L
a vita di Michel Leiris s’intreccia alla storia del Novecento come un romanzo. Frammenti di questa narrazione li ha forniti lo stesso Leiris nei suoi libri, dal capolavoro giovanile L’Africa fantasma, diario etnografico destinato a aprire una crepa nella disciplina, alle opere apertamente autobiografiche Età d’uomo e La regola del gioco. Ma per capire meglio la sua figura e l’importanza delle sue idee, in particolare la sua riflessione sul senso dell’etnologia, c’è bisogno di uno sguardo da fuori, che mostri i suoi rapporti con i grandi eventi del suo tempo, in cui la colonizzazione francese volgeva al termine e il rapporto drammatico di sottomissione e fascinazione rispetto ai popoli colonizzati era un tema ardente nella vita culturale europea. Un buon punto di partenza per ripensare a queste vicende lo fornisce oggi la biografia intellettuale di Renzo Guolo, Michel Leiris etnologo. Un terreno di lacerazione (Meltemi), che intreccia una ricca documentazione sull’opera e il pensiero etnologico di Leiris con i grandi eventi a cui egli partecipò: le avanguardie, la Grande Guerra, l’occupazione nazista, il progetto comunista, la decolonizzazione.
Risalendo alla formazione di Leiris s’incontra subito una circostanza decisiva: poesia e letteratura precedono l’impegno etnografico, che poi diventerà il suo campo professionale, facendo di lui una figura mai perfettamente integrata nel contesto istituzionale e accademico. Da qui proverranno le sue posizioni critiche e talvolta conflittuali rispetto all’etnologia, che col tempo sono apparse sempre più importanti. Ma sono appunto surrealismo e letteratura i luoghi di partenza di questo itinerario. L’indagine sul sogno e la sessualità, legata all’interesse per la psicoanalisi, sarà fin dall’inizio cruciale e vissuta in prima persona da Leiris, sempre tormentato da fragilità psichiche e erotismo tortuoso, ben prima che queste inquietudini, dopo un tentativo di fuggire dall’Europa, si riflettessero nell’Africa – un’Africa reale, che risulterà diversa da quella di tanti poeti e intellettuali precedenti che l’avevano già immaginata come “Africa interiore”, terra dell’inconscio. Anche la formazione politica dipende dal surrealismo, che in quegli anni esprime (con molte divisioni interne) una visione socialista o comunista in aperto conflitto con l’ideologia conservatrice della Francia imperiale, attaccando la mentalità borghese e il razzismo implicito nella rappresentazione dei “selvaggi” africani.
L’opera e il pensiero etnologico di Leiris rispecchiano i grandi eventi a cui egli partecipò: le avanguardie, la Grande Guerra, l’occupazione nazista, il progetto comunista, la decolonizzazione.
Un’educazione estetica e politica precede dunque la partecipazione di Leiris alla storica missione etnografica Dakar-Gibuti, partita nel 1931 sotto la guida di Marcel Griaule, che avrebbe dovuto rilanciare il prestigio dei musei francesi e il valore della conoscenza etnologica. Prima di andare in Africa, Leiris ha letto Conrad, e tornerà sui suoi libri, finendo perfino con l’abbozzare un romanzo “conradiano” sulla via del ritorno. Cuore di tenebra, con la sua denuncia della violenta depravazione psichica prodotta dalla colonizzazione, gli servirà, più dei saggi etnologici di maestri come Marcel Mauss, per coltivare un disagio nei rapporti con gli abitanti locali e riguardo ai metodi dell’etnografia. Si tratta di una disciplina che, all’insegna della scientificità e della documentazione, depreda le popolazioni di oggetti sacri servendosi del denaro o del furto. Questi lati saranno denunciati nell’Africa fantasma, pubblicato nel 1934, che porterà alla rottura con Griaule.
Ma le premesse di questi futuri contrasti si trovano già in lettere e testimonianze sui primi mesi di quella missione. Griaule teorizzava un’etnografia oggettiva, fondata su “un’osservazione plurale” suddivisa tra i diversi ricercatori, in cui il punto di vista individuale doveva scomparire e i risultati dell’indagine dovevano essere depositati in schede da condividere con gli altri studiosi. Questa esclusione della relazione personale presupponeva anche un atteggiamento di aperta sfiducia nei confronti degli informatori, rispetto a cui Griaule presentava l’etnografo come un “giudice istruttore”, che ha l’obiettivo di catturare segreti solitamente custoditi e tramandati oralmente. Griaule, in tal modo, replicava inconsapevolmente il modello degli inquisitori cristiani del passato, senza mettere in gioco i presupposti ideologici suoi e della sua missione.
Leiris, al contrario, avverte subito i limiti di questo metodo, e tende a cercare una relazione, perfino un’integrazione nei gruppi di persone locali. Il culmine di questa ricerca sarà il lungo soggiorno con i posseduti dagli zar, alla periferia di Gondar in Abissinia (l’attuale Etiopia), dove Leiris parteciperà a cerimonie notturne, ricavandone una coscienza ancora più forte dei risvolti oscuri dell’etnografia. “Non posso sopportare l’inchiesta metodica. Ho bisogno di immergermi nel loro dramma, di toccare il loro modo di essere, di bagnarmi nella loro carne viva. Al diavolo l’etnografia”. Dichiarerà che avrebbe “preferito essere posseduto piuttosto che studiare i posseduti”. Nutrirà la “folle speranza” di un contatto umano, soffrirà il senso di esclusione per il fatto di sentirsi incapace di “esplorare fino in fondo” queste esperienze e “lasciarsi andare […] in primo luogo per questioni di pelle, di civiltà, di lingua”. Desidererà Emayawish, figlia della sacerdotessa Malkam Ayyahu, tentando approcci stentati e infruttuosi. Continuerà a riflettere su questa fase della sua vita, in cui quella gente era stata per lui famiglia.
Lo attraggono il sacro e l’esperienza di diventare altro, che paragonerà a una forma di teatro. Al tempo stesso, respinge l’idea che l’essere posseduti debba comportare una licenza morale, una perdita di responsabilità morale.
Partito per l’insofferenza verso la Francia, ci tornerà senza mai sentirsi pienamente rasserenato. La pubblicazione dell’Africa fantasma apre una spaccatura nell’etnografia. Leiris difende il ruolo della soggettività, in una lezione di metodo che conserva un vivo interesse: “È esibendo il coefficiente personale alla luce del giorno che è possibile valutare l’errore; è portando la soggettività ai suoi estremi che si raggiunge l’oggettività”.
Grazie al suo indiscutibile lavoro di documentazione, comunque, Leiris diverrà impiegato del Musée de l’Homme e direttore di una collana di libri etnologici per Gallimard, mantenendo senza compromessi la sua libertà intellettuale attraverso l’occupazione tedesca. I suoi lavori sulla possessione e il sacro esprimono posizioni sempre critiche e problematiche. Lo attraggono il sacro e l’esperienza di diventare altro, che paragonerà a una forma di teatro. Al tempo stesso, respinge l’idea che l’essere posseduti debba comportare una licenza, una perdita di responsabilità morale. Il ritorno incondizionato al magico e al mito, nonostante la fascinazione, non saranno mai opzioni praticabili per Leiris, che perciò si scontrerà con un altro suo interlocutore privilegiato e amico, Georges Bataille, quando questo si metterà a teorizzare una nuova mitologia popolare di sinistra.
Negli anni Cinquanta, Leiris tornerà sulla possessione accompagnando a Haiti l’etnologo Alfred Métreaux, con cui troverà una profonda convergenza ideale. Quest’ultimo, scrivendo del voodoo haitiano, parlerà di una “commedia rituale”, in cui i posseduti trovano un riscatto transitorio dalle loro condizioni di miseria e marginalità. Erano tesi elaborate nello stesso tempo anche da Leiris, che riusciva a vedere quell’ambivalente atteggiamento di credulità e scaltrezza dei posseduti perché lo aveva già conosciuto in Etiopia, dichiarando la sua simpatia per le possedute: “Amo perfino la falsità della possessione di quelle care ragazze che introducono un po’ di fantasia chiassosa nella loro vita, sfuggono ai mariti e, grazie alla virtú dei santi spiriti, si levano fino all’irreale che fa dimenticare la stupida oppressione quotidiana”.
Il riconoscimento del coinvolgimento dell’etnografo, con le tentazioni offerte dal suo status, anticipava una questione che si sarebbe riproposta solo molti anni dopo, nel 1967, con la pubblicazione dei diari di Bronislaw Malinowski, in cui si rivelavano i pensieri morbosi, i desideri e i pregiudizi verso gli indigeni del grande etnografo, e poi con altre controversie come quella sugli Yanomami amazzonici e il comportamento dei loro etnologi. Per ironia, la stessa oggettività del compagno di viaggio e avversario accademico Griaule, in seguito, sarebbe stata messa in dubbio quando il racconto mitologico che questi avrebbe ripreso dal saggio dogon Ogotemmeli è stato presentato come una testimonianza individuale priva di riscontri. Così, come più volte riconosciuto da antropologi come Clifford Geertz e James Clifford, lo sguardo di Leiris, proprio perché mai del tutto solidale alla disciplina, è risultato col tempo prezioso e lungimirante.
Torniamo indietro agli anni della Guerra: Leiris trascorre un periodo in Algeria e matura la sua esplicita posizione anticolonialista. Questo lo porterà, tornato a Parigi, a osteggiare apertamente la Guerra in Algeria, e a denunciare l’intreccio di razzismo e etnologia. Come sosterrà nella relazione “L’etnografo di fronte al colonialismo” del 1950, parlando di fronte a colleghi del calibro di Claude Lèvi-Strauss, gli etnologi che hanno il compito di “comprendere le società colonizzate” devono anche farsi “avvocati naturali di fronte alla nazione colonizzatrice” a cui appartengono. Aggiunge un’osservazione di grande importanza: “molti etnografi […] sperano di vedere le culture di cui si sono occupati trasformarsi il meno possibile […] La volontà di conservare i particolarismi culturali di una società colonizzata non ha più alcun significato, poiché equivale al tentativo di opporsi alla vita stessa della cultura”.
Leiris finiva col teorizzare una visione dell’etnografia che non si doveva concentrare solo sulle aree rurali, ma doveva puntare alle città, luoghi d’incontro e di una messa in gioco di stili di vita che riguarda tanto gli “indigeni” quanto i discendenti dei colonizzatori.
Si tratta, ancora una volta, di una posizione che non ha perduto nulla della sua attualità: vale in generale per il rapporto (soprattutto ideale) dei cittadini delle società industriali con le culture “primitive”, e vale in particolare rispetto a un’etnologia francese (e non solo) che continua talvolta – penso a alcuni lavori di Philippe Descola e di Eduardo Viveiros de Castro – a mantenere una problematica rivalutazione dell’animismo rispetto alle culture occidentali con le loro scienze, come se animismo e razionalità scientifica fossero prerogative di popoli diversi che nessuna storia può modificare, nonostante il fatto che gli ex-popoli colonizzati da tempo acquisiscono con interesse conoscenze e tecnologie di origine occidentale, e come se i cittadini del cosiddetto occidente fossero convinti sostenitori di una visione scientifica del mondo, estranei a animismo e magia.
Così Leiris finiva col teorizzare una visione dell’etnografia che non si doveva concentrare solo sulle aree rurali, ma doveva puntare alle città, luoghi d’incontro e di una messa in gioco di stili di vita che riguarda tanto gli “indigeni” quanto i discendenti dei colonizzatori. Ecco anticipata l’etnografia di sé stessi e degli spazi urbani che, insieme all’autocritica narrativa dell’etnografo, diverrà tema cruciale della disciplina nella seconda metà del Novecento.
Tanto è stato il riconoscimento internazionale; ma com’è arrivata in Italia l’opera di Leiris? La biografia di Guolo colma una lacuna in una ricezione che è stata complessivamente tardiva. Leiris è stato tradotto prima come scrittore e poeta, con il particolare impegno del francesista Guido Neri, come se il conflitto disciplinare in Francia ne avesse colpito efficacemente la ricezione italiana. L’Africa fantasma è tradotta soltanto negli anni Ottanta, con un’introduzione di Neri. La nuova edizione italiana, uscita nel 2020, è corredata per la prima volta di un (ottimo) saggio di un’africanista, la curatrice del volume Barbara Fiore. Siamo però a circa un secolo dalle edizioni originali.
Che Leiris etnologo sia stato trascurato sul piano editoriale, ma al tempo stesso abbia agito nel pensiero antropologico italiano si può desumere dal caso di Ernesto de Martino. Come ricorda Guolo, Leiris propose di far tradurre alcune opere di De Martino, Sud e Magia e la Terra del rimorso, poco dopo la loro pubblicazione negli anni Sessanta. De Martino, invece, non aveva pensato a Leiris quando si era impegnato con Cesare Pavese a programmare la Collana viola Einaudi (collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici). Incluse altri etnologi francesi, come Mauss e Lévy-Bruhl. Forse Leiris era troppo vicino, forse L’Africa fantasma risultava un libro ancora troppo complesso per un contesto in cui la cultura etnologica andava formata dalle basi.
Comunque de Martino lo lesse e ne fu influenzato. Nella Terra del rimorso (1961), considerò l’importanza di comparare il tarantismo pugliese, che era oggetto del suo studio, con culti africani “strutturalmente affini” come zar e bori, in un’area culturale che va dall’Etiopia (zar) alla Nigeria (bori), e propose di prendere in considerazione anche l’area dei culti afro-americani – macumba, condomblé, santeria, vodu – che dipendevano storicamente dalla traslazione e rielaborazione di tradizioni africane. Per l’allargamento di campo all’Africa, de Martino si riferiva a uno studio di Henri Jeanmaire, Dioniso (1951), che a sua volta leggeva gli antichi riti dionisiaci con l’aiuto del diario etnografico africano di Leiris, dove quest’ultimo, per esempio, aveva paragonato le cerimonie dei dogon a una “sfrenata processione di coribanti”. Quanto al vodu, il riferimento era allo studio di Alfred Métreaux e alle idee che questi aveva condiviso con Leiris.
L’importanza della prospettiva culturale del soggetto, che condiziona lo sguardo anche quando si mira a allontanarsi dalla propria origine e si rinuncia al pregiudizio di superiorità, era il tema del Leiris etnografo-scrittore.
Il fatto che de Martino conoscesse e meditasse sui lavori di Leiris, qui documentato, risulta anche da diversi temi. La critica della razionalità europea, che non ha avuto la capacità di comprendere fino in fondo la dimensione psicologico-esistenziale del magico e del mito, e pertanto non è riuscita nell’”esorcismo” del nazismo, è un tema demartiniano il cui possibile debito rispetto a Leiris andrebbe approfondito. Ancora: quando de Martino rivalutava la funzione sociale e psicologica del tarantismo pugliese, vero e proprio culto di possessione travestito dal sincretismo, ricalcava idee che – come ricorda Guolo nel suo libro – Leiris aveva espresso già nel 1948 a proposito del vodu: il rito di possessione sarebbe uno strumento che consente ai diseredati di “muoversi come un dio, trasfigurarsi e diventare perno dell’attenzione e della sollecitudine di tutti, prendere un po’ la rivincita sulla durezza della propria sorte”.
Un altro tema comune era l’impossibilità di diventare altro, che de Martino elaborerà nell’ultima fase del suo pensiero con “l’etnocentrismo critico”, cioè la tesi – alternativa al relativismo – secondo cui nel confronto culturale non possiamo non far uso delle categorie associate alla nostra appartenenza culturale originaria e alla nostra tradizione. Proprio questa importanza della prospettiva culturale del soggetto, che condiziona lo sguardo anche quando si mira a allontanarsi dalla propria origine e si rinuncia al pregiudizio di superiorità, era il tema del Leiris etnografo-scrittore: il punto di quella lacerazione di cui egli ha lasciato un’analisi esemplare, capace di applicarsi a tante altre vicende contemporanee.