della sua creatività, il punto di vista occidentale è stato abituato a oggettificare chi è altro, andando a romanticizzarne o esotizzarne i caratteri. Goldin, invece, è riuscita a portare avanti uno sguardo sulla realtà, “ecologico”, riprendendo la nozione di “sguardo ecologico” elaborata da Luigi Ghirri in relazione all’ambiente e allo spazio, che ha raccontato il margine, il queer e la subalternità senza bloccarne o impedirne l’autonomo parlare di sé.