L e orme sulla neve sussurrano un messaggio arcano. Una profezia che si rivela appena. In pochi sanno leggere questa lingua segreta, fatta di escrementi, odori e ombre. Che cosa ci faccio qui? Davanti alle impronte di un grosso canide. Potrebbero essere quelle di un lupo, se non girassero in tondo senza una direzione precisa, con un’andatura irregolare, come in cerca di uno stimolo qualsiasi. Questo è il tratto fondamentale da considerare per distinguere le orme di un lupo da quelle di un grosso cane: la precisione della pista. O quantomeno mi rassicura pensarlo, mentre cammino sotto una docile nevicata d’inizio inverno, pensando alla macchina già completamente coperta e a come la farò ripartire, se ripartirà. Che cosa ci faccio qui? Mi chiedo quando, osservando le montagne imbiancate di fresco, penso ai signori che ho sentito lamentarsi al bar: che ancora non ha nevicato, che l’anno scorso di questi tempi aveva già nevicato due volte, che ai loro tempi nevicava da novembre, e che è colpa del cambiamento climatico, della fine del mondo, eccetera eccetera.
Che cosa ci faccio qui? In questa valle sperduta, solo, totalmente fuori stagione – e non sono un alpinista, non sono un escursionista e non mi interessa niente della neve o della montagna. Che risposta bisognerebbe dare se venissi attaccato da un branco di lupi dopo essermi perso alla ricerca del sentiero che mi dovrebbe portare a destinazione, se le mie ossa venissero ritrovate, ma solo dopo che la neve si sarà sciolta, tra i boschi della Valchiusella. Che cosa ci faccio qui, io? Che sono nato e cresciuto in Sicilia e l’unico lupo che conosco, in tutta onestà, è il lupo di mare.
L’archivio
Il neo-naturalista è un naturalista sul campo che pratica la sua arte senza dimenticare di essere un animale.
Baptiste Morizot
Di punto in bianco appare la strega che alberga questo luogo. Immaginatela: imbottita in un enorme cappotto, con il cappuccio coronato da pelo sintetico, un berretto di lana fuorimisura a tenere insieme la grande massa di lunghi capelli grigi che sbucano fuori a ciocche o legati in trecce; il naso adunco, il sorriso rigonfia le gote, perfette fondamenta di uno sguardo azzurro indimenticabile. Il corpo esile, spigoloso, primordiale, si muove dentro larghi vestiti, e scarponi da montagna, sporchi dal troppo uso.
Greta Silva proviene dal futuro: ha attraversato l’apocalisse e si muove in un mondo popolato dalle bestie selvatiche, dove l’essere umano è ormai una traccia sulla neve fresca. Per mia fortuna è anche una persona dalla squisita affabilità, lo si capisce subito arrivando a casa sua: la cura, l’ordine e il gusto che contraddistinguono l’arredamento fanno parte di un passato di cui Greta ha fatto tesoro e che la rende una creatura ibrida: mezza cittadina e mezza montanara, mezza umana e mezza animale, capace di una grande apertura verso l’esterno ma chiusa nelle sue posizioni radicali, politica nel suo eremitaggio, pastora che sta dalla parte del lupo.
Io, invece, sono solo un libraio. Sto cercando l’Archivio documentale sul lupo e sui selvatici, che Greta custodisce nella Biblioteca del Lupo, perché voglio catalogarlo. La Biblioteca del Lupo è un luogo leggendario per chi ha scelto d’inoltrarsi nel vasto mondo della letteratura dedicata agli altri animali e ai non umani in generale. È nata nel paese di Traversella, in modo autonomo e indipendente, dalla visione e dal coraggio dei suoi ideatori che hanno occupato un piccolo magazzino e raccolto i libri che già avevano e quelli che venivano spontaneamente donati alla Biblioteca. (…) Greta mi accoglie con un lungo abbraccio.
Mi accompagna orgogliosa nei meandri libreschi della Biblioteca; annuso la carta per riconoscere gli odori, le marcature, passo le dita sulle copertine, seguo i solchi dei titoli impressi sul dorso dei libri. Estraggo le edizioni più rare e le maneggio nel tentativo di memorizzare. Nel frattempo, Greta mi racconta dove e come le ha trovate, chi le ha regalato quella prima edizione introvabile, quando ha acquistato tre copie in perfetto stato di quel manuale stupendo degli anni Settanta, e poi mi porge il suo libro preferito: Wolf and Man. Evolution in parallel, ovviamente.
Avvistiamo due piste. Sono le tracce di due canidi, ma uno dei due è troppo piccolo per essere un lupo: potrebbe essere una volpe. L’altro ha un’andatura regolare, decisa, che traccia una linea retta.
Conosce molte storie, Greta. Le piacciono le storie dissidenti: Simona Kossak, Shirley Strum. Le ho portato in dono Autobiografia di un polpo di Vinciane Despret, che non possiede, essendo appena stato pubblicato, ma conosce benissimo l’autrice, della quale era stato pubblicato anni fa Quando il lupo vivrà con l’agnello: in un istante ne tira fuori una copia da uno scaffale. Questa “coincidenza” ci unisce.
E, già dopo qualche minuto, mi racconta della sua vita: Milano, l’India, il cammino di Santiago, Stromboli (su Stromboli ci fermiamo, per l’ennesima “sincronia” – come la chiamerei io), del suo atelier, Après-Midi; e poi la Val Grande, la lana e le tisane, la Valchiusella, le sue pecore, Zira e il lupo che l’ha predata, la sua Promessa al lupo, fatta sul suo cadavere; i libri e le fototrappole, i cacciatori, i margari, i bracconieri, le trappole, le minacce, gli abitanti della valle.
Sorseggiamo del tè per tenerci caldi e le parlo del mio progetto di catalogare i suoi libri. Mi sembra entusiasta, ma ne parla al futuro, quindi le faccio presente che vorrei farlo subito. Per lei, però, adesso è impossibile perché questo è il periodo più proficuo per tracciare gli animali. Che cosa significa? Le chiedo sconfortato. Mi spiega che in questi giorni, con il suo gruppo di volontari sarà impegnata a installare fototrappole per tutta la valle, analizzare le tracce degli animali, catalogare e visionare i file video, e a combattere eventuali illeciti o azioni di bracconaggio tramite una costante presenza nei luoghi di caccia. Questo è il periodo di maggiore attività della fauna e bisogna stare all’erta, custodire il bosco.
Mentre parliamo arriva Elio, il compagno di Greta, con una pentola stracolma di pasta al pomodoro. Elio è silenzioso, calmo nella sua discrezione assoluta. (…) Mangiamo con gusto mentre Greta ed Elio mi raccontano dei rapporti con la gente del posto. Fino a quel momento non ci avevo pensato, non mi ero posto dalla prospettiva di chi questi luoghi li abita da generazioni: come può reagire la popolazione di un paese di montagna, pieno di cacciatori e pastori, ad azioni di protesta militante contro il bracconaggio, portate avanti da una “milanese che arriva a dettare legge”? Elio e Greta mi raccontano delle intimidazioni, delle azioni di boicottaggio, dei collaboratori che si sono succeduti nella vita della Biblioteca, di quelli che hanno mollato, esasperati e impauriti, di quelli che si sono trasferiti altrove, e anche degli altri, però, che ancora restano e lavorano insieme a loro, così come di alcuni che supportano senza invischiarsi troppo. Poi ci sono anche diversi abitanti della zona che si sentono in qualche modo possidenti, quasi per discendenza, di tutta la Valle e delle creature che la abitano: le nostre pecore, i nostri cinghiali, il nostro fiume, eccetera. È tutto mio, pensano.
In questa specie di “battaglia” Greta non è propriamente una militante. Greta è un animale selvatico. O comunque, in senso politico, sta dalla parte degli animali selvatici. Guarda la “questione del lupo” esattamente dal punto di vista del lupo. E fa da tramite con l’umano: portavoce del messaggio – un messaggio che si nasconde nelle tracce che il lupo lascia continuamente nel bosco, per chi sa raccogliere e ascoltare.
Sulla pista animale
Bisognerebbe stare dentro, e scendere, non nell’animalità, che non esiste, ma nella pista che ogni animale apre e ci lascia in dono, come una debole scia nell’immensità della natura.
Jean-Christophe Bailly
Avvistiamo due piste. Sono le tracce di due canidi, ma uno dei due è troppo piccolo per essere un lupo: potrebbe essere una volpe. L’altro ha un’andatura regolare, decisa, che traccia una linea retta. Potrebbe essere un piccolo lupo, però non siamo convinti.
Oggi Greta ha voluto farmi conoscere Mattia, detto Thorsten. Un esile vichingo, con barba e capelli lunghi, lisci ma ispidi, lo sguardo torvo; arriva guidando una jeep, con l’immagine di un enorme teschio sul retro. È un suo collaboratore. Anche lui sembra venire da un mondo post-apocalittico, è un miscuglio di selvaggio e tecnologico. Di antico e ultra-contemporaneo. È anche lui un ibrido. Con le sue fototrappole e un grande senso estetico dell’immagine. Sicuramente è un personaggio schivo, più difficile per me. Il suo è un silenzio irrequieto ma buono, mi pare.
Siamo al Palit, un comprensorio sciistico che non è mai stato usato per mancanza di neve: un fantasma. Dopo qualche metro dalle due scie di orme che abbiamo avvistato individuiamo un escremento, probabilmente di volpe. In questo caso Greta è sicura: non si tratta di escrementi di lupo. Vaghiamo per un po’ tra i piloni di queste mastodontiche funivie deserte; le costruzioni, ancora nuove, sono state depredate, l’immondizia abbandonata con noncuranza. (…)
Torniamo quindi alla macchina e poco dopo ci fermiamo a un curvone; che per me è uno qualsiasi, ma che loro riconoscono perfettamente; quindi scendiamo dall’auto e scavalliamo dentro il bosco; loro sanno dove andare, io seguo, in silenzio. Ascoltiamo i suoni del bosco mentre camminiamo verso un albero ben preciso. C’è una fototrappola che hanno piazzato insieme, Greta e Mattia, una decina di giorni prima. Ne visioniamo rapidamente il contenuto: Greta scorre le anteprime dei video e mette in play solo quando è in dubbio su un’eventuale apparizione. Nelle immagini però nessun lupo, pochissimi animali selvatici, ci sono soprattutto cacciatori e motociclisti. Si vede: un piccolo roditore, un topo o uno scoiattolo, passare e spassare attivando il sensore della camera; e poi le gambe di un uomo, con i suoi cani accanto. La prospettiva raso terra rende le immagini stranianti. Greta decide di formattare la scheda di memoria e di lasciare la fototrappola ancora qualche giorno, di darle fiducia. La posizione è stupenda e l’inquadratura è studiata benissimo, proprio davanti a una specie di slargo naturale, creato dal tronco di un albero caduto: una piazza nel bosco.
(…)
Mattia mi racconta un po’ di lui, del suo ruolo, e di come la pensa rispetto alla questione della Biblioteca e del bracconaggio. Lui è cresciuto in Valchiusella, non è vegetariano, e ha anche amici cacciatori. È un ibrido diverso da Greta, in qualche modo opposto, ma si comprendono comunque, ognuno rispetta le diversità dell’altro e anche l’idea che siamo tutti su un cammino che è lungo una vita, e bisogna fare molta strada, spesso attraversando sentieri difficili, per arrivare a una qualche consapevolezza, e non è detto che la strada porti fino alla stessa meta, anzi, è probabile che non ve ne sia una soltanto, una verità inoppugnabile alla quale si dovrebbe necessariamente giungere, alla quale tutti puntiamo o dovremmo puntare. Nel bosco non c’è alcuna cima cui aspirare.
Il giorno successivo usciamo soli, Greta e io. Siamo in Val Savenca e camminiamo di gran passo, questa volta parlando animatamente, tanto che devo prestare attenzione al respiro per non farmi venire il fiatone. Ci raccontiamo di tutto, anche episodi del passato remoto, dell’infanzia. E pure qui incontriamo subito degli escrementi: potrebbero essere di lupo, sono molto più grandi, si vede abbastanza chiaramente. Sembrano freschi. Greta mi intima di non toccarli perché ci potrebbero essere batteri, e i batteri trasmettono malattie. Speriamo si tratti di un lupo. Dovremmo scoprirlo nelle immagini catturate dalle fototrappole. Così, proseguiamo per il sentiero tracciato che ogni tanto Greta lascia per inoltrarsi nel bosco, fino a incontrare una fototrappola ben nascosta. Ogni volta si ferma e scorre le immagini raccolte, e mette in play i video per controllare che non ci siano animali infrattati, invisibili nel frame di anteprima. Il traffico del bosco visto dalle fototrappole è incredibile.
A seguito del ritrovamento del cadavere di un lupo vicino al fiume Chiusella, nel 2020, la sindaca ha sentito il bisogno di doversi occupare con maggiore solerzia del problema del lupo e del suo ritorno in Italia, e in Valchiusella nello specifico, dove lo dicevano scomparso da decenni.
Anche se non siamo nella stagione turistica, c’è comunque un gran viavai di escursionisti, motociclisti, cacciatori, cercatori di funghi, e poi scoiattoli, volpi, cinghiali e altri animali. Il punto di vista è sempre molto basso, all’altezza degli animali, cosicché quando passano gli umani non si veda il volto. Notiamo un gruppo di uomini con delle strane borse che non ho mai visto, delle sacche che servono per portare le carcasse degli animali uccisi. Poi una volpe che si accorge della fototrappola e si allontana furtiva, lanciando degli sguardi di controllo verso di noi. Un cinghiale accende la mia eccitazione per via della sua mole, ma si limita a esplorare il terreno con il muso, bruca distrattamente, per poi scomparire dall’inquadratura. Nessuna traccia del lupo.
Licantrofobia
Se ci fermiamo un attimo a riflettere arriviamo a una conclusione straordinaria: un lupo è sostanza e insieme ombra.
Barry Lopez
Nella gola della valle, dove non batte il sole, sorge un paesello abbandonato di nome Fondo, l’attrazione turistica più in voga della zona, per i suoi ponticelli di pietra e le affascinanti cascate. Non c’è niente in paese eccetto un bar, un unico luogo di ristoro sempre aperto, estate e inverno. Scopro che la proprietaria del bar è la madre di Rosanna, la signora che mi sta ospitando da Traleua, il Bed & Breakfast che tiene in casa sua assieme al marito, Rocco, e dove abita con i figli e gli animali. Un luogo ameno, dove la sera ci sono solo le stelle e il vento.
Rosanna è in ottimi rapporti con la sindaca di Traversella, Renza Colombatto, la sindaca più anziana d’Italia. Decido perciò di provare a interrogarla, una mattina, mentre si presta a una breve chiacchierata durante la colazione. Inizio da lontano, chiedendole proprio di sua madre e del perché si ostini a tenere aperto il bar di Fondo e a vivere in un paese abbandonato, anche durante l’inverno; lei mi risponde laconica che “è la sua vita, e non potrebbe fare altrimenti”. Quindi proseguo, approfittando dell’aggancio, e le faccio qualche domanda sulla vita in valle, sulla caccia, ci giro ancora intorno e le chiedo delle miniere, dell’industria, la cara vecchia Olivetti; le domando anche dei suoi figli e di dove e come vadano a scuola, e lei mi spiega tutto con grande pazienza, stimolata dalla mia curiosità. Ormai mi sembra a suo agio. Quando, però, le chiedo apertamente della Biblioteca, che non avevo ancora menzionato nei nostri discorsi, sembra spazientirsi e mi pare diventi assai critica rispetto all’operato di Greta, soprattutto nei confronti del Comune.
La questione è la seguente: secondo Greta, a seguito del ritrovamento del cadavere di un lupo vicino al fiume Chiusella, nel 2020, la sindaca, pressata dalla presenza delle autorità della Città Metropolitana di Torino e dall’interesse della stampa locale, ha sentito il bisogno di dare un’immagine diversa del Comune, e di doversi occupare con maggiore solerzia del problema del lupo e del suo ritorno in Italia, e in Valchiusella nello specifico, dove lo dicevano scomparso da decenni. Per farlo ha quindi deciso di affidare una stanza comunale, con un’ottima posizione sulla piazza centrale del paese, proprio alla Biblioteca del Lupo. Successivamente, la sindaca avrebbe però imposto una serie di condizioni – come quella di fondare un’associazione per accedere a dei bandi – che Greta non era e non è disposta ad accettare. In quel momento si è creata una spaccatura tra la Biblioteca e il Comune, che ha poi portato alla ritirata sui monti di Greta.
Secondo Rosanna la storia è molto diversa, e me lo racconta con sincero rammarico. È ovvio, per lei, che la concessione dei locali del Comune alla Biblioteca era temporanea e si trattava di una situazione da disciplinare secondo certe regole, comunali e statali, e non si sarebbe potuto fare altrimenti. Quello che dice e il tono che usa mi colpiscono ancor di più perché Rosanna sa benissimo che io sono qui per la Biblioteca del Lupo: è stata la stessa Greta a consigliarmi dove cercare alloggio e ad avvertire del mio arrivo prima che io chiamassi per prenotare una stanza.
Cerco quindi di alleggerire il discorso sviando sui Damanhur, di cui non sapevo niente e che ho scoperto, in questi giorni, chiacchierando, essere un fenomeno centrale, negli ultimi decenni, nelle valli di questa zona. Mi racconta che i Damanhur sono una comunità, una sorta di setta, nella quale tutti usano appellarsi con nomi animali: Bufalo, Lince, Stella marina. Hanno scavato un enorme tempio nella roccia della montagna, a mani nude – dice, cercando di impressionarmi. Nonostante le stramberie, Rosanna sembra avere un atteggiamento positivo rispetto ai Damanhur, mi racconta che i loro pannelli solari li ha montati un tizio che si chiama Muflone e che è un bravo ragazzo, poi però si addentra nella storia di un altro giovane che aveva tentato di uscire dalla comunità Damanhur, e che adesso quando s’incontrano non li saluta nemmeno più, come se gli avessero fatto il lavaggio del cervello; mi racconta poi che il centro medico dei Damanhur, molto all’avanguardia, durante l’emergenza COVID è stato fondamentale per la popolazione della valle, perché si poteva usufruire delle cure mediche anche senza vaccino, e in valle tanti hanno preferito evitarselo. Mi sorprende quando mi spiega come questa strana presenza sia stata accettata e come i Damanhur convivano con la popolazione autoctona, e allo stesso tempo con i piccoli gruppi che praticano una specie di sciamanesimo locale. Ma non sa dirmi molto altro, non le interessano né gli uni né gli altri. Chiude la discussione dicendomi che tra qualche giorno ci sarà la festa di santa Barbara, e lei si occuperà di far fare la visita nelle vecchie miniere ai bambini e ai ragazzi, prima del pranzo collettivo. Annoto la cosa mentalmente. (…)
[Quando poi finalmente incontro la sindaca nel suo ufficio] ci sono io, in questo classico ambiente monocromo bianco, davanti a una scrivania: lei seduta da una parte e il figlio seduto dall’altra, mentre lavora al computer. A un certo punto prenderà la parola lui e raramente la lascerà nuovamente alla madre. I suoi discorsi, in un politichese stentato, risultano comunque convincenti: Greta non voleva fare l’associazione e il Comune non può dare in gestione i suoi locali a un privato, così, in amicizia. Non fa una piega. Quando però chiedo apertamente se loro sanno di minacce o azioni atte a intimidire Greta e sabotare il suo operato, rispondono entrambi che lo “ritengono poco plausibile”. Quando domando del ritrovamento del lupo vicino al Chiusella nel 2020, che ha coinvolto persino le autorità dell’area metropolitana di Torino, loro rispondono entrambi che “non gli risulta”, non sanno proprio di cosa io stia parlando.
Uomo diventa Lupo
Ci specchiamo nei loro occhi, ci riconosciamo. Ci mettono a nudo e questo non ci piace. I lupi sono talmente come noi che talvolta un individuo straniero non viene accettato, viene scacciato attivamente e persino ucciso.
Luca Giunti
Il vapore sprigionato dalle pietre calde, la piccola stanza avvolta nel buio. L’odore di legna bruciata, il sudore sui i corpi nudi che sbuffano. Ogni tanto la porta si apre e un corpo entra o esce, caldo e freddo, freddo e caldo. Solo lo scoppiettare del fuoco risuona.
Fuoriesco redivivo dalla sauna di koivu, un posticino nelle vicinanze che unisce sauna finlandese e cucina vegana, il tutto dentro un antico mulino ad acqua, anch’esso di pietra, come la maggior parte delle strutture storiche della zona. Loredana ed Elisabetta, le socie fondatrici, sono due antispeciste abbastanza radicali, e si sono conosciute a Torino nei circoli militanti che frequentavano. La collaborazione con la Biblioteca del Lupo è nata in maniera spontanea, le due realtà organizzano eventi insieme, si fanno pubblicità a vicenda, si supportano.
C’è una questione ancestrale con il lupo o si tratta esclusivamente di una questione politica, locale, forzatamente accompagnata da una narrazione stereotipata di questo animale che potrebbe affondare le sue radici nelle credenze e nelle tradizioni popolari antiche?
Mentre mi serve il tè, Loredana mi suggerisce che quando leggiamo o ci viene detto che un piatto è un “piatto tipico” dovremmo sempre ripensare ai racconti dei nostri nonni. La carne, o comunque i ricchi piatti che ci vengono serviti nei ristoranti o in trattoria, non erano certo la prassi nella tradizione culinaria della quotidianità contadina. Sono già un prodotto pensato per il turista; e in più – volendo essere un po’ meno estremisti, aggiunge –, se tutti i ristoratori delle zone di montagna rispettassero almeno i periodi di divieto della caccia di determinate specie, adattando i loro menù; e se si impegnassero a promuovere una cucina più varia, che tiene conto in maniera consapevole del territorio e dei suoi cambiamenti, della sua stagionalità, forse meno persone sarebbero portate a commettere illeciti e a speculare sulle aree montane. Non avevo mai pensato a quanto la caccia, e soprattutto il bracconaggio, siano influenzati dal modo di lavorare dei ristoratori.
Mentre parliamo Loredana si lascia distrarre da due clienti appena entrati. Io ed Elisabetta rimaniamo soli e mi colpisce molto il suo sguardo. È seriamente preoccupata per Greta. Non tanto per eventuali ripercussioni sulla sua persona: non crede che qualcuno in valle possa avere il coraggio o la cattiveria per agire proprio sull’incolumità di Greta, ma sicuramente ha paura che qualcuno possa infierire sui suoi animali, o indirettamente sulla sua macchina, sulla Biblioteca, sulla sua casa. Insomma, è preoccupata, glielo leggo negli occhi, e la cosa mi turba.
(…)
Chiedo a Loredana e a Elisabetta dove secondo loro si ritrovano i cacciatori della zona, normalmente, la sera. Alla fine di un lungo dibattito, concordano sul Bar Centro, a Vico Canavese. Il classico bar, tabacchi e trattoria, nella piazza principale di un paesello di montagna. Mi ci siederò cercando di origliare i discorsi, spesso espressi in un dialetto per me incomprensibile, nella speranza di ritrovarmi in una situazione fortuita per approcciare qualcuno e fare delle domande. Praticamente impossibile. E questa scena si ripeterà sera dopo sera; serate passate in solitudine, snobbato persino da ristoratori e camerieri. Fortunatamente una di queste sere mi raggiunge Mattia, dopo un casuale scambio di messaggi all’insaputa di Greta.
(…)
Lui condivide pienamente il pensiero della Biblioteca ma comunque capisce anche quei cacciatori che agiscono con rispetto e consapevolezza. Non reputa ingiusto cacciare ma sicuramente è contro la caccia di frodo, l’abuso e lo sfruttamento eccessivo del territorio, dal momento che è casa sua, c’è nato e cresciuto, e sente un legame profondo con la montagna, un po’ meno con i suoi abitanti umani. L’unico cacciatore del posto di cui so qualcosa si chiama Bernardo. So che la sua casa si trova lungo un sentiero che porta alla minuscola cappella di Sant’Anna.
(…)
Quando il lupo vivrà con l’agnello
La questione della distanza o del giusto mezzo dipende allora dalla trattativa sulle poste in gioco, ovvero dall’imparare l’uno dall’altro la possibilità di obiettivi diversi. […] Dall’imparare l’uno dall’altro anche la possibilità di ritrovarsi attorno a obiettivi comuni.
Vinciane Despret
La Festa di Santa Barbara comincia nel peggiore dei modi, ma nessun altro, oltre me, sembra preoccuparsene. Piove e la festa si sarebbe dovuta svolgere interamente all’esterno, tra le strade di Traversella. Il mercatino, in versione ridotta, si terrà nella foresteria della comunità montana e in qualche postazione coperta lì davanti. Ci sono tutti: Rosanna, Rocco, la sindaca e il figlio, ma nessuno si ferma a parlare con me, tutti mi guardano male.
A un certo punto avvisto Bernardo, che avevo già visto in foto, inconfondibile, e lo tengo d’occhio tutto il tempo, mentre inizio a curiosare tra le bancarelle e mi metto a chiacchierare con un tizio che lavora il legno. Si chiama Matteo, Matteo il Noce Nero. Mi racconta un po’ della sua vita, di come vive tra la baita in montagna e la casetta a valle, tornato anche lui dopo diversi anni all’estero. Compro due ciondoli: un lupo, che lascerò a Greta, e un drago – che per lui è un cane ma io ci vedo un drago – che porterò con me.
Faccio avanti e indietro per il paese, dal bar al mercatino e dal mercatino al bar, nessuno mi dà confidenza, e tra poco ci sarà il pranzo collettivo, al quale io non sono invitato. (…) Voglio conoscere Bernardo e lo seguo da lontano scrutando le sue mosse, convinto di andare a casa sua e aspettarlo, questa volta. Ed è così che faccio. (…) Mi siedo su un tronco caduto per terra e aspetto, non so quanto, osservando il bosco.
C’è una questione ancestrale con il lupo o si tratta esclusivamente di una questione politica, locale, forzatamente accompagnata da una narrazione stereotipata di questo animale che potrebbe affondare le sue radici nelle credenze e nelle tradizioni popolari antiche? La risposta, probabilmente, è molto più complessa e pone diverse ulteriori domande. Ha a che fare con lo sfruttamento del territorio in generale, con una mentalità del progresso e dell’accumulo compulsivo, del consumo. Non è una questione tra cacciatori e margari da una parte, e chi combatte il bracconaggio dall’altra, è una questione più ampia delle contingenze, si tratta di rimettere in discussione un paradigma ormai penetrato nella nostra concezione ontologica del mondo: nel modo in cui pensiamo il pianeta Terra e l’Universo intero, nel modo in cui sentiamo di possedere tutto; e forse, è proprio da qui che è possibile provare a scardinare una intera modalità di pensiero, dagli esempi minimi, dalle piccole realtà, dai piccoli mondi.
Mentre, perso nei pensieri, osservo le foglie e le cortecce degli alberi che ho di fronte, sento il cane ricominciare ad abbaiare e mi torna in mente che stavo aspettando Bernardo. Mi precipito giù per la stradina di pietre e provo a incrociarlo; ci salutiamo ma in modo schivo, e io faccio finta di niente ma poi ci ripenso e torno indietro: ho solo questa occasione per parlarci.
Immaginatelo: un uomo ormai anziano, capelli e barba folti, irti, setolosi, brizzolati; gli occhi piccoli incavati nelle rughe d’espressione; il corpo grande e gonfio, coperto da un maglione mimetico infilato dentro i pantaloni che trattengono la pancia abbondante. La voce bassa, il forte accento piemontese, le parole sbriciolate in bocca, bofonchiate tra i baffi, irraggiungibili. E io, vagamente intimorito, che gli faccio domande generiche, sull’uscio di casa, nel tentativo di rompere il ghiaccio; e lui rude, che mi risponde con parole mezze morsicate, e mi chiede scusa ma è ora di pranzo e deve andare a cucinare. Lo ringrazio e vado verso la macchina, sconfitto, anche questa volta.
La sera, nell’ennesimo bar “per cacciatori” in cui entrerò, verrò trattato proprio male, con diffidenza evidente e quasi ostentata, ma rimarrò impassibile, ordinerò una birra e mi metterò un po’ a lavorare sugli appunti, e un po’ a origliare i discorsi della combriccola che sosta al bancone.
(…)
Andare in montagna è tornare a casa
Senza bagagli se non il suo corpo, senza zavorre se non il suo mito. Non lascia mai davvero la sua casa perché ne ha sempre una da raggiungere davanti a sé, moderno Ulisse che ha nostalgia di Itaca e appena vi ritorna smania altre partenze e altre esplorazioni. La sua natura, la sua essenza, è travalicare. Non importa che siano confini doganali, recinti fisici o barriere mentali. Il lupo andrà sempre oltre.
Luca Giunti
A un certo punto bisogna sempre tornare a casa. Mentre saluto Rocco, lo vedo soffermarsi sulla pietra che porto sempre al collo, quindi mi chiede di seguirlo. Nella cantina di casa, dopo un piccolo deposito di motorini d’epoca, ci sono due sale allestite a museo mineralogico, con tanto di bacheche in vetro, un sistema di luci di tutto rispetto e foto d’epoca delle sue escursioni in montagna appese alle pareti.
Che cosa ci faccio qui? Quando sono tornato a Roma ho cominciato a sentire Greta giornalmente. Non mi piace usare il registratore o scrivere sul taccuino davanti a una persona che mi sta parlando, ma la memoria non è infallibile e la mia fantasia tende a riempire eventuali buchi. Sono famose nella mia famiglia le storie che racconto su mio padre, sempre esagerate, come quella di quando ha vissuto su uno scoglio per trenta giorni – quando in realtà forse erano a malapena tre. In questo caso, però, posso essere abbastanza certo che mio padre da giovane fosse soprannominato il lupo, per la sua tendenza alla solitudine e al silenzio. Ma me lo ha confidato solo l’altro giorno, mentre gli raccontavo di questo reportage al telefono, non credo me lo avesse mai detto prima.
Non è una questione tra cacciatori e margari da una parte, e chi combatte il bracconaggio dall’altra, è una questione più ampia delle contingenze, si tratta di rimettere in discussione un paradigma ormai penetrato nella nostra concezione del mondo.
Con Greta abbiamo parlato molto anche di fototrappole, la sua vera passione. Uno strumento che negli ultimi anni è diventato parecchio più accessibile, e ormai ne esistono di ogni tipo: dalle più economiche ed elementari, alle più accessoriate, col flash, con i raggi infrarossi, con il GPS incorporato o la connessione Wi-Fi che permette il controllo da remoto, direttamente dallo smartphone. Greta predilige fototrappole che abbiano meno impatto possibile sugli animali, che potrebbero essere disturbati dalle luci e dalla presenza di un oggetto alieno; e lavora esclusivamente con modelli che memorizzano i video su scheda – da una parte per non avere troppo vantaggio sugli animali, e dall’altra perché così le dà la sensazione di essere proprio lì nel momento in cui queste immagini vengono catturate: “le fototrappole portano messaggi da altri mondi”, mi ha scritto l’altro giorno.
Ci sono diversi stili, e motivazioni, per fototrappolare; Greta, per sua indole, cerca una distanza, un’invisibilità, esprime un’arte della discrezione. L’arte di scomparire. Vuole esserci senza esserci, o comunque senza essere vista. “Siamo responsabili di coloro che addomestichiamo?”, si chiedeva Shirley Strum, “Finora non vi ho particolarmente riflettuto, ma credo che la risposta sia sì. Lo so per istinto, e le mie azioni e la mia ragione lo confermano”, rispondeva, mentre stava per prendere una scelta dolorosa che cambierà il corso della storia delle scienze naturali, della sua vita e della vita di tantissime altre persone che hanno avuto la fortuna di incontrarla e di leggere la sua storia. Shirley Strum ha rischiato di mandare in frantumi la sua carriera e svalutare gli studi di una vita intera per salvare i babbuini con cui aveva lavorato per decenni. Questo perché non si trattava più di meri oggetti di studio ma di soggetti, di persone, di famigliari.
Cosa siamo disposti a fare per salvare nostro padre dalla morte? E, viceversa, cosa sarebbe disposto a fare lui? Seguendo questo ragionamento si esonda nel territorio del selvaggio, dove non ci sono più regole, e non c’è legge. Solo in questo territorio è possibile rispondere. D’altronde, anche se il nostro passaggio su questo pianeta si cancellerà in fretta come le orme sulla neve, c’è un paradosso in questo fatto incontrovertibile, con il quale stiamo imparando a fare i conti: le nostre impronte, le nostre tracce ambigue lasciano un messaggio arcano e magico, sottile; tutto quello che facciamo, il modo in cui esistiamo, le nostre azioni segnano una marcatura, qualcosa che resterà persino dopo di noi, che vedrà il mondo anche dopo la nostra morte, dopo la nevicata, dopo l’apocalisse.
Scorro le foto della Valchiusella: impronte sulla neve, mappe geografiche, la schiena di Greta che si sporge dai ponticelli di Fondo, cacca sul fogliame, neve, l’insegna della Biblioteca, libri, scaffali di libri, qualche gatto che dorme pacioso, Traversella bagnata dalla pioggia, Bernardo al mercatino, Fondo nella notte, il castello di macerie, la chiesetta di Sant’Anna, il sentiero di pietre che attraversa il bosco. Ci sono pochissimi volti, e una sequela di paesaggi ampi e luminosi, escrementi, tracce sulla neve, alberi, macerie, spalle, tantissimi libri, e alla fine: il video di uno dei gatti che vive da koivu, avvolto su se stesso dentro una ciotola che sembra costruita per lui, si lascia accarezzare, e poi si volta guardandomi dalla fessura dei suoi occhi.
Estratto da È giusto che finisca così, la nuova raccolta di reportage narrativi a cura di CTRL.
Tutte le foto nel testo sono di Bartolomeo Cafarella.