È il 19 giugno 1968, e da qualche settimana a Venezia si respira un clima teso. Il giorno prima i critici e gli esperti d’arte accorsi in città per l’inaugurazione a porte chiuse della XXXIV edizione della Biennale d’Arte sono stati accolti con manifestazioni e contestazioni. La Biennale è sottosopra, i padiglioni hanno risposto al maggio francese chiudendo ed esponendo cartelloni in cui esprimono il loro dissenso verso lo statuto di Biennale. Tra i quadri esposti a rovescio spicca la frase scritta da Gastone Novelli: “La Biennale è fascista”.
Negli stessi giorni gli studenti dell’Accademia e di altri istituti veneziani scendono tra le calli a protestare, offrendo il loro sostegno simbolico alle manifestazioni in corso a Praga. È all’interno di questo clima che si inserisce l’opera del land artist argentino Nicolás García Uriburu, che versa della fluoresceina sodica nelle acque del Canal Grande. Questo pigmento, non nocivo per l’ecosistema, rende l’acqua fosforescente ed è utilizzato comunemente in speleologia per rintracciare e seguire sorgenti sotterranee. Pur non essendo stato invitato alla Biennale, Uriburu espone all’intera città l’urgenza dei cambiamenti climatici attraverso un’azione che ancora oggi viene ricordata.
Mentre scrivo queste righe, la performance dell’artista argentino è tornata al centro della memoria collettiva: la mattina del 28 maggio le acque sotto il ponte di Rialto si sono tinte nuovamente di verde fluorescente. Nessuna rivendicazione per ora, né alcuna certezza su come sia potuto accadere, se non la conferma che a essere stata utilizzata è, ancora una volta, la fluoresceina sodica. Le prime accuse sono state rivolte agli attivisti di Ultima Generazione, che proprio la domenica precedente avevano gettato del liquido nero nella fontana di Trevi. È interessante notare come il reenactment di questa azione porti con sé un spostamento radicale nell’immaginario collettivo: la possibilità che degli attivisti climatici possano impiegare dei luoghi nevralgici della città come strumenti di espressione è ormai diventata parte della nostra quotidianità. Senza togliere l’elemento di stupore che accompagna queste azioni, la possibilità di far riferimento a un comune denominatore – “Ultima Generazione” – permette di risignificare e riposizionare l’intera vicenda all’interno di un contenitore semantico che, progressivamente, si sta rendendo sempre più familiare.
Più difficile è notare i mutamenti del panorama che stanno avvenendo dietro la vetrina, come l’arrivo e il diffondersi di specie aliene che minacciano l’ecosistema della laguna o l’isola di plastica che è affiorata nei pressi di Torcello.
In un passaggio del suo ultimo testo, Ecopessimismo. Sentieri nell’antropocene futuro (Piano B, 2023), Claudio Kulesko esamina la radice antropica della nozione di paesaggio. La facoltà primitiva di sapere distinguere in modo irriflesso se un ambiente presenta delle minacce può portare al riconoscimento di una certa oggettività e autonomia dei paesaggi. In effetti, come sottolinea Kulesko stesso, ancora oggi la scarsità di illuminazione in un posto abbandonato e privo di elementi umani provoca timori ancestrali. In questo senso, la proliferazione di aree urbanizzate, e la disseminazione di tracce antropiche, ha giocato un importante ruolo nel rendere queste antiche paure delle esperienze sempre più esotiche e rare.
È all’interno di questa cornice interpretativa che dobbiamo fare i conti con quelle che sono le minacce e le conseguenze di quel grande quanto problematico denominatore comune che passa sotto il nome di Antropocene. La moltiplicazione di saggi, articoli, documentari e operazioni artistiche che si sono prodotte dopo la diffusione di questo termine ha avuto come risultato un livello tale di saturazione da dare l’impressione di una ripetizione eterna degli stessi principi. Ogni lavoro che si rispetti su questa tema sembra infatti possedere tre ingredienti principali: il riconoscimento di un punto di non ritorno e, dunque, le ragioni che hanno portato a questa situazione; la difficoltà di ascrivere allo stesso termine i diversi effetti dislocati temporalmente e spazialmente; l’origine di questo processo, a cui, volendo, segue la nascita di una variante del concetto di Antropocene.
Nonostante se ne parli molto, l’impressione è quella di risultare cognitivamente impreparati di fronte alle sue conseguenze. Come se a forza di esorcizzare il trauma rendendolo esplicito fosse diventato più difficile prepararsi psicologicamente alle sue manifestazioni. È per questo motivo che risulta interessante osservare il modo in cui il termine Antropocene, con le sue differenti declinazioni, rischi nei casi peggiori di funzionare da parola di sicurezza, un insieme complesso di argomentazioni che permette, momentaneamente, di ritagliarsi uno spazio sicuro nel vortice degli avvenimenti. In questo scarto il significante Antropocene sembra perdere di consistenza, assumendo i connotati di un “diorama”.
Divenuti popolari a partire dalla metà del XIX secolo, i diorami sono rappresentazioni minuziose e in scala ridotta di un’ambientazione, di avvenimenti storici o, più comunemente, habitat naturali. Impiegati sin dalle origini nei musei per riprodurre didatticamente scene e dettagli naturalistici, i diorami più affascinanti erano dotati di piante, sfondi dipinti e, soprattutto, animali tassidermizzati. Negli stessi anni il botanico inglese Nathaniel Bagshaw Ward realizzava il primo prototipo di terrarium, denominato Wardian case, la “cassa di Ward”. Ward aveva concretizzato il sogno colonialista di possedere nel proprio salotto delle piante tropicali scoprendo che, con la giusta quantità di umidità, era possibile far germogliare e mantenere in vita una pianta in un vaso di vetro chiuso. Oltre a uno scopo scientifico, diorami e terrarium rispondevano all’idea romantica di natura incontaminata.
Tra gli esempi più noti di diorama troviamo infatti i lavori di Frank Chapman, creati con l’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della protezione dell’ambiente. Come spiega lo storico dell’arte Giovanni Aloi in Speculative Taxidermy (2018), Chapman lavorava alla sezione di ornitologia del Museum of Natural History di New York a inizio Novecento, quando ebbe l’idea di realizzare una serie di diorami contenenti uccelli tassidermizzati allo scopo di impressionare e toccare le corde emotive dell’opinione pubblica. L’impeccabile illuminazione, lo sfondo riccamente dettagliato, le pose realistiche degli animali e le piante artificiali, tutto concorreva a creare scenari tridimensionali che rappresentavano dei perfetti esempi di eden terrestre. Questa messa in scena funzionò realmente: fu in parte anche grazie all’impressione che gli fecero questi lavori che nel 1903 Theodore Roosevelt trasformò Pelican Island, situata nello stato della Florida, nella prima riserva ornitologica federale, dando vita al Pelican Island National Wildlife Refuge.
La possibilità che degli attivisti climatici possano impiegare dei luoghi nevralgici della città come strumenti di espressione è ormai diventata parte della nostra quotidianità.
Una caratteristica che accomuna i primi modelli di diorama è la volontà di fotografare una natura statica, immobilizzata in un perfetto stato di conservazione. È in questo senso che, nei modi in cui l’arte contemporanea intende rispondere ai cambiamenti climatici, l’immagine dell’Antropocene appare sempre più come un esteso diorama: un luogo nel quale si possono ancora percepire delle minacce ma, come gli animali tassidermizzati in pose aggressive, queste minacce sono mantenute a distanza, fuori dal perimetro cognitivo che potrebbe far suonare il campanello d’allarme legato alla propria sopravvivenza.
Il diorama Landfill dell’artista americano Mark Dion rappresenta bene questa dimensione anestetizzante dell’Antropocene: nel suo lavoro i gabbiani tassidermizzati sono immersi in un ambiente fatto di pile di rifiuti e scarti di plastica. Ma mentre Dion mirava a sovvertire, con ironia postmoderna, la visione mitizzata della natura propagandata dai diorami, l’immagine di un diorama Antropocene, nella sua rappresentazione cognitiva del paesaggio e della sua dinamica, crea contemporaneamente una sensazione di distacco e cristallizzazione. Per osservare questa discrepanza può essere utile mettere in relazione le recenti strategie impiegate dagli attivisti climatici con alcune riflessioni teoriche che, da diverse prospettive, hanno affrontato queste problematiche.
Nel suo saggio Il clima della storia: quattro tesi (2021), Dipesh Chakrabarty evidenzia come gli storici del XX secolo abbiano giustificato la separazione tra la storia umana e la storia della natura basandosi sulla lentezza con cui quest’ultima si sviluppava. Nonostante l’ambiente manifestasse una dinamicità intrinseca, i suoi cambiamenti si verificavano con una temporalità così distante da quella degli avvenimenti umani da suggerire l’idea che tali trasformazioni avvenissero in un contesto atemporale. A partire da questa osservazione, lo storico indiano riassume uno degli assunti principali dell’Antropocene, ossia la difficoltà nel comprendere il momento in cui la distinzione tra storia naturale e storia umana ha iniziato a dissolversi:
Gli umani sono agenti biologici sia collettivamente che individualmente. Lo sono sempre stati. […] Ma possiamo diventare agenti geologici solo storicamente e collettivamente, quando cioè abbiamo raggiunto numeri e inventato tecnologie che hanno una scala abbastanza grande da avere un impatto sul pianeta stesso. […] Gli esseri umani hanno cominciato ad avere tale potenza solo a partire dalla Rivoluzione industriale, ma il processo ha avuto un’accelerazione nella seconda metà del XX secolo: gli esseri umani sono diventati agenti geologici in tempi molto recenti. In questo senso possiamo dire che la distinzione tra la storia umana e quella naturale […] ha iniziato a entrare in crisi solo di recente.
Torniamo all’azione di Uriburu, lo sversamento di fluoresceina sodica nelle acque di Venezia: anche se si sta diffondendo un senso di abitudine a questo genere di azioni dimostrative messe in atto dagli attivisti climatici, permane ancora una forte sensazione di stranezza. La macchia verde sgretola la fragile vetrina estetica che ricopre Venezia per mostrare un pericolo proveniente dall’ambiente stesso. Il paesaggio dietro il diorama torna a fermentare, in uno strano miscuglio di stupore e inquietudine. Subito, tuttavia, la significazione dell’accaduto si ricompone, ricostruendo un barlume di normalità: è un’azione dimostrativa, è una performance artistica, è una metafora, non è il cambiamento climatico. I vetri del diorama sono ancora intatti.
Chakrabarty riassume uno degli assunti principali dell’Antropocene, ossia la difficoltà nel comprendere il momento in cui la distinzione tra storia naturale e storia umana ha iniziato a dissolversi.
Si prenda un altro esempio recente: il 17 maggio scorso alcuni attivisti di Ultima Generazione hanno gettato della vernice lavabile sulla facciata esterna di Palazzo Vecchio a Firenze. La reazione del sindaco della città Dario Nardella, che per puro caso si trovava nelle vicinanze, ha dato un tocco scenografico all’intera vicenda. La corsa disperata del sindaco, il modo con cui ha placcato l’attivista e il suo sostegno ai pompieri nel lavare la vernice, rappresentavano dei frame talmente perfetti che non avevano neppure bisogno di essere rimaneggiati nella proliferazione di meme avvenuta subito dopo l’accadimento, proliferazione che è tuttavia anche sintomo di una discordia tra prospettive. Esagerando la drammaticità delle espressioni e delle reazioni del sindaco, i meme hanno subito preso posizione, usando Nardella come portavoce di coloro che vedono queste azioni come degli attacchi insensati al patrimonio culturale. Come scrive il critico dell’arte Boris Groys in Art Power (2013), riprendendo le teorie sul carnevale di Bachtin, l’ironia memetica porta con sé una gioia iconoclasta:
Bachtin descrive il carnevale come una celebrazione iconoclasta che emanava un’aura di gioia al posto del sentimento serio, emotivo o rivoluzionario; invece di sostituire le icone violate del vecchio ordine con le icone di un qualche nuovo ordine, il carnevale invitava a godersi la caduta dello status quo.
Questa gioia deriva dalla consapevolezza di aver colpito un punto cruciale dell’immaginario collettivo, ed è proprio questo uno dei motivi che spiegano il senso di fastidio che tali azioni possono suscitare. Gli attivisti di Ultima Generazione si muovono come creature sull’orlo dell’estinzione, rivelando con i propri corpi che il tempo delle discussioni e dei ripensamenti è giunto al termine: le loro dimostrazioni sembrano indicare che l’unico strumento ancora effettivo per rompere il diorama è lo sconcerto. Il nocciolo problematico risiede però nella differente causa di sconcerto: per quanto possa sembrare ovvio, vale la pena sottolineare che in questo caso il panico, la sensazione di scandalo, è dettata dalla paura che queste azioni – pur innocue e non dannose – deturpino opere d’arte e oggetti culturali irrecuperabili.
A prevalere è ancora un diffuso senso di smarrimento: lo stesso sindaco Nardella, reagendo a caldo all’azione dimostrativa degli attivisti, ha affermato di essere preoccupato per le sorti del pianeta tanto quanto lo sono in Ultima Generazione, sottolineando tuttavia che i loro mezzi di dissenso risultano eccessivi in un contesto – la città di Firenze – in cui si sta già facendo molto per la causa ambientale. Ma allora se siamo tutti d’accordo, perché permane questo senso di immobilità? Perché la rabbia e il fastidio servono solo ad alimentare discussioni e conversazioni che deviano l’attenzione dai problemi principali? Una risposta parziale a questi interrogativi si può trovare in Clima corona capitalismo di Andreas Malm (2021). Malm indaga le ragioni per cui, di fronte all’esplosione di SARS-CoV-2, abbiamo assistito a una reazione collettiva da parte dei governi e delle istituzioni nazionali, mentre di fronte al diorama dei cambiamenti climatici permane l’immobilità. Scartate le ipotesi più astratte o negazioniste – “l’irrealtà della crisi climatica, il suo carattere relativamente benigno, o l’incertezza, intangibilità, complessità, distanza delle sue prime linee” – Malm suggerisce una risposta solo apparentemente cinica, ossia la differente cronologia vittimaria:
Immaginiamo una cronologia vittimaria controfattuale, più simile alla crisi climatica; che cioè il Covid-19 sia saltato dall’Iran all’Iraq nel febbraio 2020, abbia ucciso, diciamo, duemila persona a Bassora e Baghdad […] e che nel contempo, a Londra, Parigi e New York, il numero dei casi sia rimasto nell’ambito delle poche centinaia. Non è una lambiccata congettura che, in tal caso, i governi del Nord globale avrebbero lasciato che il virus incrudelisse. Avrebbero predisposto pacchetti di aiuti, magari offerto un alleggerimento condizionato del debito, ma non avrebbero mai messo in quarantena il capitalismo intero.
Allo stesso tempo, è impossibile non scontrarsi con una differenza specificatamente temporale: per quanto ambiguo, il termine “graduale” occupa ancora una posizione centrale nei nostri ragionamenti quando si parla degli effetti della crisi climatica. “Il collasso climatico può esser meglio visto come uno smottamento che avanza su tutto il sistema-Terra, raccogliendo materiale e acquistando velocità”, sottolinea Malm, “e ogni volta che colpisce chi trova sul suo percorso l’impatto è tutt’altro che graduale – se per ‘graduale’ intendiamo un aumento lento, incrementale di fattori che rende difficile distinguere, in una sequenza temporale, il momento X dal momento Y”. Più questi smottamenti oscillano temporalmente e geograficamente, più sembrano avere effetti traumatici.
Le dimostrazioni di Ultima Generazione sembrano indicare che l’unico strumento ancora effettivo per rompere il diorama è lo sconcerto.
È al legame tra trauma e crisi climatica che sono dedicati alcuni saggi di Elvia Wilk contenuti in Narrazioni dell’estinzione (ADD, 2023), nei quali Wilk esamina il senso di disintegrazione e fine del mondo che accompagna questi avvenimenti in una forma di violenza lenta. Certo, obietterebbe Malm, non c’è niente di lento nell’alluvione che ha colpito l’Emilia-Romagna, nell’acqua alta che ha sommerso Venezia o nella nebbia gialla che ha coperto New York. Ma qui Wilk si riferisce a quello strano gioco di rimozione e allontanamento che la nostra coscienza mette in atto per difendersi dall’idea di un esaurimento, di una disgregazione processuale:
Letteratura, psicoanalisi e storiografia ci hanno abituati ad attenderci un finale grandioso, rivoluzione o rivelazione che sia. Ma in genere non è con un’esplosione planetaria che cambiano le cose […]. Il cambiamento riguarda piuttosto la soglia di percepibilità, il momento in cui non si può fare a meno di notare che la cometa sta già distruggendo il pianeta e lo sta facendo da tempo.
A essere messo in rilievo è un punto cruciale, ossia il momento in cui il paesaggio torna ad essere fonte di pericoli, in cui lo sfondo smette di essere un fondale neutro per rivelare la sua estraneità e inospitalità. Delimitato nei confini del diorama il paesaggio è lo spettro di una vitalità rimossa: il diorama serve come conferma che le cause del suo deperimento sono attribuibili solo a una questione di mantenimento, che la sua conservazione dipende esclusivamente da una buona gestione. Niente, tuttavia, è più inquietante di un movimento inaspettato al suo interno, di un animale imbalsamato che si sposta quando non lo guardiamo, del rigurgito delle acque mentre infrangono i loro confini.
Questa sottile soglia di percezione, che accompagna il momento in cui una serie di circostanze si impone come punto di non ritorno, è descritta da Antonio Scurati nel prologo del romanzo La seconda Mezzanotte (2011). Scurati immagina una Venezia distopica, distrutta da un mare che fagocita, con le sue onde, la città e i suoi abitanti, per poi essere ricostruita, come simulacro, da una multinazionale cinese che la trasforma in “Nova Venezia”, un parco giochi per ricchi. La scomparsa della città viene descritta in toni tutt’altro che apocalittici: una catastrofe che certamente ha il suo zenit, l’insieme di avvenimenti in cui a posteriori si può sancire un prima e un dopo, ma che rimane allo stesso tempo una “catastrofe al rallentatore”, ossia accompagnata da una serie di indizi e segnali che si sono stratificati, inascoltati, nel tempo.
Non è certamente difficile immaginare che il collasso delle città dell’alto Adriatico avverrà per merito dell’innalzamento dei mari. “Qualcuno aveva scritto nel 2000 che la forma di Venezia vista dall’alto era quella di un pesce, anzi che Venezia era proprio un pesce. Era normale che a un certo punto tornasse a nuotare nel suo elemento”, commenta con cinica ironia la guida al centro della visita nella Venezia del 2786 descritta da Telmo Pievani e Mauro Varotto nel loro Viaggio nell’Italia dell’Antropocene (2021). Più difficile è notare i mutamenti del panorama che stanno avvenendo dietro la vetrina, come l’arrivo e il diffondersi di specie aliene che minacciano l’ecosistema della laguna o l’isola di plastica che è affiorata nei pressi di Torcello.
Il diorama serve come conferma che le cause del suo deperimento sono attribuibili solo a una questione di mantenimento, che la sua conservazione dipende esclusivamente da una buona gestione.
In Ecopessimismo Kulesko descrive una prospettiva che si potrebbe definire come un eccezionalismo antropico ridotto ai minimi termini. Remando in senso contrario ai tentativi teorici di abolire del tutto le distinzioni fra naturale e culturale, Kulesko sottolinea l’importanza di sostenere una “naturalità” degli ambienti selvaggi come metro di paragone, come discrimine grazie al quale è possibile comprendere il livello di danneggiamento che è stato arrecato dalle attività antropiche. Questo uso generico del termine natura porta con sé una proliferazione quasi automatica di obiezioni.
In effetti, sostenere anche solo un margine di distinzione fra l’agency umana e l’impatto che possono avere sul cambiamento climatico gli enti non-umani, in un orizzonte teorico che fino a poco fa era saturo di object-oriented ontology, realismo speculativo e materialismo trascendentale, suona certamente come una provocazione. Un tentativo di ripristinare una verticalità dopo duri sforzi di livellamento ontologico ed epistemologico. L’invito di Kulesko va recepito dunque in modo differente. Può certo essere inteso come un diverso approccio filosofico agli effetti della crisi climatica, ma è forse più utile leggerlo come un manuale di strategia per quando il diorama Antropocene imploderà:
Per poter guardare dritto in faccia la catastrofe ambientale, è necessario affrontare il trauma del ritorno della natura, e rendersi pienamente coscienti di come le radici di tale trauma affondino a tal punto nei nostri corpi e nelle nostre menti, da stravolgere del tutto la nostra capacità di reagire e pensare lucidamente.
Vivere nel costante panico da fine mondo, intrappolati nell’eco-ansia che deriva dall’identificarsi completamente con la crisi climatica, può portare gradualmente a un senso di annientamento. L’impressione è che l’unica via rimasta di fronte all’aggravarsi delle condizioni ambientali sia accettare serenamente la catastrofe, come avviene nella tappa terminale delle note cinque fasi del lutto. Finché le condizioni lo consentono, è però tra i margini nebulosi che legano sfondo e figura che si possono svolgere battaglie importanti.
C’è poca fiducia che l’interruzione della quotidianità con azioni scenografiche possa provocare cambiamenti strutturali: il timore è che porti piuttosto a un’escalation di discussioni distorte, alimentate dalla congestione dei sistemi di comunicazione, in cui la vera posta in gioco rischia di essere completamente persa di vista. Quantomeno, le proteste di Ultima Generazione e degli altri gruppi neo-ambientalisti hanno il grande merito di evidenziare che il paradigma umanitario capitalistico, nel quale le responsabilità dei cambiamenti climatici sono riversate direttamente sulle scelte individuali, sia ormai giunto al capolinea. Se l’unica risposta delle istituzioni di fronte alle manifestazioni di Ultima Generazione è rimandare a una discussione senza fine, è evidente che il meccanismo si è inceppato.
Vestendo i panni della guida, il modello filantropico ci accompagna di fronte al grande diorama dell’Antropocene. Prima di procedere ci viene ricordato quanta plastica consumiamo quotidianamente, e quanto importante sia separare adeguatamente i rifiuti. Ci incoraggia ad adottare abitudini di consumo più sostenibili, demonizzando chi sottovaluta l’impatto che può avere il nostro impegno collettivo. Riprendendo l’intuizione di Chapman, spera ancora di fare presa sui sensi di colpa e sull’empatia dei visitatori. D’altronde, è soltanto giocando sulle emozioni di chi osserva che può ancora sembrare sensato un invito depoliticizzato e rivolto a un’umanità generica, affinché si assuma le proprie responsabilità attraverso scelte personali appropriate. Forse, come suggerisce Malm, è giunto il momento di far saltare l’intero diorama.