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ert, in ceco Scherzo, è il titolo del primo romanzo di Milan Kundera. Pubblicato in Cecoslovacchia nel 1967 e ritirato dalla circolazione appena un anno dopo, ha attirato sullo scrittore l’attenzione della polizia segreta cecoslovacca: pedinamenti, intercettazioni telefoniche, violazione delle privacy, apertura sistematica della sua corrispondenza. Chiunque comparisse in una foto insieme a lui, seduto ad un bar o sulla panchina di un parco, entrava a sua volta nel mirino. Il protagonista de Lo scherzo non è un oppositore come Solženicyn o un partigiano come Primo Levi. Al contrario, è un uomo integrato nel sistema socialista del Paese in cui vive. È un giovane quadro del partito comunista universitario, che, un giorno, a causa di una frase scherzosa, scritta ad una amica, viene spedito in un campo “reificazione” nella città di Ostrava: “Tutto aveva avuto origine dalla mia infausta tendenza agli scherzi idioti e all’infausta incapacità di Marketa di capire uno scherzo”.
Cos’è un campo di “reificazione”? Non lo sappiamo con certezza, se non per ciò che ne scrive Kundera in questo romanzo. Non è un campo di sterminio come quello di Primo Levi né un Gulag come quello di Solženicyn né un campo di rieducazione come quello di Sairagul Sawytbai. I prigionieri a Ostrava non sono ufficialmente dei prigionieri, perché vengono retribuiti per il lavoro che svolgono, hanno una mezza giornata di permesso ogni quindici giorni, non vengono né picchiati né torturati, però, non possono lasciare il campo, né sanno quando potranno farlo. Il regime semi-detentivo in cui sono trattenuti non ha come fine brutalizzarli fisicamente, né rieducarli, perché il Partito non vuole mai più accoglierli in seno alla società, neppure a pena scontata. Ciò che vuole è portarli a mutare opinione su sé stessi. Il Partito comunista ceco di quegli anni ha una priorità, vuole dimostrare a se stesso e agli altri che non è l’omologo del sanguinario partito sovietico. Il suo fine è simile a quello dell’Inquisizione medievale, costringere le coscienze a riconoscersi colpevoli dei delitti imputati di fronte a un tribunale giusto.
È quasi impossibile riuscire a mantenere una buona opinione di sé, quando si è presi dentro un meccanismo studiato apposta per convincerti che sei un reietto. Il campo di reificazione serve a questo, a portare i prigionieri a maturare su di sé lo stesso giudizio che ne ha il Partito: non sono ragazzi per bene, non sono stimati intellettuali, non sono buoni figli, non sono amici leali, non sono persone capaci, non sono uomini coraggiosi, non sono vicini di casa affidabili, non sono cittadini onesti, non amano la loro patria, non sono attaccati alla loro famiglia, non hanno valori, non hanno ideali, sono solo degli individualisti vigliacchi, degenerati e del tutto privi di talento.
Scherzare con le parole vuol dire spostarne il significato, cioè affermare qualcosa per suggerire altro. Nelle dittature – e nelle democrature – lo scherzo è punito con la diffamazione, la detenzione, la tortura e la morte, in quanto additato come tradimento della patria. Joseph Goebbels e Andrej Ždanov, ministri rispettivamente della propaganda nazista e della cultura sovietica, consideravano la satira più pericolosa della dissidenza politica. L’avversario politico, infatti, mentre ti combatte, in qualche misura ti legittima, mentre il giullare che ti deride, spoglia il tuo potere di ogni aura sacrale. È probabilmente per questo che, nell’agosto del 2021, appena rientrati a Kandahar, i talebani, per prima cosa, andarono a stanare Khasha Zwan, un mimo che, come Charlie Chaplin ne Il Grande dittatore, aveva scherzato, imitandole, le movenze sterminatrici degli zelanti “studenti del Corano”. Se Lo scherzo di Kundera mostrasse questo, non aggiungerebbe nulla alla grande letteratura di dissidenza del Novecento. Kundera analizza invece qualcosa di più complesso, ci spiega come all’opposizione politica non si arriva per chissà quale atto di coraggio o di lucida presa di coscienza, ma per una banale battuta di spirito. Una manciata di parole dal sen fuggite, che anticipano cose che già vediamo, ma che non abbiamo ancora portato allo stato di coscienza.
Scherzare con le parole vuol dire spostarne il significato, cioè affermare qualcosa per suggerire altro. Nelle dittature – e nelle democrature – lo scherzo è punito, in quanto additato come tradimento della patria.
Dentro a un campo di reificazione, prima ci si arrende ad indossare il vestito confezionato dal Partito per l’internato, prima si torna a casa. Al contrario, Ludvik, il giovane protagonista del romanzo si divincola, scalcia, non vuole farsi infilare quel vestito. Trascorre così i primi mesi nello sforzo costante di mantenersi uguale alla persona che era quando è arrivato nel campo, ed è ancora fiducioso che si tratti di un errore. Ludvik, l’abbiamo detto, non è affatto un eroe della dissidenza, ma un uomo organico al sistema che lo sta espellendo. Non si scandalizza per la barbarie del meccanismo di reificazione, ma per il fatto che ne sia lui l’oggetto.
La sua presa di coscienza sarà lentissima. E il suo dolore non apparirà mai legato alle dure condizioni di lavoro nel campo o alla privazione della libertà, ma sempre e solo all’insofferenza, al ribrezzo di dover portare il marchio del reietto. In questo consiste la fabbrica della reificazione: costringe a prendere gradualmente coscienza del fatto che non si tornerà mai più ad essere amati, accettati, applauditi, approvati, né come amici né come compagni di partito né come cittadini né come amanti. Non si riceverà mai più un gesto di solidarietà o di vicinanza da parte di nessuno. Ogni ora passata nel campo serve a questo, a marchiare più a fondo il sigillo che dovrà risultare visibile a tutti fuori del campo. Quando alla fine del processo di reificazione, Ludvik cede, è ormai divenuto la persona che gli dicevano di essere al momento del suo arrivo: un inetto che non crede più a nulla. Il Ludvik che torna in libertà non ricorda più in niente quello che vi è entrato. È un uomo ormai spento, senza amici, speranze, o qualcosa a cui tornare. Nel fondo annerito della sua anima, ci sarà rimasto solo un gretto, quanto volgare, progetto di vendetta. Un piano meschino, grottesco, ai danni del burocrate di partito – suo ex collega universitario – che lo ha spedito in quell’inferno. Una vendetta che fallirà clamorosamente.
Al netto degli espedienti narrativi, quella di Ludvik potrebbe essere la parabola esistenziale di Milan Kundera. Malgrado i suoi molti depistaggi e l’anatema lanciato a chiunque voglia sovrapporre Milan a Ludvik, l’epopea del protagonista gli appare sinistramente vicina. Milan Kundera era un giovane talentuoso, educato in famiglia ad alti principi, dedito ai sacri valori del socialismo, all’impegno civile, alla militanza politica. Prima dell’espulsione dal partito comunista cecoslovacco nel 1950, era anche lui un brillante studente universitario, nonché un quadro del partito comunista. E al tempo del suo secondo allontanamento dal partito era già uno stimato docente universitario. È quindi così temerario ipotizzare che a causa dei continui pedinamenti, dell’emarginazione, della cacciata dal partito, dell’allontanamento dall’università, delle pressioni per fargli lasciare il Paese, della costruzione di falsi capi d’accusa a suo carico, del dileggio sistematico dei suoi scritti, della costrizione – ancora giovanissimo – a condurre un’esistenza nell’ombra, da “nemico” della patria, da “traditore” del comunismo, Milan Kundera sia divenuto l’uomo che conosciamo: svuotato di ogni credo, indifferente all’impegno politico, nemico di ogni testimonianza, denigratore convinto della Storia e della Verità? Non lo sapremo mai, perché – come è noto – è dal 1975, anno d’inizio del suo esilio in Francia, che Kundera nega di essere un dissidente, nega di aver scritto un romanzo politico, nega che gli avvenimenti occorsi in Repubblica Ceca prima della sua fuoriuscita siano all’origine delle sue pagine, nega che vi sia anche un solo punto di contatto tra i personaggi dei suoi romanzi e il loro autore. In L’Art du roman (Gallimard, 1986, Traduz. dell’autrice), scrive: In quanto modello del mondo, fondato sulla relatività e sull’ambiguità delle cose umane, il romanzo è incompatibile con l’universo totalizzante. […] il mondo basato su una sola verità e il mondo ambiguo e relativo del romanzo sono fatti di due materie diversissime l’una dall’altra.
Il romanzo è per lui solo “il terreno delle ipotesi”, mentre la Storia altro non è che un’illusoria ricerca della verità. Ma la verità, per Kundera, non esiste, è solo il feticcio dei cercatori di senso. E “pourtant” come si direbbe nella sua lingua d’adozione, Lo scherzo continua ad apparire a milioni di lettrici e di lettori il documento più eloquente sulla Cecoslovacchia di quegli anni, un paese che ancora scongiura l’arrivo dei carri armati russi a Praga, ma si sente già avviluppato al collo il nodo scorsoio.
Kundera ci spiega come all’opposizione politica non si arriva per chissà quale atto di coraggio o di lucida presa di coscienza, ma per una banale battuta di spirito.
È per tutte queste ragioni che, nel marzo del 2018, senza la sua benedizione, mi sono messa sulle tracce de Lo scherzo, col proposito di fare ciò che lui non avrebbe mai voluto si facesse, provare a separare ciò che nel romanzo è inventato da ciò che è vero. Inizio la mia indagine a partire da un banco di legno, lucido e nuovo, del liceo classico Kapitàna Jarose, sito al numero 14 dell’omonimo viale di Brno. Quando era ancora solo un giovane e promettente figlio della borghesia intellettuale della capitale morava, Kundera ha studiato qui, in questo elegante immobile di fine Ottocento,dal cui soffitto pendono ancora i vetri di sfarzosi lampadari, impensabili in una scuola italiana. Con il pretesto di scrivere un articolo su “La cavalcata dei re”, antica tradizione morava di età medievale, descritta con dovizia di particolari nelle pagine centrali de Lo scherzo, vengo ammessa a visitarlo. Il direttore e gli insegnanti del liceo non hanno conosciuto Kundera, ma sono in grado di rispondere a molte delle mie domande, perché qui si coltiva la memoria degli ex-allievi che hanno dato lustro alla scuola. Mi mostrano le aule ariose, le pareti perfettamente intonacate, i finestroni affacciati sul boulevard alberato che Kundera ha abitato negli anni dell’adolescenza. Mi mostrano l’annuario storico dell’Istituto, mi traducono la pagina dedicata a Milan: solo notizie biografiche di repertorio.
In Repubblica Ceca la scrittura sembra essere stata addestrata apposta per perlustrare solo la superficie delle cose. Le domande di politica, ma anche solo di storia, sono infatti percepite come invadenti e fuori luogo. Il nostro affiatamento dura finché continuo a chiedere delle tradizioni medievali morave, ma quando inizio a virare sugli anni del socialismo, qualcosa s’incrina. Ora, non sono più così cordiali, e non mi nascondono di considerare esagerata la “nostra” affezione per uno scrittore “esterofilo”, che ha costruito la propria fama su qualche clamorosa bugia a riguardo della propria patria. Mi convincono pure che se sapessi leggere in ceco, scoprirei scrittori migliori di lui. Non solo qui, al Kapitana Jarose, ma anche tra i miei colleghi di Praga, è piuttosto diffusa l’idea che in “Occidente” – come ancora definiscono l’Europa di oltre cortina – Milan Kundera sia sopravvalutato. Il Nobel – mi ricordano spesso con sarcasmo – non gliel’abbiamo mai dato! L’idea è che Kundera ci piaccia perché incarna, nei suoi romanzi, quei non-valori cui mostriamo di essere così attaccati: il relativismo, il pensiero fluido, l’identità debole, la mancanza di ogni fede, l’incoerenza, l’attaccamento a orizzonti d’attesa piccoli piccoli, privati privati, individuali individuali, la decostruzione di ogni idealismo sentimentale.
Obietto che, al contrario, Kundera ci appare un eroe tragico, uno cui è stata negata la consapevolezza della sua buona fibra. E questo a causa di quel processo di “reificazione” che nei paesi socialisti era sempre in atto, notte e giorno, dentro e fuori i campi. Un meccanismo così ineludibile che ha convinto Kundera stesso di essere ciò che il Partito pensava che fosse: un individualista, un egoista privo di ogni fede politica, un vigliacco indifferente alla patria. Sorridono all’idea di un “campo di reificazione”… sorridono quando li informo che l’indomani andrò a visitarlo ad Ostrava. Mi dicono che sono suggestioni della propaganda statunitense degli anni della Guerra fredda, mi assicurano che a Ostrava non ci sono mai stati campi di “reificazione”, di prigionia o di lavoro forzato. A Ostrava c’erano solo miniere ordinarie, un tempo strategiche per l’economia cecoslovacca, oggi non più in funzione e trasformate in museo per i turisti. Precisano anche che a Ostrava non ci sono turisti, perché su questo Kundera aveva avuto delle ragioni a descrivere Ostrava come una città non particolarmente attraente: Ostrava, città mineraria simile ad un enorme dormitorio provvisorio, piena di case abbandonate e di strade sporche che portano nel vuoto. Ero in trappola; stavo lì sul ponte come una persona esposta al fuoco di una mitragliatrice. Non volevo più guardare la strada abbandonata con le cinque case solitarie perché non volevo pensare a Ostrava.
Sono sicura che hanno ragione, però compro il biglietto lo stesso e salgo sul treno. Magari invece trovo una traccia, un cippo, un segno sfuggito all’inconscia autocensura collettiva. Man mano che mi allontano dalla pomposa e asburgica Brno e mi avvicino alla lugubre e sovietica Ostrava, il panorama si storce, gli alberi e i cespugli si diradano e inizia a nevicare forte. La temperatura scende e il treno si svuota. Il paesaggio diventa silenzioso e immobile, ricorda sinistramente la glaciale piana su cui sorge Auschwitz, forse perché siamo a soli 70 km da lì. Scesa alla stazione, Ostrava mi appare una città come le altre. L’ufficio turistico, invece, c’è, e ci sono anche i gadget e i souvenir. Esco sul grande viale che costeggia la stazione e aspetto il tram. A differenza di Brno, qui nessuno parla inglese, però le persone sono solidali e, quasi fisicamente, mi aiutano a scendere e salire sui tram e gli autobus che mi portano poco fuori città, davanti ai cancelli del campo, oggi trasformato in museo del Landek. Insieme ad altri visitatori cammino per alcuni chilometri, lungo i quali un tempo correva un binario, quello del treno che doveva imbarcare il carbone estratto dalla miniera. Varcato l’ingresso, un montacarichi traballante ci porta 20 metri sotto il livello di calpestio. Il nostro Virgilio è un ex-minatore, che ha lavorato tutta la vita in questi antri senza luce. Conosce solo il ceco, così per la traduzione mi affido a una giovane coppia che viene dalla Boemia, e parla inglese. Dopo mezz’ora, inizia a mancare a tutti l’aria e il freddo si fa insopportabile. Ci mostriamo impazienti di risalire, alla fine chiediamo di riportarci su, ma la nostra guida continua a fermarsi davanti ad ogni carrello, a ogni cavità, a ogni lampada ad olio, con lo stesso scrupolo con cui una guida alla Reggia di Caserta commenta ogni quadro. Finalmente il montacarichi riparte e noi riemergiamo in superficie.
Quel processo di ‘reificazione’ che nei paesi socialisti era sempre in atto ha convinto Kundera stesso di essere ciò che il Partito pensava che fosse: un individualista, un egoista privo di ogni fede politica, un vigliacco indifferente alla patria.
La visita, però, non è finita, manca il museo, che potremo vedere – ci dicono – dopo la pausa pranzo. C’è una trattoria qui, ed è l’unico posto accogliente in questa landa spettrale e desolata. Il pasto ha il sapore del primo dopo la discesa agli inferi e la stufa accesa ci fa trovare un po’ di riparo dal freddo irreale assorbito sotto. Alle tre, ci accalchiamo verso l’ingresso del museo, per guadagnare un posto vicino alla guida, che purtroppo è la stessa del mattino. La prima sala è dedicata alla celebrazione dei grandi eroi del Landek, gli ingegneri che l’hanno progettata e costruita e gli alti gradi dell’esercito che l’hanno gestita. La seconda sala porta incisi su ogni centimetro delle ampie pareti i nomi dei caduti della miniera. La terza, la più grande e la più lunga, espone nelle grandi vetrine le divise dei militari del Landek e la lista dei suoi comandanti. È solo qui, davanti alla sfilza di mimetiche, alle mostrine ancora attaccate alle giubbe, alle onorificenze guadagnate dagli ufficiali in servizio nella miniera, che mi sembra di avere un’illuminazione: Why?, chiedo alla guida cercando con gli occhi il sostegno dei miei compagni di visita, Perché?, se il Landek era solo una miniera e i minatori erano semplici lavoratori e non prigionieri, perché tutti questi militari? Quello che stiamo visitando, quindi, era un campo di lavoro forzato? Chiedo alla coppia boema di tradurre in ceco la mia domanda, di tradurla alla guida, ma la guida non mi risponde. Nessuno si scompone, resto sola nella stanza, mentre tutti gli altri transitano in silenzio verso l’uscita.