T ra i grandi chitarristi sperimentali americani, Marc Ribot è sempre stato il più simpatico, grazie a una sorta di pentapartito no wave/ jazz/alt country/world/rock tutto suo, che gli ha permesso di registrare con Tom Waits e John Zorn, Elvis Costello ma pure i Black Keys, Caetano Veloso e Marianne Faithfull, e di proporre la sua duttile ma diabolica chitarra a forme musicali di tutto il mondo. Siccome girare in tour può essere un’esperienza ottundente, invece di approfondire, ci ha spiegato, il vizio dell’eroina, Ribot ha passato tanto tempo a scrivere, e Sur pubblica in Italia la sua raccolta di scritti che in America è uscita dall’editore super indipendente e combattivo Akashic Books.
È un libro di scritti sparsi, di racconti lunghi biografici o fantastici, di necrologi e osservazioni sulla chitarra o sul poliritmo, di rivendicazioni sindacali e inviti alla resistenza. C’è tanto Lower East Side newyorkese – a spasso con figure leggendarie come Robert Quine – e tante disavventure da tour.
Andiamo a incontrarlo in un anonimo albergo quattro stelle romano, di quelli che sembrano progettati dall’AI. Cominciamo chiedendogli di parlare del suono di chitarra. Dalle intermittenze di Requiem for What’s His Name allo scherzo impassibile di Los Cubanos Postizos (con cui trollò Ry Cooder e l’impresa melensa di Buena Vista Social Club), ai recenti abbracci spinosi con Mary Halverston e Elliot Sharp, e ai Ceramic Dogs, con cui è passato a suonare in Italia quest’estate, Ribot ha sempre dimostrato di sapere un paio di cose su chitarra e chitarristi che i suoi colleghi di solito o non capiscono o cercano di nascondere: la chitarra, secondo lui, è “un’intelaiatura per fragili pezzetti di metallo le cui vibrazioni si spengono in fretta”.
Se la distorsione discreta è come il make-up, la distorsione pesante, uniforme, di quei chitarristi… costituisce una forma di ritocco. E questo vale soprattutto quando la si adopera insieme a quegli elaborati riverberi ed echi da grandi ambienti che avvolgono ogni sputo amplificato di una garage band nell’atmosfera immaginaria della stazione centrale di Milano. L’equivalente sonoro dell’architettura fascista. L’effetto (e forse lo scopo) è quello di eliminare le piccole imperfezioni e le sbavature che sbugiardano la levatura divina del guitar hero…
I chitarristi “combattono questa morte, questa caduta logaritmica verso il silenzio, e può darsi che la sua presenza implicita in ogni nota sia la ragione per cui le chitarre (più degli archi e dei fiati, che consentono di tenere le note a piacimento) sono da sempre associate alla tristezza e alla disperazione”.
Questa esilarante e acuta forma di autocoscienza per chitarristi vale da sola la lettura del libro, che però è tutto scritto su questi livelli. In albergo gli spieghiamo che siamo qui perché condividiamo da venticinque anni l’amore per la sua chitarra, e lui risponde: “Se non muori poi puoi dire cose come Ho visto un tuo concerto venticinque anni fa… Se non sei morto venticinque anni dopo, vuol dire che sei vivo”.
Francesco Pacifico: Questa è una cosa che fai sempre nel libro. Ci sono tante storie piccole e grandi dove la gente muore molto all’improvviso alla fine della storia. Dà molta profondità ai temi.
Marc Ribot: È un modo cheap di finire una storia, non me ne vengono altri.
FP: Volevamo chiederti del passaggio sulla debolezza del suono di chitarra. Tu la affronti suonando per strappi, spurts, e la tua scrittura fa la stessa cosa, non crei una texture, ma tante intuizioni, spurts e tagli, vaghi alla ricerca di immagini e metafore.
MR: Come diceva Richard Hell, Love hurts / it comes in spurts…
FP: Pensavo a lui.
Tito Malfatti: Ho sempre la sensazione, ascoltandoti, che tu sei consapevole che le chitarre sono molto disponibili e user friendly ma suonano male. Il problema del chitarrista è come combattere quella limitazione. Tu la accetti, invece, e la usi come medium e non come limitazione. E ci ha colpito vedere che lo pensi razionalmente.
MR: Suona male…
TM: Tu usi questo fatto che la chitarra suona male.
MR: Mi interessava dire che la chitarra suona corta. Col sax, cominci piano e poi puoi allungare, con la respirazione circolare puoi fare una nota che dura tutta la notte. La chitarra ha questa limitazione che ne fa ciò che è. Ma non è che ogni chitarra suona male. La classica nel flamenco, per esempio…
FP: Ma sono intrinsecamente scordate, impossibili da accordare.
MR: Sì, spesso è vero, ma le chitarre sono più accordabili di altri strumenti. Se fai il bending a una nota, nel blues, trovi la nota perfetta, gli armonici giusti, esci dalla scala temperata, che è un compromesso.
FP: E lo fai sforzando la nota.
MR: C’è grande contraddizione. Le chitarre sono spesso scordate. Ma la sola ragione per cui non voglio dire che sono d’accordo con l’idea che suonino “male” è che sto per fare un concerto a Gorizia con Anna Garano e lei è sempre accordata, è incredibile. Grazie alle espressioni facciali che mi fa quando suono, ho scoperto che io non sono sempre accordato. Lei si concentra sulla bellezza dello strumento, quando suona usa molto gli spazi, fa cose molto liriche, quindi la chitarra sa suonare in modo molto bello. Ma la cosa che penso vogliate dire è che la chitarra ha molti limiti, e soprattutto l’elettrica. Se la senti senza amplificatore, non ha un grosso suono. E se vedi quanti amplificatori servono per farla suonare… E i chitarristi vogliono dare questa immagine di potere. Al liceo, i miei compagni che suonavano, quelli con i genitori non ricchi, amavano gli Zeppelin. E quelli di noi che prendevamo le botte, siamo diventati chitarristi elettrici. Insomma c’è una dialettica interessante tra la debolezza sociale e la debolezza delle corde e la potenza dell’amplificatore.
TM: Oggi la musica secondo te si sta allontanando da questa dialettica? Oggi la tendenza è a quantizzare, autotunare, rendere tutto perfetto… Pensi che questa estetica di debolezza sia una cosa del passato?
MR: Non lo so. Credo ci sia ancora. Il desiderio di incasinare le cose continuerà a esserci. C’è il quantizzato, ma se vedi bene si usano tanti livelli di de-quantizzazione. Puoi quantizzare e dequantizzare in tanti modi. L’imperfezione è una delle scelte che puoi far fare all’elettronica, il che in effetti è disgustoso se ci pensi… Una metafora ancora più netta per il sistema che ci controlla: puoi infondere un grado di imperfezione nella macchina.
FP: Qual è la collaborazione che hai fatto più lontana da te e dai tuoi lavori? una ricerca in cui non vedevi potenziale?
MR: Amo l’arte di registrare in studio. Anche in una situazione in cui non sono al cento percento affine all’artista che mi chiama… Se mi chiamassero artisti pop andrei subito, mi piace registrare. Amo stare in studio. Poter giocare con tutti i giocattoli che ho comprato. Poter sentire come suona una certa chitarra con un certo amplificatore. Poter vedere cosa fanno i produttori, che apparecchiature usano.
La gente pensa di sentire gli artisti, quando ascolta i dischi, ma gli artisti sono mediati dai produttori, che decidono che microfoni usare e come mixare e cosa tagliare. Ho avuto la fortuna di lavorare con grandi produttori. Tom Waits è un grande produttore. Ci sono produttori che sono bravissimi a usare le tecnologie. T Bone Burnett se ne può stare lì un giorno ad ascoltare i diversi suoni di batteria. Waits non faceva tanto caso alla tecnologia, ma era molto coraggioso… Ti dice “non lo sento, cambialo finché lo sento”; oppure se sente sbattere bene una porta ci mette un microfono e ne fa una percussione…
FP: Ho visto un video in cui parlavi con Dan Auerbach dei Black Keys e gli facevi queste domande: “quindi eravate due sul palco? E solo con la chitarra senza basso?”. Era divertente vederti fare quelle domande serie, si vedeva che lo interrogavi. Eri in studio a pensare: come fanno, loro? Si sentiva quello spirito di ricerca.
MR: Mi piace l’aspetto artigianale. Sono fortunato, di solito mi chiamano perché sanno cosa possono aspettarsi da me: una sorta di mio commento di chitarra sul disco che stanno registrando.
FP: Con Ceramic Dog sei il band leader.
MR: L’ho fondata, ma siamo un collettivo. Siamo in tre, più qualche amico. James Brendan Lewis, Oscar Noriega, Greg Lewis. C’è anche Anthony Coleman, che suona l’organo in Ruthless Cosmopolitans e Cubanos Postizos, e insegna al conservatorio del New England.
FP: Quando sei tu il capo, cosa vuoi?
MR: Io sono più che altro il sensore della band. Ho un certo ruolo di leadership ma siamo un collettivo. È una vera band. Stiamo insieme da quasi vent’anni.
FP: Nelle note di copertina alla tua antologia Songs of Resistance scrivi
Il dilemma della “giusta battaglia” – come combattere un nemico senza trasformarsi nel nemico – incombe sulle varie declinazioni dell’arte “politica” (così come la questione del rispetto della verità incombe sull’arte che sostiene di aver trasceso tutto ciò che è politico). In effetti, la canzone comunista e quella fascista condividono alcune caratteristiche musicali (gli eserciti, che combattano per cause giuste o sbagliate, hanno sempre bisogno di canzoni su cui marciare).
MR: Lì dici una cosa fantastica: che le canzoni della sinistra possiedono un elemento di tristezza e di sofferenza.
…ho notato una differenza tra le marce del fascismo e quelle dei partigiani e dei movimenti per i diritti civili: una tendenza a prendere atto dell’infelicità:
“We are soldiers in the army… We have to fight; we also have to cry” [Siamo soldati dell’esercito… Pronti a combattere; pronti anche a piangere].
“E se io muoio da partigiano, oh bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao, tu mi devi seppellire lassù in montagna, sotto l’ombra di un bel fior”.
Secondo te perché è così? È per tutte le sconfitte subite?
MR: Eheh.
FP: Anche i fascisti perdono, ma loro non ne parlano molto…
MR: Uno dei motivi per cui sono felice di essere in Italia è che ultimamente ho letto molto di storia, e tutti negli Stati Uniti, dopo Trump, parlano di Resistenza, ma nessuno sa cosa sia.
FP: La nonna di Matteo è stata nella Resistenza. Un mio nonno era fascista.
TM: Tanto era o l’una o l’altra.
MR: Be’, in ogni caso c’è una tecnologia da imparare. La resistenza è un’arte e una scienza. Pochissimi oggi, e nessuno negli Stati Uniti, sanno cosa sia. Ho letto molto di Giustizia e Libertà, e anche Ada Gobetti, Diario Partigiano e Natalia Ginzburg: adoro Lessico Familiare. Racconta la storia di una famiglia solo per cliché, ma ha più verità che se fosse stato un romanzo confessionale e psicoanalitico…
TM: Ci si può vedere un’analogia con la musica? I cliché e la mancanza di originalità a volte possono portare più verità…
FP: Come nei Cubanos Postizos…
MR: Come disse James Chance: “I just stay on the surface, I don’t think it’s very pretty inside…”
FP: Ecco riassunta Natalia Ginzburg…
MR: Sta tutto nella superficie se la guardi abbastanza a lungo e da vicino. Se prendi Albert Ayler, in una melodia ci può essere tanta ripetizione. Comunque, tornando alla Resistenza, mi colpisce il fatto che invece in Germania non ci fu una storia di opposizione al nazismo…
TM: Una volta mia nonna mi ha detto: non sottovalutare quanto sembrava pazzo il progetto della Resistenza. Eravamo diciottenni, non sapevamo niente, ed era un’impresa disperata. Mussolini era stato al potere per vent’anni, sembrava che Hitler stesse per vincere la guerra… fu un puro atto di disperazione.
MR: Lei dov’era?
TM: A Roma. La cosa incoraggiante è che a volte le cose svoltano in modo molto rapido. E se sei lì, anche se la tua cosa sembra marginale, diventa centrale.
FP: Succede anche alle scene artistiche, che sobbollono per anni e poi magari emergono…
TM: Non bisogna cedere alla disperazione, le cose sono imprevedibili… Volevo chiederti di un testo dei Ceramic Dogs. C’è questa canzone dove vuoi sistemare la dichiarazione d’indipendenza. Non pensi che sia meglio abbandonare che riparare?
MR: A me piacciono molto certi aspetti, come quando dice: “we hold these truths to be self evident”. È un grande inizio e poi la parte dopo, “all men…”, rovina tutto. Allora dico: ok, sistemiamola.
FP: Si intende tutti i bianchi proprietari.
MR: Ma siamo liberi anche noi e possiamo cambiarla. “All people are created equal”. L’ho scritta dopo aver sentito una notizia di una città al sud dove dei fascisti, che non si chiamano fascisti, nazionalisti bianchi, certi ricchi hanno comprato un posto e hanno iniziato a integrarsi nella comunità dando feste di natale e cose simili. La gente ha reagito dicendo: “ma sembrano persone carine; certo, hanno idee estreme, ma insomma vivi e lascia vivere, poi i bambini si divertono alle loro attività…” Dev’esserci un punto in cui dici: ci sono certe cose che non metteremo in discussione. O includi i neri, o non vale niente.
L’altra parte della dichiarazione che ammiro è che dice: c’è gente che pensa che queste verità non siano autoevidenti… Mi piace quella parte, l’ho tenuta nella canzone. Ma poi arriviamo a un problema: dove dice della rottura dei legami…
When in the Course of human events, it becomes necessary for one people to dissolve the political bands which have connected them with another… a decent respect to the opinions of mankind requires that they should declare the causes which impel them to the separation.
Questa rottura necessaria e giustificata dei legami è parte della storia americana: è stata una guerra anticoloniale. È ok se i legami politici da dissolvere sono con un re inglese che è lontanissimo. È meno ok se vuoi dissolvere i legami con il tuo vicino.
La dichiarazione di indipendenza è una riflessione filosofica su quando si giustifica la violenza. Per questo m’interessa la Resistenza italiana. Perché avevano gli stessi argomenti e dovevano affrontare le stesse questioni in un contesto moderno (Dio ci aiuti a mantenere quella disciplina nella computer age…). Io che posso fare? Sono solo un chitarrista, ma possiamo leggere, e cercare modelli nella storia, non dobbiamo cominciare da zero…
TM: Nel libro si parla anche di diritti dei musicisti e del lavoro in generale. La gente si è abituata all’idea di averli, ma si è lottato per ottenerli. Prima della guerra, negli Stati Uniti, la gente occupò le fabbriche… Quei diritti non ci proteggono più e bisogna cominciare da zero. Non è questione di individui e grandi azioni eroiche. Le tech corporation sono diventate ricche perché hanno trovato un modo, un piano per violare il copyright in massa. La alphaville corporation, andate a cercarla, ha fatto trilioni producendo cosa? L’accesso a cose che che produciamo noi – e spesso senza pagarci. Non hanno avuto paura di trasgredire la legge, il loro motto è “move fast and break things”. È che tutti ricevevano musica gratis e nessuno diceva di no. Ora il problema comprende anche l’AI. Infatti sono tutti in sciopero, attori, sceneggiatori…
FP: Per chiudere volevo parlare di New York. È il tessuto connettivo del tuo libro la vita in certi quartieri.
MR: A fare quella New York fu l’affitto calmierato. Potevamo vivere quasi gratis. Per quasi tutti gli anni Ottanta io campavo con 250 dollari al mese in un appartamento occupato. Anche Zorn e Elliot Sharpe e Anthony Coleman vivevano in un ex squat nell’East Village e pagavano lo stesso. È facile sperimentare quando non devi pagare l’affitto, libera tante cose. La gente ha tanta nostalgia della New York anni Ottanta, ma c’è ancora.
FP: È nostalgia dell’affitto calmierato.
MR: Eh già.