P er la mia generazione i fatti del 2001 rappresentano una sorta di presenza invisibile ma costante, un’enormità simbolica con cui si è costretti al confronto che lo si voglia o no. Solo una manciata di noi ha fatto parte, poco più che quindicenne, di quella protesta. Genova – ci dicono – ha segnato irrimediabilmente la generazione precedente alla nostra, i cui membri ne parlano come di una catastrofe, di un evento dalle tinte escatologiche: “L’alfa e l’omega. Il giorno più bello e quello più brutto. Una ferita che non si è ancora chiusa” (Marco Imarisio); qualcosa da cui “è come se non ci fossimo ancora ripresi” (Christian Raimo); “un’improvvisa eclissi, un corpo scuro […] che altera i rapporti di forza, per poi uscire dall’orbita e riportare uno stato di apparente quiete” (Valeria Verdolini).
I.
Per tante e tanti, quella del disturbo post-traumatico non è una metafora: tra le vittime delle violenze poliziesche del 2001, gli attacchi di panico alla semplice vista di una divisa non sono un fenomeno isolato. Allo stesso tempo, Genova pare restare insuperabile anche sul versante delle potenzialità positive, l’occasione che si presenta una volta sola e che mai più tornerà: in quella protesta ci sarebbe stata già la coscienza del disastro a cui avrebbero portato le politiche neoliberali applicate a livello globale – a dimostrare che si trattava del “movimento più lucido e propositivo degli ultimi vent’anni”; mai dopo di allora si sarebbe ricreato un fronte sociale tanto ampio, dal cattolicesimo di base ai centri sociali passando per le comunità di migranti e i sindacati.
Il trauma di Genova non sembra ricomponibile: ci sarebbe la necessità di mettersene alle spalle, sia pur criticamente, gli aspetti più tragici – la fine prematura di uno straordinario esperimento sociale nel sangue della repressione statale – e di valorizzare il ricordo degli elementi visionari, anticipatori della situazione presente. Non è possibile. Quella di Genova “non è una memoria condivisa”. I tribunali hanno offerto una risposta tardiva, parziale, spesso insoddisfacente; le altre istituzioni hanno preferito dimenticare, come segnalano la fulgida ascesa all’interno delle forze dell’ordine di coloro che per le vicende di Genova furono condannati e la cancellazione addirittura fisica delle tracce dei diritti umani violati (nella caserma di Bolzaneto nulla oggi ricorda i crimini che vi furono commessi, mentre gli ambienti nei quali i manifestanti vennero torturati ospitano adesso una biblioteca, una cappella, una palestra e un magazzino). Non potrà esserci giustizia piena per il “popolo di Genova” senza le scuse ufficiali e le ammissioni di responsabilità che le persone in strada durante quei giorni ancora attendono e che a ogni nuovo anniversario paiono più improbabili.
Il trauma di Genova non sembra ricomponibile.
La mancata elaborazione del lutto non si limita alla sfera più propriamente politica, ma influenza anche l’ambito della produzione artistica: come Stefano Valenti notava alcuni anni fa, “non abbiamo ancora il romanzo definitivo sui fatti di Genova”. Sono molte, è vero, le opere letterarie che li citano di sbieco, che li rendono parte del retroterra di questo o quel personaggio, ma pochissime quelle che hanno corso il rischio di farne il perno della narrazione.
Un testo, in particolare, viene indicato come “romanzo del G8” sin dalla copertina – finendo tuttavia per perdere la propria scommessa narrativa e confermare suo malgrado il giudizio di Valenti. Nel suo I segni sulla pelle Stefano Tassinari, uno degli scrittori d’elezione dei movimenti italiani, narra la trasferta genovese della venticinquenne Caterina Ramat, studentessa universitaria e corrispondente per una piccola radio indipendente. La ricostruzione degli avvenimenti è meticolosa, quasi cronachistica, con le peripezie della protagonista che da principio paiono un mero pretesto per provare a ricreare gli elementi salienti del clima politico di quei giorni. Proprio quando si ha l’impressione che il personaggio di Caterina stia per diventare più caratterizzato, che tramite i suoi occhi il movimento no-global acquisirà una qualche sfumatura particolare, Tassinari abbandona la propria rigorosa verosimiglianza e apre una seconda trama di pura fantasia – le vittime di Genova sono in realtà due, la seconda delle quali si scoprirà essere una poliziotta spagnola infiltrata fra i dimostranti, uccisa erroneamente dalle forze dell’ordine italiane. L’attenzione della protagonista e dei personaggi secondari viene quindi catalizzata dalla ricerca della verità sulla donna, mentre la riflessione politica su quanto realmente accaduto nel capoluogo ligure si sposta nettamente sullo sfondo. La dimensione dell’intrigo imprime sì una spinta a un intreccio fino a quel punto debole, ma a farne le spese è proprio la possibilità per il romanzo di contribuire alla memoria sociale di Genova: l’inserzione in un punto chiave di elementi finzionali avalla involontariamente la tesi dell’intrattabilità letteraria del G8.
Ciononostante, da scrittore capace Tassinari riesce a centrare, sia pure in brevi passaggi che restano marginali in un’ottica complessiva, l’importanza e la complessità della dimensione mnemonica dischiusa da quell’evento: “riusciremo a dimenticare tutto questo senza dimenticare mai?”. Coloro che hanno attraversato Genova da coetanei di Caterina Ramat si erano affacciati all’attivismo dopo la caduta del Muro di Berlino – e sarebbe forse lecito, di conseguenza, immaginarli immuni dalle forme più statiche di nostalgia, dalla ritualità ieratica di celebrazioni che rischiano di destoricizzare un movimento appiattendolo in una dimensione iconica, atemporale (si basa ad esempio su un paragone fra i manifestanti vittime della violenza poliziesca e la figura del Cristo uno dei brani musicali più belli e fuorvianti ispirati da Genova).
Invece, l’impressione è spesso quella della ritirata in un una sorta di eccezionalismo, ben sintetizzato dalle parole di Bertram Niessen: “[A] volte sono affaticato dall’ossessione per la memoria dei movimenti italiani. Spesso mi pare che tutte le energie disponibili vengano incanalate nella commemorazione di una lista di date, nomi, morti, mentre non si mette mai abbastanza energia nel cercare soluzioni nuove. Però qui è diverso. Di Genova – e di quello che ha fatto la polizia a Genova – bisogna parlare ancora”. Cosa rende quei fatti diversi dall’eredità storica precedente? Si tratta semplicemente della circostanza per cui sono più prossimi a noi – e che quindi verranno inevitabilmente scalzati in qualche decennio dal sopraggiungere di memorie più “urgenti”? Valenti sostiene che la spiegazione stia nel fatto che Genova “non è ancora terminata […] perché viviamo dentro al racconto della prevaricazione che è norma nella postdemocrazia”.
La mancata elaborazione del lutto non si limita alla sfera più propriamente politica, ma influenza anche l’ambito della produzione artistica.
Detto altrimenti, la realtà oggetto di critica nel 2001 costituirebbe ancora il nostro orizzonte di (in)azione, starebbe dispiegando compiutamente i suoi effetti più nefasti solo adesso. È un ragionamento che non mi convince, per due motivi. In primo luogo, risulta abbastanza evidente che il neoliberalismo post-crisi del 2008 presenta delle differenze significative con quello di inizio millennio. In seconda battuta, quella di Valenti potrebbe leggersi come la mossa reducistica per eccellenza: chi era a Genova vede l’epoca attuale come figlia di quelle giornate, chi ha animato il movimento del ’77 pensa, con Bifo, che in quell’anno si trovi la chiave interpretativa dell’intera contemporaneità, e così via.
Tassinari può aiutarci a metterci su una pista diversa quando pone in bocca alla sua protagonista una riflessione sulla “complicità che stempera le differenze generazionali”: “forse è proprio questa – riflette Caterina – la novità rispetto a tutti i movimenti del passato”. Sotto i colpi della rimozione istituzionale e di un’informazione mainstream che dopo due decenni non ha ancora smesso di deturpare l’impronta lasciata dal G8, i “giovani di Genova” si sono difesi come hanno potuto, opponendo al ripiegamento individualistico sulle proprie ferite una contro-narrazione generazionale parzialmente fuorviante.
La potenza e la natura in qualche modo necessaria di questa strategia sono dimostrate dal fatto che anche i più acuti osservatori di quei giorni hanno finito a volte per abbracciarla. Persino Alessandro Leogrande, con ogni probabilità il miglior inviato al lavoro nel capoluogo ligure nel luglio 2001, vedeva in Genova anzitutto “una tappa importante di quel processo di mutuo riconoscimento in corso fra gli individui più attenti e inquieti dell’ultima generazione europea”. Tuttavia, come Alessandro Portelli ha sottolineato nel suo saggio di storia orale sul G8, “[s]ebbene l’identità del movimento fosse generazionale, la sua composizione era più molteplice”. In quei giorni, anzi, i legami intergenerazionali divennero più stretti e rilevanti che mai: Quello che stava succedendo a Genova si ripercuoteva in tutta Italia, tra radio e cellulari, con una risonanza multigenerazionale se non del tutto nuova, certo particolarmente intensa. I protagonisti di Genova erano soprattutto giovani, molti alla prima esperienza di manifestazione (anche se poi nelle strade di Genova c’erano tutte le generazioni), ma molti di loro avevano radici familiari di movimento o di impegno politico; perciò l’atteggiamento di molte famiglie era un misto incerto di orgoglio per l’impegno dei figli e di preoccupazione per quello che poteva succedere in un momento di tensione e scontro annunciato. (…) dopo la notizia delle aggressioni, delle irruzioni, degli arresti, molti genitori sentono che è impossibile restare a casa. E partono – come a sottolineare l’urgenza del momento – nel mezzo della notte.
La partecipazione dunque, diretta o indiretta che fosse, era più estesa di quanto i racconti canonici riportino. Nondimeno, essa era anche più ristretta – in un senso stavolta colto in pieno da Leogrande, che nel testo citato in precedenza ricorreva quasi spasmodicamente al termine minoranza: non tutta la cosiddetta generazione X (1965-1982) si sentiva rappresentata dal corteo di Genova.
La partecipazione era più estesa di quanto i racconti canonici riportino. Ma era anche più ristretta: non tutta la generazione X si sentiva rappresentata dal corteo di Genova.
Ancora una volta, è un testo letterario a fornircene una dimostrazione: in La fine dell’altro mondo, Filippo D’Angelo tratteggia il profilo di un ventottenne della media borghesia genovese, Ludovico Roncalli. Figlio di due medici di successo, privo di stringenti preoccupazioni materiali (i genitori gli hanno appena regalato un appartamento in un palazzo dei Cinquecento, l’odiata nonna gli lascerà una cospicua eredità prima del termine del romanzo), Ludovico è uno svogliato dottorando in lettere proveniente da una cerchia gauche caviar. Erotomane annoiato e prossimo all’alcolismo, la sua condizione socioeconomica e culturale gli rende accessibile un cinismo di una certa raffinatezza. Possiede gli strumenti per affermare che Berlusconi era riuscito nell’“azzeramento del passato di una nazione […] senza che gli italiani nutrissero il minimo rimpianto per l’annichilimento di ogni loro destino o identità”, ma al tempo stesso osserva il Cavaliere con il disprezzo segretamente ammirato di una classe sociale che verrà comunque riverita da qualunque maggioranza di governo – arriverà a rimpiangere “che Berlusconi non avesse fatto della sua tempra di puttaniere la pietra miliare di un progetto politico” e ad augurarsi “che il G8 degenerasse in guerriglia”. Il suo approccio al vertice internazionale e alla protesta noglobal è infatti quello primariamente estetico di chi sa che la possibilità di un “altro mondo” si è ormai convertita “da politica in poetica”: “se riponeva le proprie speranze nella protesta, era solo per un gusto insopprimibile della fine”.
Ludovico Roncalli è il doppio di Caterina Ramat: ha deciso di affrontare a livello individuale, narcisistico, l’impasse in cui si trovano i loro coetanei – ma al tempo stesso sviluppa un senso di autoreferenzialità generazionale che è sconosciuto a Caterina, la quale stringe rapporti di amicizia anche con persone più anziane durante la manifestazione. In uno dei passaggi più riusciti del libro di D’Angelo, il protagonista stila “un’ideale lista di proscrizione, composta da soli nominativi dei nati fra il 1945 e il 1955”, decennio in cui avrebbero visto la luce “le personalità italiane più distruttive: terroristi rossi e neri, politicanti incapaci, imprenditori parassiti, intellettuali e artisti cialtroni”. Per le strade di Genova, per uscire dalla fiction, ragazze e ragazzi non sembravano avere grandi problemi a sfilare fianco a fianco con Piero Bernocchi (classe ’48), Vittorio Agnoletto (nato nel 1958) o Fausto Bertinotti (allora già sessantunenne). Malgrado le tinte vagamente giovanilistiche della memorialistica successiva, due scrittori tanto diversi quanto Tassinari e D’Angelo ci restituiscono la stessa impressione: in quei giorni, l’impegno politico della piazza e del movimento che le gravitava intorno era intergenerazionale, mentre il disimpegno di chi (giovane o vecchio) aveva il lusso di poterla irridere era libero di trastullarsi con opposizioni generazionali di facciata – poco credibili declinazioni di un conflitto che era di classe molto più che di età.
Ragionare in questi termini offre ai e alle millennial e alla generazione Z un modo per fare finalmente i conti a viso aperto con lo spettro di Genova. Quella protesta non fu l’ultimo, triste episodio di una parabola teleologicamente discendente dei movimenti giovanili italiani, partita dal ’68 e passata per il ’77 prima e la Pantera poi, ma un momento politico più sfaccettato e complesso, che su almeno un punto era forse riuscito a fare un passo più avanti dei propri predecessori: porre le basi per un’alleanza socialmente ampia e autenticamente estesa a più generazioni insieme. Uscire dall’alternativa asfittica tra rimozione e canonizzazione consentirebbe di imparare sia dagli errori che dalle intuizioni di Genova, tenendo sempre presente la precisa collocazione storica di entrambi.
Un’analisi disincantata del 2001 aiuta anche a disinnescare la simmetria tossica delle narrazioni che vedono i millennials italiani ora come privi di ogni radicalità giovanile (“molti hanno votato per Meloni e Salvini”) ora come gli unici possibili salvatori della patria (quasi che la soluzione a ogni complessa questione politica contemporanea possa risultare in un pilatesco “Largo ai (alle) giovani!”). A Genova come a Roma dieci anni dopo, le ragazze e i ragazzi in strada erano al contempo numerosi e minoritari, rappresentavano istanze di giustizia molto più che di età – semplicemente, in un contesto dove i giovani sono sempre più poveri e senza futuro, in cui vengono chiamati ad assecondare un capitalismo dai livelli crescenti di ferocia, la lotta contro l’ingiustizia è inevitabilmente anche la lotta di tante e tanti fra loro.
L’impegno politico del movimento era intergenerazionale, mentre il disimpegno di chi aveva il lusso di poterla irridere proponeva opposizioni generazionali di facciata – declinazioni di un conflitto che era di classe molto più che di età.
I giovani oggi attratti, per convinzione o disperazione, dal grugnito dell’ultimo capo della fattoria degli animali lo sono anche perché cresciuti con l’idea che le ultime opportunità autenticamente politiche siano andate esaurite prima che loro avessero modo di coglierle, che manifestare direttamente a difesa della propria e dell’altrui dignità sia una perdita di tempo invariabilmente fallimentare. Di queste narrazioni reazionarie i media e le istituzioni sono in gran parte responsabili, ma per affrontarle a viso aperto c’è bisogno di guardare al passato recente in modo critico. Ciò che resta da capire è come continuare a lottare per un riconoscimento appropriato dell’eredità e della memoria di Genova senza al contempo restarne paralizzati o straniati – ovvero come rendere il ricordo non un peso, ma una risorsa radicalmente politica.
II.
Walter Benjamin è il nume tutelare degli sconfitti che combattono per una giusta causa. Si tolse la vita a Portbou, sul confine franco-spagnolo, quando pareva ormai inevitabile che lui e i suoi compagni di fuga, diretti negli Stati Uniti, sarebbero stati ricondotti in un campo di concentramento nella Francia controllata dal regime di Vichy. Comunista atipico, l’ebreo Benjamin visse abbastanza da vedere l’Unione Sovietica firmare un patto con la Germania nazista, ma non da assistere all’ingresso in guerra dei sovietici nelle fila degli Alleati. Contro ogni aspettativa, la frontiera spagnola venne riaperta il giorno dopo la sua morte. Per paradossale che possa apparire, Benjamin è il pensatore a cui rivolgersi per guardare al passato non come a una irredimibile sequela di sconfitte, ma in quanto opportunità inesauribile di una riscossa futura.
Erede di una ininterrotta “tradizione degli oppressi”, Benjamin credeva nell’esistenza “di un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra” – poiché a ogni generazione viene consegnata una flebile ma ineliminabile possibilità di sovversione dell’esistente (quella che chiamava “una debole forza messianica”) a cui il passato stesso ha diritto. Articolare il potenziale politico del passato non ha tuttavia niente a che vedere con il conoscerlo “proprio come è stato davvero”; piuttosto, il passato somiglia a un deposito di munizioni da cui attingere selettivamente “in un attimo di pericolo” – pericolo che in fondo è sempre il medesimo: “prestarsi a essere strumento della classe dominante”. L’oppressione non è perciò fonte di minaccia solo per chi la sperimenta in un dato momento, ma per l’intera tradizione delle persone oppresse, il cui ricordo può sempre venire fatto oggetto del “conformismo” degli oppressori (“neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince”). La storia è il risultato di una continua costruzione, che però non avviene in un “tempo omogeneo e vuoto, ma [in] quello riempito dall’adesso”: quando la rivoluzione francese pretendeva di essere “una Roma ritornata” non aspirava certo a riprodurre una copia di quell’antica civiltà nel proprio presente, ma ambiva a “citarla” come “la moda cita un abito d’altri tempi”.
Per Benjamin l’habitat della citazione è, più che il testo degli studiosi, il tribunale (dove non a caso si viene citati in giudizio): “[n]ella citazione che salva e punisce la lingua si rivela come la madre della giustizia. La citazione chiama la parola per nome, la strappa dal contesto e lo distrugge, ma proprio per questo la richiama anche alla sua origine” – scriveva in un saggio su Karl Kraus. La prosa ermetica del filosofo berlinese si fa immediatamente limpida se la confrontiamo con la prassi del processo penale, soprattutto per come appariva prima della riforma del 1989: la fase inquisitoria (o istruttoria) del processo si svolgeva quando il procuratore ascoltava il singolo testimone e ne verbalizzava (con tutte le possibili distorsioni del caso) le dichiarazioni; era soltanto nella successiva fase accusatoria (o dibattimento) che il testimone aveva facoltà di essere ascoltato in viva voce, di citare alla presenza dell’accusa, della difesa, del giudice e delle altre parti in causa le proprie affermazioni per come contenute nei documenti istruttori – ed eventualmente di rivederle, di emendarle, di segnalare degli errori contenuti nel documento scritto. Benjamin suggerisce un uso simile, vivente e mai fossilizzato della storia, come qualcosa da invocare a propria difesa, da riattivare in modo inedito qui e ora.
La citazione benjaminiana ci fornisce uno strumento importante per fare i conti con l’eredità dei movimenti sociali che ci hanno preceduti, prendendone selettivamente e senza patemi filologici quanto di produttivo per noi può esserci adesso, consapevoli che combattere fruttuosamente contro l’oppressione è l’unico modo per rendere propriamente giustizia a quante e quanti ci hanno provato prima di noi: “solo a una umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato”. Se la riflessione di Benjamin si limitasse a questo, tuttavia, potrebbe sembrare ferma a una speranza indefinita e massimalistica di un rivolgimento futuro che per noi, immersi in una temporalità neoliberale che riduce tutto a un eterno presente, rappresenterebbe forse la necessità di nuove utopie da immaginare, ma poco avrebbe da dire a livello politico. Così non è.
Il potenziale politico del passato somiglia a un deposito di munizioni da cui attingere selettivamente “in un attimo di pericolo” – pericolo che in fondo è sempre il medesimo: “prestarsi a essere strumento della classe dominante”.
In un breve testo del 1930, Benjamin introduceva la categoria di malinconia di sinistra per criticare quei poeti piccolo-borghesi che si atteggiavano a rivoluzionari quando in realtà il loro fine era simile a quello di Ludovico Roncalli: spostare la possibilità di un mondo altro dalla politica alla poetica, convertire motivi radicali “in oggetti di distrazione, di divertimento, di consumo”. Il radicalismo di tali poeti altro non era che “quell’atteggiamento a cui non corrisponde più nessuna azione politica. […] Poiché non mira[va] ad altro, a priori, che a godere sé stesso, in una quiete negativistica. La trasformazione della lotta politica da coazione a decidere a oggetto di piacere, da mezzo di produzione ad articolo di consumo”.
Qui abbiamo una malinconia che è di sinistra nel senso del complemento di specificazione: se la malinconia è l’incapacità di separarsi compiutamente da un oggetto perduto, gli intellettuali attaccati da Benjamin erano ridotti a mimare con dei patetismi retorici quella militanza politica che ormai avevano smarrito. Esistono anche, però, delle tracce di un’altra malinconia benjaminiana – di una che è di sinistra nell’accezione del complemento di appartenenza: è la malinconia che prova la sinistra, la malinconia degli oppressi dinanzi alle tante sconfitte subite in passato. L’oggetto perduto, in questo caso, è proprio l’immaginazione di un mondo diverso, libero dall’oppressione.
Lo storico Enzo Traverso ha recentemente riletto da un’angolazione analoga il concetto di Benjamin, rivelando che questo secondo tipo di malinconia di sinistra è sì emerso con il tracollo dell’Unione Sovietica, ma era in realtà sempre esistito sotto forma di “tradizione nascosta” anche negli anni della propaganda trionfalistica dell’URSS. Ciò di cui avere malinconia oggi non è ovviamente il “socialismo reale” e neppure un tipo particolare di regime, ma – prosegue Traverso – “la lotta come esperienza storica, […] una fedeltà alle promesse emancipatrici della rivoluzione, non alle sue conseguenze”. Una tale malinconia si trova a giocare una funzione più che mai necessaria proprio sotto la cappa ideologica neoliberale, che vorrebbe impedirci non solo e non tanto riappropriazioni nostalgiche del tipo “si stava meglio quando si stava peggio”, ma soprattutto l’operazione stessa di un pensiero che nega l’esistente, del mettere in scacco l’oppressione facendo un uso politico della ragione: è la forma dell’utopia prima ancora del suo contenuto a far cigolare forte la cerniera neoliberale. Ben venga, dunque, la malinconia per Genova e per tutte le sconfitte che ancora bruciano, purché si comprenda che la radicalità di quei giorni non stava nel semplice riciclo di vecchi ideali, ma nella formulazione di modalità nuove di tener fede a quei valori – la malinconia, scriveva Benjamin nel testo sul dramma barocco tedesco, è il prodotto della fedeltà all’oggetto, non necessariamente alle sue particolari manifestazioni.
L’ultimo passaggio da compiere è, a questo punto, la presa d’atto che, come leggiamo in Per un ritratto di Proust, “un evento vissuto è finito, o perlomeno è chiuso nella sola sfera dell’esperienza, mentre un evento ricordato è senza limiti, poiché è solo la chiave per tutto ciò che è avvenuto prima e dopo di esso”. In altre parole, la concezione di memoria che accompagna la visione storica di Benjamin non può essere quella che siamo abituati a utilizzare quotidianamente anche in ambito politico – vale a dire un modello competitivo nel quale fare posto per qualcosa nel ricordo implicherebbe necessariamente buttar via, o non accogliere, qualcos’altro. Si compie spesso questo errore anche a proposito delle manifestazioni di Genova, affermando che i poco successivi attentati terroristici dell’11 settembre avrebbero impedito a quanto avvenuto nel capoluogo ligure di ricevere la meritata attenzione nel periodo successivo. Non c’è nulla di inevitabile in tale fenomeno.
Ben venga la malinconia per Genova purché si comprenda che la radicalità di quei giorni non stava nel semplice riciclo di vecchi ideali, ma nella formulazione di modalità nuove di tener fede a quei valori.
Come Michael Rothberg ha sostenuto in uno studio miliare, la memoria è sempre potenzialmente multidirezionale, cioè fatta di rimandi, di connessioni inattese e alle volte arbitrarie, di analogie rivelatrici tra eventi lontani (apparentemente o meno) che possono illuminarsi a vicenda. Gli attacchi alle Twin Towers e al Pentagono non sarebbero stati troppo difficili da leggere con la lente critica del movimento no-global, ma i media preferirono ignorare il nesso e gli attivisti di quei giorni non furono sempre convinti nello spendersi per la mobilitazione pacifista internazionale che sarebbe partita di lì a poco. Un episodio recente ci mostra in tal senso quanto l’attivazione di legami multidirezionali fra avvenimenti passati anche molto eterogenei possa risultare politicamente sovversiva – e pertanto invisa alle autorità.
III.
Enrico Zucca è il pubblico ministero che chiese il rinvio a giudizio dei principali funzionari delle forze dell’ordine coinvolti nelle torture alla scuola Diaz. L’indipendenza mostrata in quel procedimento lo rese, per usare un eufemismo, impopolare. In alcune intercettazioni telefoniche che chiamavano in causa anche il futuro capo della polizia, l’ex questore di Genova Colucci affermava: “Manganelli stamattina m’ha detto: dobbiamo dargli una bella botta, a ’sto magistrato”, “Quei pm sono gentaglia, uno di loro è uno squilibrato”, “[Zucca] È un pezzo di merda con lo sguardo da pazzo”, “Il pm è un matto, un mascalzone”. Ci furono centocinquanta udienze in quel dibattimento, nelle quali il procuratore capo non si presentò mai – a sottolineare la mancanza di condivisione per l’operato di Zucca e del collega Francesco Albini Cadorna. La Cassazione avrebbe però confermato, nel 2012, il loro impianto accusatorio. Il nome di Zucca ricompare nelle cronache nazionali nel 2018, in occasione di un incontro in cui si trovava affianco ai genitori di Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso nel 2016 dalle forze di sicurezza egiziane e per il quale le richieste di verità e giustizia rimangono inascoltate. In quell’occasione, Zucca aveva dichiarato: “L’11 settembre 2001 e il G8 hanno segnato una rottura nella tutela dei diritti internazionali. Lo sforzo che chiediamo a un paese dittatoriale [di consegnarci gli assassini di Regeni] è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper fare per vicende meno drammatiche. I nostri torturatori sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i suoi torturatori?”.
Non c’era molto da eccepire sul contenuto di quelle dichiarazioni (basti ricordare il caso di Gilberto Caldarozzi, condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi di reclusione nel processo Diaz e poi nominato nel 2017 vicepresidente della Direzione Investigativa Antimafia), ma le polemiche che ne scaturirono portarono all’apertura contro Zucca di un fascicolo presso il Consiglio Superiore della Magistratura. Nel 2019 il CSM avrebbe archiviato la richiesta di trasferimento pendente sul procuratore, senza però mancare di bollare le sue parole come “inopportune”.
A spaventare, nell’intervento di Zucca, era esattamente la dimensione multidirezionale, la capacità di tornare ad accendere (in maniera non certo nostalgica, ma esplosiva) la memoria dei fatti di Genova quando le istituzioni competenti erano già certe della natura irreversibile della propria opera di rimozione. Con una manciata di frasi in occasione di un piccolo convegno, un magistrato poco amante dei riflettori aveva tracciato una linea mnemonica lunga quindici anni e migliaia di chilometri, mettendo in scacco l’ipocrisia di uno stato italiano che per onorare Regeni e la sua famiglia non ha mai fatto abbastanza – pure nel suo caso, anzi, non era mancati rimossi e tentativi di neutralizzazione. Il ricercatore friulano, nato nel 1988 a Fiumicello, era un millennial – ai tempi del G8 aveva tredici anni. È a partire dalla terribile fine di Regeni che chi scrive ha iniziato a leggere delle torture al G8. Ne avevo sentito parlare, ricordavo alcuni flash visti in un telegiornale nel torpore impressionabile dei miei sette anni, brandelli di pagine Wikipedia, ma non avevo mai approfondito l’argomento – del resto la storia, nelle nostre scuole e università, non si studia quasi mai dall’osservatorio benjaminiano dell’adesso. Per me, il volto di Carlo Giuliani è diventato familiare quasi in contemporanea a quello di Giulio, al di là delle tante cose che li separano. Se non fosse stato per un mio coetaneo, il nome Piazza Alimonda non mi direbbe molto.
La memoria è sempre fatta di rimandi, di connessioni inattese e alle volte arbitrarie, di analogie rivelatrici tra eventi che possono illuminarsi a vicenda.
In quello che è forse il libro più importante tra i tanti scritti sui fatti di Genova, pubblicato in occasione del ventennale, Gabriele Proglio ha composto una storia orale di quei giorni e del loro portato attraverso più di cinquanta interviste con manifestanti di allora, di età, provenienza e formazione politica assai varie. Il risultato più impressionante di questo minuzioso lavoro polifonico è che per le persone intervistate “la conclusione delle mobilitazioni del G8 non è una fine definitiva e assoluta”: come nota Proglio, un esito simile non contrasta solo con le narrazioni dei detrattori di quel movimento, ma anche con quelle di chi, condividendone le posizioni, ha insistito nel ribadire una lettura a senso unico di quelle giornate, intese come “sconfitta politica e generazionale”.
Le memorie orali restituiscono un quadro composito, che mal si presta alla personificazione di una specifica generazione: “la perdita di voce, la sua morte, sconfitta e scomparsa”. Emergono invece continuità e differenze intergenerazionali, opportunità di riconciliazione e di conflitto che per essere colte in pieno devono necessariamente allargarsi a quante e quanti sono troppo giovani per avere una memoria diretta del 2001. È forse lì, in un ricordo del passato che non miri velleitariamente a ricostruirlo “proprio come è stato davvero”, ma che lo immagina per come potrà diventare una volta vendicato dal futuro, che sta il buon uso della malinconia per Genova e per ciò che quei giorni continuano a significare.