I o non appartengo a questo posto” è la prima cosa che ho pensato quando sono entrato in un bar gay, appena dopo i vent’anni. Era lo YAG di Firenze, un locale che stava in una via centrale della zona di Sant’Ambrogio, il quartiere dove vivo adesso. Se lo si ricerca su Google, la barra rossa appena sotto la cartina e sotto la foto della vetrina coperta da una carta trasparente dice “chiuso definitivamente”. C’erano delle luci rosa e viola quella sera, un grande bancone circolare in mezzo, una palla specchiata appesa al soffitto e una canzone di Madonna che non ricordo, che risuonava a basso volume. Tre quattro uomini erano seduti intorno al tavolo del bar, a chiacchierare tra loro ridendo sguaiati e sorseggiando uno di quegli intrugli per cui anche io inspiegabilmente andavo matto, un angelo azzurro, un invisibile, un qualcosa alla fragola. Ebbi l’impressione però che anche loro facessero parte dell’arredamento, del pacchetto completo che oggi chiamerebbero “un’esperienza”. Oltre alla musica, sentivo la desolazione.
Erano già due anni che frequentavo le feste organizzate da Arcigay una volta al mese alla Flog o quelle al Krisko, che da cruising bar si era aperto a serate più varie, e niente, di quel mondo colorato di musica assordante che mi ero abituato a definire come “il mondo dei gay”, aveva a che vedere con quello che stavo guardando in quel momento.
I locali che frequentavo, le persone con cui passavo le serate, le musiche facevano parte di un mondo in cui persone queer si mescolavano a quelle non queer per creare una situazione di convivenza che di pericoloso non aveva nulla. Erano posti in cui era possibile essere chi si voleva essere, in cui era possibile esprimere la propria identità, quale che fosse in quel momento specifico della vita, senza che questo fosse un problema, una minaccia, un qualcosa di cui discutere.
Li vivevo come posti sicuri, dove la prevedibilità della proposta musicale, che era sempre la stessa, mi confortava, dove la persona sconosciuta era qualcuno di cui mi potevo innamorare, dove qualcuno diverso da me aveva di certo qualcosa da dirmi, qualche storia che non sapevo, qualche vita che non avevo ancora conosciuto.
Se un twink mi chiedesse del mio primo gay bar, confesserei la mia confusione. Direi che non so bene come qualificare un gay bar. Per me non sono mai stati una cosa soltanto. Ma di qualunque tipo fosse – l’ex gay bar, il caffè da pettegolezzo, il nightclub con un passato glorioso – posso testimoniare che è stato deludente. A poco a poco ho imparato ad accettare l’esperienza per quello che è: pacchiana ma effervescente, artificiale, spietata, cringe. Ho scoperto che il punto dei gay bar è il potenziale, non la risoluzione. I gay bar non sono un punto di arrivo. I migliori sono sempre un punto di partenza.
In Gay Bar – perché uscivamo la notte, Jeremy Atherton Lin intreccia la sua storia personale con il racconto di bar gay degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, partendo dagli ultimi decenni del secolo scorso fino ai giorni nostri. Quello che è prezioso, di questo libro, è che l’incapacità di comprendere il nuovo da chi può essere considerato non più nuovo viene accettata con serenità, come si accettano le cose naturali della vita. Non viene posto l’accento su quanto fosse meglio prima, non viene giudicato il più giovane perché prima ci si divertiva meglio e diversamente, semplicemente viene preso atto che sia necessario un gentile passaggio di testimone.
Attraverso la geografia di posti importanti per l’autore e per la comunità LGBTQIA+, locali chiusi, locali cambiati, locali rinnovati, l’autore riesce a mostrare un cambiamento di modalità di partecipazione a quel tipo di vita delle persone queer che tanto incuriosisce, spaventa, stuzzica chi invece di quel mondo non si sente parte.
Un mio amico, Robbie, portava i capelli castani lunghi fino alle spalle e t-shirt logore di band come i Breeders. Una sera si è messo in fila al G-A-Y Late, gemello del G-A-Y Bar. La buttafuori non voleva farlo entrare. «Perché no?!», ha protestato Robbie.«Perché non sembri gay», ha risposto lei. Robbie ha riso, era quasi lusingato. «Ma lo sono», ha ribattuto. «Tipo al centro per cento». La buttafuori l’ha studiato di nuovo. «Sì, ma non sembra», ha fatto e poi l’ha cacciato via dalla fila. Storie simili circolano perché, sia che la persona sia involontariamente additata come gay o non abbastanza gay, in ballo c’è sempre una forma di emarginazione. Le complessità di un amico sono state appiattite, e la morale è che anche chi ha ragione può sbagliarsi di grosso.
Una critica, comunque, si scorge tra le parole di Atherton Lin, che non riesce ad accettare il comportamento delle persone non queer che entrano negli spazi safe della comunità come se partecipassero a una visita guidata in un museo o a un freak show, come nel caso degli addii al celibato o nubilato che vedono quel tipo di feste come un distacco da una vita normale per avere i brividi della trasgressione. Tuttavia, quello che io ho sempre vissuto negli anni in cui mi sono ritrovato a prendere parte a questo genere di eventi, è stato un positivo appiattimento delle diversità, che per la durata di una notte diventavano un unico amalgama con il cuore che pulsava al ritmo di una stessa anormalità. Si respirava l’utopia di una convivenza delle differenze che non prevedeva frammentazioni, o meglio che smussava i modelli, le bolle e le cerchie, per mettere in pausa una vita fatta di discriminazioni e di esclusione. I cliché venivano abbracciati, gli stereotipi, proprio perché venivano scelti con consapevolezza, venivano riabilitati, esagerati, rinnovati, per un momento che durava il tempo di una playlist. E se anche non ti ci conformavi, in fondo, andava bene così.
Diversamente succedeva di giorno, nella vita quotidiana, dove sentivo che l’esterno aveva la necessità di riconoscermi. Spesso sentivo l’espressione “il patentino dei gay” per cui, come se partecipassi a una sorta di raccolta punti, più punti avevo che mi facevano sembrare gay più avevo la possibilità di sentirmi parte di una comunità. E non comprendevo quel tipo di meccanismo, per cui dall’idea di unicità e della relativa esaltazione si passava a una necessità di chiudersi e di disprezzare l’altro.
Dev’essere un rito di passaggio tipicamente gay, questo sentirsi minacciati, disgustati perfino, dagli altri gay. Nel 1951 Donald Webster Cory scrisse: «Si varca la soglia del bar nella speranza di trovare lo spirito conviviale che nasce nell’incontro fra simili; ma allo stesso tempo il bar è lo spettro spaventoso di uno specchio che riflette la nostra immagine, quella vera». Nel 1996 Beautiful Thing insinuava che un’alternativa esisteva, una estranea al becero cliché. Jamie e Ste possono essere adorabili omosessuali, senza dover essere odiosamente gay. «Lo detesto», dice Ste più tardi parlando del pub, benché nella scena finale ci stiano tornando. Non si sa se diventeranno clienti abituali, se cambieranno stile, se assorbiranno il gergo. Restano sospesi nel divario fra desiderio di appartenere e resistenza. Una possibile lettura di questo nuovo tipo di liberazione gay: bisogna liberarsi dell’identità gay.
Liberarsi dell’identità gay. Quest’affermazione potrebbe far inorridire qualche militante del secolo scorso che ha combattuto per l’affermazione della propria identità, e che si ritrova oggi a dover mettere in discussione nella totalità i propri atti e i propri sforzi nel nome di un più generico assunto identitario/antiidentitario: il queer. Se si è arrivati ad aggiungere lettere alla sigla che rappresenta le diverse componenti della comunità, è perché si è tentato di definire ed etichettare tutta una serie di identità che non trovano nel binomio omosessualità/eterosessualità la giusta rappresentazione. Tra queste lettere, la Q identifica chi non si identifica in niente di definitivo, e sono molte le persone oggi, anche all’interno della comunità stessa, che preferiscono utilizzare questo termine che lascia lo spazio a quel tipo di fluidità che proprio loro ricercano. L’autore di Gay Bar, però, dice:
Conversando non usavo queer: era un termine dal sapore accademico. Era impersonale, asessuato. Preferivo parole che esprimessero libidine, che colassero precum, parole sporche. Queer era per infilarsi fra categorie, mentre a me piacevano le parole che le categorie le confermavano – maiale, orso, capretto, felino, troia – parole che denotavano tipi che avrei voluto farmi per poi scriverne usandole. Dubito che qualcuno di noi pensasse di fatto che le categorie fossero impermeabili o fisse, ma in ogni caso le ritenevamo gustose, puerili, creatrici di complicità, e poi ci facevano morire dal ridere. Alle mie orecchie queer era un termine serio, adulto, diciamo. Faceva preoccupare.
La preoccupazione qui espressa penso si possa allargare anche riferendosi al rischio dell’utilizzo accademico non solo della Q, ma di tutte le lettere della sigla che, in qualche modo, prevedono un certo set di comportamenti, idee, espressioni che rischiano più di crearli gli stereotipi che di liberare realmente. Oggi a me, che anche mi ritrovo nella situazione di effettuare una specie di passaggio di testimone, manca quel tipo di atmosfera ludica e leggera che è l’occasione per accettare la persona diversa, quell’interesse che non è paura, quella curiosità che non è biasimo, quell’apertura reale che non è invasione di spazio.
L’espressione della propria identità non può e non deve avere soltanto un aspetto sociale, ma soprattutto privato, e le modalità con cui ogni persona decide di esternarla sono sue e sue soltanto. Se ci può essere un tipo di sopravvivenza che va oltre le chiusure dei bar, oltre i Pride che si allargano e che rischiano di non rappresentare nessuno, oltre il pensiero fascista che dilaga ovunque, è quello che permette di osservare, di accogliere, anche di mettere in discussione ma con il confronto costruttivo e, soprattutto, di liberare. Abbiamo così paura della libertà che usiamo questo termine per definire una gabbia in cui, in autonomia, ci stiamo costringendo, senza pensare che ognuno, nel proprio piccolo, costruisce una forma personale di ribellione.
Noi tutti possiamo sfidare le convinzioni arbitrarie della società a proposito di genere e di sesso, senza però diventare dogmatici. Non ci si dovrebbe aspettare che qualcuno di noi rifiuti tutti insieme i fattori oppressivi presenti nelle nostre vite; ciò ci porterebbe all’esaurimento e ci farebbe impazzire. La somma combinata delle nostre piccole ribellioni destabilizzerà il sistema normativo di genere così come lo conosciamo.“Il manifesto del femminismo”, Eni Koyama, tratto da Queerdo, l’antologia di studi di genere di Kabul.