“Q uando vedi qualcosa di tecnicamente dolce, procedi a farlo e discuti cosa farne solo dopo aver conseguito il tuo successo tecnico. Così è andata con la bomba atomica”. Queste parole di Robert Oppenheimer compaiono nella trascrizione dell’udienza di sicurezza a cui fu sottoposto tra l’aprile e il maggio del 1954 per discutere le sue affiliazioni comuniste e altri comportamenti giudicati un rischio per la sicurezza nazionale. All’udienza, che assunse ben presto i toni di un’inquisizione, viene dato considerevole spazio in Oppenheimer, il biopic di Christopher Nolan sulla vita dello scienziato e sul suo ruolo come coordinatore scientifico del progetto Manhattan.
L’epilogo è noto: Oppenheimer fu giudicato leale agli Stati Uniti e l’accusa di essere una spia che passava i segreti delle armi atomiche all’Unione Sovietica fu ritenuta infondata, ma la Commissione per l’Energia Atomica lo considerò comunque non sufficientemente affidabile e gli revocò il diritto di accedere alle informazioni riservate sulla ricerca atomica, quella ricerca a cui egli stesso aveva dedicato così tanto e che aveva contribuito a costruire. Dopo questo evento, la carriera di Oppenheimer sostanzialmente si interruppe. Recisi i suoi legami con il governo, troppo distante ormai dalla ricerca accademica, egli divenne una sorta di non-persona. Nove anni dopo ricevette una riabilitazione simbolica dai presidenti John F. Kennedy e Lyndon B. Johnson, ma fu solo nel dicembre del 2022 che la decisione del 1954 fu formalmente annullata da Jennifer Granholm, segretaria dell’energia del governo Biden.
La vera disgrazia di Oppenheimer non fu tanto l’udienza inquisitoria per affiliazioni comuniste, bensì il suo straordinario successo nel progetto Manhattan.
Questo avvenne soprattutto grazie a Kai Bird e Martin J. Sherwin, autori nel 2005 del libro American Prometheus, vincitore del Premio Pulitzer nel 2006 e tradotto quest’anno in Italia con il titolo Oppenheimer (Garzanti, 2023). Per questa biografia i due misero insieme 25 anni di ricerca, raccogliendo 50mila pagine di materiali di archivio a cui si aggiunsero oltre cento interviste e altre ottomila pagine di materiali riservati dell’FBI ottenuti grazie al Freedom of Information Act. A partire da tutte queste informazioni, Bird e Sherwin cominciarono a compilare dei memorandum in cui documentarono tutte le violazioni compiute nel corso dell’udienza – violazioni che, come dichiarato dalla stessa Granholm, contraddicevano il regolamento interno delle Commissione per l’Energia Atomica.
In prima battuta, quella di Oppenheimer potrebbe sembrare la storia di una persecuzione politica, dell’ennesima vittima della red scare statunitense degli anni ‘50. Ma la vera disgrazia di Oppenheimer non fu tanto l’udienza inquisitoria con tutto ciò che ne derivò, bensì proprio il suo straordinario successo nel progetto Manhattan: l’impresa nella quale mise tutto sé stesso e per la quale è ricordato, che lo portò a essere osannato finché sostenne la scelta di creare uno strumento di distruzione di massa e usarlo in guerra, ma che infine lo fece a pezzi quando tentò di arrestare la corsa alle armi successiva all’esplosione della prima bomba atomica.
La mela avvelenata
Julius Robert Oppenheimer è indubbiamente una figura storica affascinante e molto difficile da inquadrare senza lasciare qualcosa fuori fuoco. Tra gli aggettivi usati per descriverlo troviamo di sicuro brillante, e poi eclettico, riflessivo, intenso, ma anche volubile, ambiguo, narciso, nevrotico, complicato, genuinamente eccentrico, arrogante, idiosincratico, fragile, interiormente frustrato, sicuro di sé ma allo stesso tempo consapevole della propria vulnerabilità. Soffrì a più riprese di depressione, e nei suoi anni a Cambridge ricevette una diagnosi (errata) di schizofrenia e poi di repressione sessuale. Il suo atteggiamento spesso ineffabile potrebbe essere dipeso da una difficoltà nel formarsi un’identità adulta, che negli anni della formazione l’avrebbe resto inquieto e spinto alla continua ricerca di senso.
Una delle prime tematiche alle quali il film di Nolan ci introduce è quella del peccato: in una conferenza tenuta al MIT nel novembre del 1947 Oppenheimer disse: “in una qualche sorta di senso brutale che nessuna volgarità, umorismo o esagerazione può estinguere del tutto, i fisici hanno conosciuto il peccato; e questa è una conoscenza che non possono perdere”. E la storia del progetto Manhattan è in larga parte la storia dell’irreversibile perdita dell’innocenza non solo della fisica, ma della storia tutta.
Nei suoi tormentati anni a Cambridge, si racconta che Oppenheimer cercò di avvelenare il suo tutore Patrick Blackett, iniettando nella sua mela una sostanza tossica, forse cianuro. Così simile nella forma al nucleo del Gadget, il prototipo di bomba atomica realizzato col progetto Manhattan, la mela di Blackett è la tentazione del peccato: la tentazione irresistibile di una nuova scienza che aveva scosso le fondamenta del mondo come lo conoscevamo, e che era troppo “tecnicamente dolce” per dire di no. Pochissimi tra gli scienziati coinvolti, anche i più integerrimi, si sottrassero. Tra questi Einstein e Szilárd, coloro che avevano tentato di dare il via alla ricerca sugli ordigni nucleari negli Stati Uniti con la loro famosa lettera del 1939 al presidente Roosevelt.
A volte ci si può fermare in tempo – si può impedire che quella mela venga morsa – e a volte no, specialmente quando di mezzo si mette il divario tra teoria e pratica. Perché a volte per capire qualcosa devi vederlo, portarlo alla luce nella pratica: ma quando lo si vede, può essere troppo tardi. Così fu con il test Trinity per la bomba atomica, così fu con Hiroshima e Nagasaki per lo sterminio atomico di massa.
La storia del progetto Manhattan è in larga parte la storia dell’irreversibile perdita dell’innocenza non solo della fisica, ma della storia tutta.
Nel film, Oppenheimer strappa la mela dalle mani di Bohr all’ultimo minuto, ma non riesce a impedire che le bombe atomiche escano dal suo controllo all’indomani del test Trinity. Può dare il suo parere tecnico, come altri scienziati del progetto, ma la decisione su cosa fare di quella mela avvelenata non spetta più a lui. In un fotogramma, appare Patrick Blackett che dà un morso alla mela: Blackett aveva fatto parte del Comitato MAUD, la commissione inglese che aveva decretato la fattibilità di un’arma atomica, e avrebbe dichiarato che i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki non erano tanto “l’ultimo atto militare della Seconda Guerra Mondiale, quanto la prima operazione importante della guerra fredda diplomatica don la Russia”. Come Oppenheimer, Blackett alla fine morde la mela avvelenata.
Dualità, complementarietà, ambiguità
La tentazione è anche quella che viene dall’approvazione, dall’essere considerato un leader, un punto di collegamento tra mondi. Da Harvard a Cambridge a Göttingen, negli anni Venti Oppenheimer conobbe e si fece conoscere da moltissimi nomi di quella fisica di punta che stava sconvolgendo le fondamenta della realtà, ma coltivò anche un’estesa e variegata cultura umanistica e linguistica, dall’olandese al sanscrito, da T.S. Eliot a John Donne.
I risultati scientifici di Oppenheimer al di fuori del progetto Manhattan furono di tutto rilievo: per citarne alcuni, intuì l’esistenza dell’antimateria, formulò insieme al suo maestro Max Born un’approssimazione efficace che permette di effettuare calcoli semplificati nella dinamica molecolare quantistica (l’approssimazione di Born-Oppenheimer, appunto, elaborata quando aveva 23 anni) e insieme a Richard Tolman e George Volkoff diede una prima stima della massa limite oltre la quale un resto stellare sarebbe collassato indefinitamente sotto l’effetto della propria gravità, per formare quell’oggetto che oggi chiamiamo buco nero. Gli argomenti delle sue ricerche tradiscono l’irrequietezza intellettuale di Oppenheimer e il suo bisogno di conciliare gli estremi: quei punti luminosi che popolano le visioni del suo personaggio cinematografico possono essere atomi, oppure stelle, perché non entrambi? Ironia del destino, le teorie principe per l’immensamente piccolo (la meccanica quantistica) e l’immensamente grande (la relatività generale) non sono a tutt’oggi conciliabili.
La prima lezione di Oppenheimer a Berkeley è proprio sul principio di complementarietà di Bohr: le particelle hanno natura duale, possono essere sia onde sia corpuscoli – è paradossale, ma è così. Il problema è che noi possiamo vederne solo un aspetto per volta: gli esperimenti possono mostrarci l’onda o il corpuscolo, ma mai entrambi assieme. In modo analogo, la limitatezza dell’osservatore umano non riesce a vedere gli opposti che concorrono a formare la realtà.
Attorno al personaggio di Oppenheimer si vengono a condensare fronti opposti per dare vita alla realtà e alla storia. Dalle scale inconcepibilmente piccole della dimensione del nucleo atomico, si estrae un’energia distruttiva che non ha pari tra le creazioni degli umani. Due personaggi opposti per carattere, formazione e ideologia come Leslie Groves, l’ingegnere che costruì di fatto le città e il complesso industriale del progetto Manhattan, e Robert Oppenheimer, hanno saputo lavorare splendidamente insieme. La bomba può essere uno spettacolo allo stesso tempo “turpe e magnifico”, come lo descrisse Kenneth Bainbridge, il direttore responsabile del test Trinity, ed è vista in modo alterno come strumento di pace o come minaccia per l’umanità.
Gli argomenti delle ricerche di Oppenheimer tradiscono la sua irrequietezza intellettuale e il suo bisogno di conciliare gli estremi.
Oppenheimer mise insieme una comunità scientifica quasi utopica, che concentrava in un solo posto il meglio dei cervelli di un’epoca, con lo scopo noto di creare morte e distruzione. Dedicò la sua vita alla creazione della bomba atomica, difese il suo uso contro il Giappone anche a distanza di tempo, ma si sentì comunque “le mani sporche di sangue”. Dichiarò che la bomba era stata usata “contro un nemico essenzialmente battuto”, e rifiutò di proseguire sulla strada della “Super”, la bomba a fusione termonucleare molto più potente, spendendosi per porre le armi atomiche sotto il controllo di un’entità sovranazionale. Era tutte queste cose insieme, e anche altre.
Agli estremi, le cose sono sempre più semplici. Il problema è che gli uomini e la storia si trovano in quella terra di mezzo dove vivono i dilemmi, e in essi convivono aspetti inconciliabili tra i quali non si può mediare e dei quali riusciamo a vedere solo uno per volta. Una posizione molto scomoda nel momento in cui qualcuno decide di scrivere la Storia in un certo modo, perché è molto facile prendere un uomo e usare i dilemmi che albergano in lui per farlo a pezzi.
Il tempo e la morte
Uno dei temi più cari a Nolan è quello del tempo, e molti dei suoi film si svolgono attraverso strutture temporali non lineari. In Memento, vediamo un alternarsi di tempo lineare e scene svolte al contrario per immedesimarci in Leonard Shelby, ex consulente assicurativo che soffre di amnesia anterograda dopo un’aggressione e che non riesce ad assimilare nuovi ricordi. In Inception, il tempo del sogno viene dilatato man mano che si entra negli strati più profondi della coscienza, al punto da poter trascorrere delle intere vite nel sogno e non poter più capire la differenza. In Interstellar, il tentativo di salvare l’umanità dei personaggi principali è complicato dalle distorsioni temporali degli eventi causate da un buco nero. E in Tenet non c’è più distinzione tra trame che vanno avanti e indietro nel tempo, ma convivono nelle stesse scene.
Anche Oppenheimer ha una struttura temporale non lineare, che sovverte le convenzioni narrative della fotografia con la scelta di girare le vicende più recenti in bianco e nero. Una scelta che evidenzia un’altra abitudine di Nolan, il quale piuttosto che spiegare gli avvenimenti a partire da ciò che avviene prima, prova a dar loro un senso compiuto sulla base di ciò che succederà in futuro – il che è quello che spesso succede: la comprensione degli episodi della nostra esistenza non mentre si verificano, ma solo a posteriori.
La frase più citata di Oppenheimer è un breve estratto dal testo induista Bhagavadgītā a cui, nel corso di un’intervista rilasciata nel 1965, lui stesso dichiarò di aver pensato dopo aver assistito al test Trinity. Il Bhagavadgītā è un poema di 700 versi in forma di dialogo tra il principe Arjuna e il suo cocchiere Krishna, avatar della divinità Vishnu, creatore e trasformatore dell’universo, che interviene per riportare l’ordine cosmico in tempi di caos e distruzione. Arjuna esita ad andare in battaglia contro i Kaurava, perché nell’esercito del nemico vede anche parenti e amici. Krishna lo esorta a portare a compimento il suo dharma, il suo dovere morale di guerriero, perché il destino dei suoi nemici era già stato deciso da lui, da Vishnu, e comunque tutte le anime dei morti sarebbero rinate, quindi la morte sarebbe stata solo temporanea.
Oppenheimer cita il verso 32 dell’Undicesimo discorso, e lo riporta con le parole “Ora sono diventato morte, il distruttore di mondi”. In realtà nella maggior parte delle traduzioni della Bhagavadgītā la parola sanscrita kālo (काल) è resa come “tempo” anziché come “morte”: d’altro canto, il tempo è morte. Il tempo che si manifesta nel mondo lo distrugge e lo ricrea. Pensare a un prima e a un dopo non ha senso: nella dottrina induista il tempo non è lineare, ma circolare, e tutto ritorna.
Oppenheimer non vede più il tempo come ricorsivo, perché l’energia della bomba ha spezzato la circolarità del tempo, stabilendo un prima e un dopo.
Si pensa che Oppenheimer abbia cercato in questo poema una soluzione al proprio dilemma morale, illudendosi di trovare la pace interiore e un rifugio dalla responsabilità nel proprio dharma, che era quello di fare il proprio dovere portando a compimento la ricerca sulla bomba atomica. Oppenheimer non vede più il tempo come ricorsivo, perché l’energia della bomba ha spezzato la circolarità del tempo, stabilendo un prima e un dopo. Ora che abbiamo imparato la tecnologia nucleare militare, non possiamo più tornare indietro e disimpararla, e questo ha cambiato tutto. Perché la bomba atomica non è solo una bomba convenzionale moltiplicata per migliaia o milioni di volte, è qualcosa di diverso, non solo un’arma, ma un concetto inedito, in grado di distruggere effettivamente una visione del mondo per crearne una dalle regole nuove.
Peraltro, anche se nella Storia con la “S” maiuscola Oppenheimer può essere paragonato a un Arjuna, è più complicato capire in cosa si identificasse lui stesso, se in Arjuna o in Vishnu. Nella mitologia induista, ogni divinità monta uno o più suoi veicoli, detti vahana. Uno dei vahana di Vishnu è Garuda, re degli uccelli: il fatto che Oppenheimer avesse dato il nome Garuda alla sua Chrysler è abbastanza indicativo della possibilità che si vedesse più come colui che tirava le fila della Storia. Ma è invece più probabile che nella sua pervasiva ambiguità Oppenheimer oscillasse nell’identificazione ora con Arjuna e ora con Vishnu, trovandosi ancora una volta in mezzo a due opposti inconciliabili.
La soggettività e la storia
In un’intervista rilasciata alla rivista cinematografica Total Film, Christopher Nolan ha spiegato il suo uso dell’alternanza tra bianco e nero e colore in termini di contrapposizione tra soggettivo e oggettivo: il colore è la realtà soggettiva di Oppenheimer, il bianco e nero quella oggettiva. E in effetti questa dialettica irresolubile, tema onnipresente nell’opera di Nolan, è uno degli aspetti principali di Oppenheimer.
Una delle critiche mosse più spesso a Nolan è quella di conformarsi al cliché liberal del superuomo, dell’eroe maschio, spesso americano e bianco, che da solo cambia la storia. Per esempio, a una prima visione, il suo Batman è il Cavaliere Oscuro, il vigilante che mette una pezza alle inefficienze e alla corruzione del sistema poliziesco e giudiziario ristabilendo l’equilibrio a suon di botte e tecnologia, anche se poi a un’analisi più approfondita le cose si rivelano essere un po’ meno semplici di così.
Oppenheimer mise insieme una comunità scientifica quasi utopica, che concentrava un solo posto il meglio dei cervelli di un’epoca, con lo scopo noto di creare morte e distruzione.
Oppenheimer non sfugge del tutto a questa inclinazione. L’impressionante cast stellare, chiamato a impersonare un numero altrettanto impressionante di scienziati storici, si riduce perlopiù a una sequenza di cameo – Niels Bohr, Werner Heisenberg, Enrico Fermi, Richard Feynman, Lilli Hornig, Kurt Gödel, Vannevar Bush – che hanno il tempo di apparire per poi non essere visti mai più, spesso senza nemmeno lasciar capire il loro ruolo e sollevano il sospetto di un fan service fine a sé stesso per il pubblico nerd. Gli attori sono abbastanza convincenti da non ridurre i personaggi a delle mere funzioni narrative, eppure la maggior parte di questi personaggi sono introdotti solo in quanto motori delle vicende di Oppenheimer.
Ed è altresì vero che Nolan sembra avere un problema con i personaggi femminili, che risentono frequentemente di caratterizzazioni antagonistiche, marginali e poco memorabili. Il modo in cui sono state rese su schermo le figure di Katherine “Kitty” Puening e Jean Tatlock, rispettivamente moglie e amante di Oppenheimer, è stato da più parti giudicato insoddisfacente, in quanto appiattirebbe il loro vissuto in funzione del protagonista. La scelta di glissare sui downwinders, i residenti dell’area di Alamogordo che subirono le conseguenze del fallout radioattivo del test Trinity, così come quella di non mostrare – se non in modo evocativo, nelle disturbanti visioni di Oppenheimer – gli effetti dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, sono state biasimate come tentativi di “igienizzare” la storia dell’atomica ripulendola dal punto di vista delle vittime.
D’altro canto però Oppenheimer tratta proprio di questo: la dialettica tra la storia di un uomo e la Storia, che è una proprietà emergente dall’insieme delle storie di tutti, e che non può essere vista in modo compiuto dal singolo uomo nel tempo in cui la vive. Per Nolan il cinema stesso è una metafora di questo autoinganno, di cui è cosciente lo spettatore, meno i personaggi. In tal senso, è normale e perfino realistico che la visione del film, che almeno nella parte a colori è il punto di vista di Oppenheimer, sia limitata e distorta: nessuna esperienza soggettiva del singolo può dare conto non solo del quadro generale, ma nemmeno del proprio posto nella Storia.
Oppenheimer si era sempre tenuto in disparte dalle forme più strutturate dell’ideologia. Era molto interessato alla spiritualità, ma non era un religioso; era convinto sostenitore delle cause della sinistra europea e americana, ma non fece mai parte del partito comunista; condivideva intimamente le ragioni e gli obiettivi delle associazioni per il disarmo ma non volle mai mettere la propria firma in calce a nessuna petizione. Supervisionava con grande abilità il lavoro di fisici e chimici sperimentali, ma si teneva lontano dal dare contributi sperimentali lui stesso. Il suo eclettismo, la sua cultura poliedrica, umanistica e linguistica oltre che scientifica, il suo essere così capace di trovarsi al centro di relazioni scientifiche significative e di poter fare da nucleo di condensazione di tante conoscenze differenti gli fece credere di poter rimanere un’entità a sé, posta al di sopra di tutti e tutto, in grado di decidere in autonomia il proprio posto nella Storia.
Ma questo è troppo per qualunque uomo. Dopo la guerra, per non essere ricordato dalla storia come il “padre della bomba atomica”, Oppenheimer si sceglie il ruolo di portavoce del controllo internazionale degli armamenti nucleari. Ma è troppo tardi, forze politiche più grandi di lui spremono il suo passato irrisolto e la sua ambiguità morale e lo sottraggono al percorso che si era convinto di poter intraprendere. Ironicamente, anche quel Lewis Strauss che aveva manovrato contro di lui, una figura storicamente complessa, articolata e polarizzante, subisce un destino analogo a causa della sua visione a tunnel che gli impedisce di vedere “cose più importanti”.
Il collasso: la responsabilità tra scienza e politica
La soggettività è un elemento portato sulla scena della fisica del Novecento dalle due teorie, rivoluzionarie e inconciliabili, della meccanica quantistica e della relatività. Lo spettatore, che fino a quel momento doveva limitarsi a non interferire con gli esperimenti, ne diventa parte ineliminabile: due osservatori differenti che misurano lo stesso fenomeno non pervengono necessariamente allo stesso risultato. Nella meccanica quantistica, la presenza dell’osservatore e l’atto stesso di misura inducono il sistema osservato a “collassare” in uno stato fisico: in altre parole, misurando il sistema fisico lo perturbiamo in modo inevitabile, ma se non lo misuriamo non possiamo conoscerlo. Oppenheimer non tratta di questo aspetto la meccanica quantistica se non con un cenno sbrigativo: “non saprai se c’è un serpente sotto la pietra finché non la sollevi”, dice Bohr in una battuta del film. Nella sua sceneggiatura, Nolan ha preferito traslare questi significati al divario che, nella complessità della fisica moderna, esiste tra teoria e risultato: non sapremo mai se qualcosa va come deve finché non lo osserviamo.
“Cosa si aspetta dalla sola teoria?”, domanda Oppenheimer a un perplesso Leslie Groves mentre Fermi, in un episodio realmente accaduto, sta raccogliendo scommesse sull’eventualità che la reazione a catena del test Trinity si estenda all’intera atmosfera, distruggendo il mondo. Oggi sappiamo che i calcoli effettuati da Hans Bethe non erano del tutto corretti, ma all’epoca la teoria poteva portare soltanto a prevedere una probabilità minuscola, non nulla. Il test fu condotto comunque, perché era l’unico modo di vedere cosa sarebbe successo. Era una decisione rischiosa, ma fu presa perché l’alternativa sembrava un rischio peggiore. Le due bombe Little Boy e Fat Man furono lanciate su Hiroshima e Nagasaki, obiettivi attentamente studiati per mostrare al Giappone e al mondo il potenziale distruttivo di un’arma nucleare, perché tutte le altre alternative sembravano poco efficaci a chi aveva voce in capitolo.
La vicenda del bombardamento atomico del Giappone solleva la grande questione, che poi è il principale tema portante di Oppenheimer, del rapporto tra scienza e politica e in particolare della domanda se, e dove, si possano identificare le responsabilità della scienza nella creazione di uno strumento che può essere usato per scopi controversi – eventualità remota in alcuni casi, ma di certo non nel progetto Manhattan. La posizione dello scienziato, e di chi la scienza la deve comunicare, nel decidere le policy è un argomento ancora aperto, nel quale si incontrano diverse domande: è davvero possibile dividere le responsabilità della scienza da quelle della politica? Si può veramente essere neutrali come pretendeva Oppenheimer, limitandosi a spiegare rischi e benefici delle varie alternative senza suggerirne nessuna – quel delicato ruolo che viene definito di honest broker? Oppure uno scienziato, essendo in primis anche cittadino, può e in alcuni casi deve prendere posizione proprio perché più di altri sa? Nolan non offre suggerimenti né consolazioni, queste risposte dobbiamo trovarcele da soli e non saranno mai le stesse per tutti.
E ancora: definire le alternative in modo “scientifico”, cioè quantitativo, non si porta dietro il rischio di normalizzare la violenza, la morte, il trauma e gli strascichi come danni collaterali riducendoli a un banale confronto tra cifre? Non è forse ingenuo portare avanti il progresso scientifico senza farsi domande – come sta succedendo oggi per l’intelligenza artificiale – aspettandosi una regolamentazione a posteriori? Certo, si può dire che a causa della guerra in corso, la segretezza che ha circondato l’invenzione della bomba atomica ha reso impossibile una qualunque riflessione preliminare nella comunità scientifica globale. Non sembra che però in tempi di pace siamo stati in grado di fare molto meglio di così.
Oggi, gli armamenti nucleari pongono un dilemma pratico ben noto: seguendo la politica della deterrenza – sintetizzata negli anni Cinquanta sotto la sigla MAD, mutual assured destruction – e lasciando che la corsa alle armi continui indisturbata, esiste una probabilità non nulla che, per la pazzia o la hybris di qualche capo di governo o per un errore nella catena di comando e controllo, si scateni una guerra termonucleare che può portare alla fine del mondo per come lo conosciamo. D’altro canto, se uno qualsiasi degli stati possessori di armi nucleari procedesse al disarmo totale, gli altri sarebbero incentivati a mantenere il proprio arsenale per acquisire un vantaggio strategico, e questo è aggravato dalla segretezza e dalla diffidenza che circonda le questioni nucleari militari. Oggi, qualunque sia l’istanza che scegliamo di sostenere – disarmo o deterrenza – il rischio sarà sempre diverso da zero: possiamo solo prendere una posizione e vedere cosa succederà.
A volte per capire qualcosa devi vederlo, portarlo alla luce nella pratica: ma quando lo si vede, può essere troppo tardi.
Oppenheimer è un’opera solo parzialmente riuscita, nel quale la straordinaria ricchezza dei temi presenti preme al di sotto una confezione “tecnicamente dolce” e autocompiaciuta. Come nella vicenda umana e scientifica del fisico Oppenheimer, anche all’interno del film convivono paradossi: le tre ore di run time dense di dialogo lasciano molte cose non spiegate e resta in generale la sensazione di non aver visto abbastanza e non aver imparato nulla di nuovo; alla ricerca della grandiosità nell’esperienza visiva e sonora fa da contrappunto un prodotto che non riesce a emozionare fino in fondo; la dimensione collettiva e collaborativa di uno dei primi progetti di big science della storia filtra in modo sbiadito.
Fuori dal buio delle sale, si accende la discussione tra un pubblico diviso: chi dice che è un’opera monumentale, non solo importante ma imprescindibile, chi invece lo considera un immane guazzabuglio fatto per raggirare gli spettatori, e chi lo definisce un bel film vetrina ma poco più. Probabilmente, Oppenheimer è un ibrido impossibile tra tutte queste cose, una creatura imperfetta che vale comunque la pena di osservare, capace di “collassare” in qualcosa di diverso agli occhi di ogni spettatore. Coscientemente o no, Christopher Nolan ci ha messo in guardia dalla pretesa di cercare eroi e demoni nella Storia, e di cercare la Storia negli occhi azzurri di un uomo che non fu né l’uno né l’altro.