Q uando ero piccola, a mio cugino venne regalata una macchina giocattolo elettrica. Vedendola sfrecciare, mi resi conto di volerla anch’io. Ero estremamente soddisfatta delle mie bambole e del set per fare le pizze, ma avrei anche voluto giocare con quella piccolissima Ferrari. Nonostante ciò, mi vergognavo a chiederla. Pensavo che non fosse per femmine e che fosse strano desiderarla. Non ricordo i miei genitori o qualche altro adulto dirmi che quella macchina non faceva per me. Ma lo sentivo come un fatto: quello era un gioco da maschio.
Più avanti, durante la mia formazione accademica mi sono trovata diverse volte a studiare testi universitari che sostenevano che in effetti una femmina ha tendenze, desideri, aspirazioni e comportamenti peculiari rispetto al maschio, suo coospecifico. E questo perché esisterebbero due modelli cerebrali umani anatomicamente e funzionalmente definiti determinati dal sesso biologico (inteso in maniera semplicistica come il sesso genotipico XX o XY): uno maschile e uno femminile. Secondo questa visione, le due categorie presenterebbero, oltre le funzionalità basiche che caratterizzano la specie, differenze predeterminate e immodificabili comunemente considerate come connotazioni di genere e strettamente legate ai concetti di mascolinità e femminilità.
Anche fuori dall’accademia, chiunque ha sentito almeno una volta di risultati di esperimenti che sostengono, per esempio, che le donne non sappiano orientarsi nello spazio e che gli uomini non vantino capacità di multitasking. Ma è proprio vero che i suddetti studi dimostrino l’esistenza di queste due categorie così puntuali? Gli esperimenti forniscono davvero evidenze indiscutibili in questo senso? E possono considerarsi scevri da interpretazioni a loro volta frutto di stereotipi di genere?
Chiunque ha sentito almeno una volta di risultati di esperimenti che sostengono che le donne non sappiano orientarsi nello spazio e che gli uomini non vantino capacità di multitasking. Ma è proprio vero?
Credo che per approcciarsi alla ricerca neuroscientifica sia necessario considerare il rischio di incorrere in due grandi errori, soprattutto quando si parla della sua divulgazione. Il primo è dovuto alla distorsione, anche involontaria, dei risultati scientifici: nel riportare le evidenze riscontrate, legate a processi non sempre intuitivi, è infatti molto facile ricorrere alla rielaborazione semplicistica dei dati ottenuti, che a sua volta può sfociare nel loro travisamento. Ciò è dovuto sia alla difficoltà evidente di tradurre dati tecnici in concetti, sia alla tendenza a confondere le riflessioni e ipotesi conclusive degli studi con delle prove definitive. Il secondo frequente errore è considerare la scienza (e tutto ciò che da essa deriva) come esatta e oggettiva in ogni sua manifestazione e di conseguenza inconfutabile. Se un esperimento determina un certo risultato, questo potrà essere scambiato per un fatto. Ma la scienza non funziona così. Al contrario, anzi, la scienza avanza per tentativi, per prove ed errori, per discussioni tramite le quali si cerca di arrivare a un consenso. E inevitabilmente chi fa ricerca può essere soggetto, come tutti gli esseri umani, a bias cognitivi, cioè errori sistematici di valutazione nell’interpretazione delle informazioni in possesso (come ad esempio il bias di conferma).
Gli esperimenti, pertanto, come tutte le pratiche umane, possono essere anche fortemente influenzati dal contesto storico e culturale di riferimento, sia nel processo di formulazione delle ipotesi che nelle fasi di raccolta e analisi dei dati. I valori, la politica, i pregiudizi comuni e personali possono orientare in maniera più o meno esplicita gli errori di valutazione e interpretazione di chi fa ricerca. Non a caso, una delle caratteristiche ritenute più probanti per l’attendibilità di un esperimento scientifico è la sua replicabilità, elemento che dovrebbe garantire la sua indipendenza da fattori esterni.
In quest’ottica, sarebbe ingenuo pensare che gli stereotipi legati al sesso biologico e al genere non possano aver in qualche modo influenzato almeno alcuni degli studi di settore eseguiti fin qui. Soprattutto se si pensa che gli stereotipi maschilisti con i quali veniamo a contatto non sono pochi, e li viviamo tutti i giorni. Un esempio banale ma comune: qualche giorno fa ero in auto con degli amici e ci stavamo lamentando della guida della macchina che ci precedeva. Qualcuno di noi ha cominciato a usare il pronome femminile per il guidatore dell’auto senza che avessimo nessun indizio sul genere dell’individuo in questione. Se non sa guidare, sarà sicuramente una femmina. Quante persone formulano pensieri simili ogni giorno anche senza esserne coscienti? È molto facile venir condizionati dai pregiudizi che ci circondano, e i ricercatori e le ricercatrici non sono automaticamente esenti da questo rischio.
Inoltre, lo stato dell’arte delle ricerche in campo neuroscientifico è il luogo perfetto dove potrebbe nascondersi un pericoloso condizionamento reciproco tra i bias di ricerca dovuti agli stereotipi culturali e un bias di conferma delle ricerche scientifiche di maggior impatto. Se la ricerca viene condizionata dagli stereotipi della società, è inevitabile che i risultati delle sperimentazioni rischino di andare a validare e rafforzare questi ultimi, ancora prima che una cattiva divulgazione delle ricerche li amplifichi definitivamente finendo per consolidare la narrazione che i comportamenti di maschi e femmine siano sostanzialmente dovuti alle differenze nei loro cervelli.
La filosofa della scienza Cordelia Fine ha inquadrato la tendenza a legittimare le idee preconcette sulle differenze intrinseche tra i sessi attraverso la ricerca neuroscientifica coniando, nel 2008, il neologismo “neurosessimo”.
La filosofa della scienza Cordelia Fine ha inquadrato la tendenza a legittimare le idee preconcette sulle differenze intrinseche tra i sessi attraverso la ricerca neuroscientifica coniando, nel 2008, il neologismo “neurosessimo”. Senza voler negare l’esistenza di differenze neurobiologiche tra i sessi, Fine ha dedicato gli ultimi anni della sua carriera a contrastare l’interpretazione schematica e fallace secondo cui le differenze sessuali porterebbero naturalmente a nette differenze psicologiche e comportamentali.
Insieme alla neuroscienziata Gina Rippon, Fine ha intrapreso un lavoro di revisione e rilettura degli studi sulle differenze cerebrali legate al sesso, evidenziando come le idee di base influiscano sulla metodologia stessa di ricerca. Molte di queste ricerche tendono infatti, scrivono le studiose, a considerare e identificare già in partenza le differenze anatomiche tra i sessi come fondamento dei comportamenti. E non prendono sufficientemente in considerazione le somiglianze, che quasi mai sono oggetto di studio. Le formulazioni delle ipotesi di ricerca attingono spesso dagli stereotipi di genere, aggiungono Fine e Rippon, e nel cercare conclusioni sono troppo spesso guidate dall’assunto secondo cui il comportamento di genere è innato. Secondo le studiose, invece, se si va a guardare studi eseguiti su grandi campioni, o rileggendo le variabili considerabili, emerge chiaramente come sia le caratteristiche peculiari anatomiche, sia le capacità cognitive che il comportamento sociale non divergono in modo così netto tra individui di diverso sesso. Un esempio sono le ricerche sulle dimensioni del cervello (fattore spesso studiato senza rapportarlo alle dimensioni del corpo) o sulla quantità di connessioni cerebrali (molto diverse da individuo e individuo) dove la valutazione degli effetti degli ormoni sul cervello è stata oggetto di una significativa sovrastima: le sottili fluttuazioni statistiche di queste caratteristiche tra i sessi sono infatti state impropriamente raccontate però come causa predominante di differenze cognitive e comportamentali rilevanti.
Nel suo saggio The Gendered Brain Gina Rippon racconta l’impatto di molti studi deboli o fallati che, in questo campo, hanno avuto però una enorme eco mediatica. Per esempio la ricerca dell’università di Yale del 1995, una delle prime a utilizzare la risonanza magnetica funzionale per misurare le aree cerebrali deputate al linguaggio. Gli psicologi Sally and Bennett Shaywitz scrissero di aver scoperto che, mentre gli uomini usavano solo una parte particolare del lato sinistro del cervello per l’elaborazione del linguaggio, le donne usavano sia il lato destro che quello sinistro. Lo studio venne accolto, anche da una parte della comunità scientifica, come la “prova definitiva” che uomini e donne usano il cervello in modo diverso per svolgere lo stesso compito. Come ricorda Rippon nel saggio, l’immagine che raffigurava la diversa distribuzione dell’attività cerebrale (tutta raggruppata da un lato per gli uomini, distribuita da entrambi i lati per le donne), divenne immediatamente un simbolo e viene riportato ancora oggi, spesso fuori contesto, su giornali e riviste.
Solo in seguito diventò chiaro (soprattutto per merito di Cordelia Fine) che quello studio nascondeva diversi aspetti critici. Prima di tutto le dimensioni del campione erano ridotte (un limite piuttosto comune all’epoca). Ai partecipanti vennero sottoposti poi quattro compiti di elaborazione di testi ma lo studio riportò i risultati solo di uno di questi. Infine l’attivazione bilaterale nei soggetti di sesso femminile venne riscontrata, sì sulla maggioranza delle donne, ma una maggioranza esigua: 11 su 19. Le altre 8 mostravano un’attivazione del tutto simile a quella degli uomini, che non venne discussa. Tutti problemi “non dovuti tanto a errori intrinseci nello studio stesso, ma piuttosto a come venne interpretato”, scrive Rippon. Non solo dalla stampa generalista ma anche dalla comunità scientifica. Lo studio venne citato 1600 volte dal 1995 e continua a essere citato anche in anni recenti, nonostante “diversi tentativi di replicazione della ricerca siano nel frattempo falliti, e meta-analisi più recenti e una revisione critica dell’intera questione delle differenze di sesso nella lateralizzazione del linguaggio non siano riuscite a trovare prove di tali differenze”. L’articolo non sarebbe pubblicabile oggi, conclude Rippon: “la metodologia è andata avanti, tecniche molto più sofisticate consentirebbero di porre domande molto più sofisticate a set di dati molto più grandi. Eppure quella ricerca è ancora ampiamente ricordata”.
Un altro esempio sono gli studi sul testosterone, ormone che Cordelia Fine, in un suo lavoro, definisce ironicamente Testosterone Rex per sottolinearne la sua presunta forza polarizzante (riprendendo l’espressione dell’endocrinologo e divulgatore Richard Francis). Il testosterone è solitamente prodotto in maggiore quantità da individui XY, e viene indagato in molte ricerche partendo dal presupposto che determini caratteristiche storicamente associate al maschio e alla mascolinità: aggressività, competitività e promiscuità. Caratteristiche che non sono però prerogativa unicamente maschile e anzi variano notevolmente non solo tra gli esseri umani, ma tra gli animali in generale. Fine ha portato in luce errori di campo e sottovalutazioni dei campioni in molti studi sul testosterone, e ha sottolineato poi come in molti esperimenti vengano tratte conclusioni prendendo in analisi un singolo momento nella ben più lunga e articolata storia cerebrale di ogni individuo.
Ciò sembra dovuto a una concezione semplicistica, sebbene diffusa e presente nella ricerca, del comportamento umano considerato come predisposto, immutabile e slegato dal suo adattamento all’ambiente. Molti comportamenti umani sono cioè considerati “naturali” quando sarebbero invece da considerare culturalmente consolidati. La monogamia, per esempio, è stata a lungo considerata un modello innato per la nostra specie, o quantomeno di successo in termini di convenienza riproduttiva. Ma, scrive Fine, supportata da studi di psicologia evoluzionistica, gli esseri umani si sono accoppiati e riprodotti con successo nella loro storia utilizzando ogni tipo di accordo sociale, a seconda del tempo, del luogo e delle circostanze in cui si trovavano. Non esiste un solo modello naturale, e anche modelli meno diffusi come la poliandria (una femmina con due o più partner maschi) sono stati adottati in molte parti del mondo nel corso della nostra storia evolutiva.
Persiste ancora una concezione semplicistica, nella ricerca, del comportamento umano considerato come predisposto, immutabile e slegato dal suo adattamento all’ambiente.
Secondo Fine e Rippon, in molti esperimenti si evince poi una grande confusione nei confronti del concetto di genere, che è perlopiù trattato anch’esso come un fenomeno naturale più che come costrutto sociale. Da qui la frequente e fallace sovrapposizione tra sesso biologico e genere, che mette in luce la necessità sempre più incalzante di una formazione specifica per chi indaga il comportamento umano. Una più approfondita e aggiornata conoscenza degli studi di genere implicherebbe infatti una minore suscettibilità agli stereotipi e alle semplificazioni dicotomiche, oltre che fornire ulteriori chiavi di lettura che vadano al di là del pensiero essenzialista applicato al genere.
Secondo le due studiose, per la definizione di possibili nuove linee guida che aiutino lo studio delle differenze cerebrali legate al sesso – e quindi dei presunti comportamenti di genere–, bisogna tenere a mente alcuni concetti chiave. Prima di tutto, non considerare la configurazione cerebrale come necessariamente predittiva di un certo comportamento. La predisposizione biologica influenza sì il comportamento degli individui, ma in modi molto più complessi, variegati e difficilmente indagabili di quanto porti a pensare l’essenzialismo biologico. La caratteristica A non darà quindi necessariamente una serie di comportamenti B. E quindi fondarsi unicamente sull’osservazione anatomica porta con sé il rischio di adombrare e dimenticare le realtà funzionali. È ormai noto, per esempio, che diversi schemi di attivazione neuronale siano in grado di determinare la medesima abilità e predisporre lo stesso comportamento. E che somiglianze comportamentali possono essere riscontrate anche in presenza di differenze cerebrali.
Come seconda cosa, dovremmo definitivamente abbandonare l’idea che esistano un cervello del tutto “maschile” e uno del tutto “femminile”: la realtà strutturale e funzionale del cervello è piuttosto un complesso mosaico di caratteristiche (semplicisticamente definite maschili e femminili) che variano da individuo a individuo. Una persona può dunque essere molto empatica e allo stesso tempo più portata per il calcolo matematico a prescindere dai suoi cromosomi sessuali. Sebbene gli ormoni abbiano una certa influenza, non determinano tuttavia in modo così rigido i comportamenti femminili e quelli maschili.
Terza cosa: il comportamento sorge da un’interazione fortemente complessa tra fattori multilivello che si influenzano reciprocamente. Oltre a quelli a livello biologico, che come abbiamo visto già di per sé variano molto tra gli individui, assumono un ruolo rilevante anche quelli a livello di contesto, come per esempio le norme culturali prevalenti, il sistema dominante, le disuguaglianze, gli stereotipi a cui si è soggetti (a questo proposito in letteratura si parla di stereotype threat), lo status, il ruolo deciso o imposto, nonché i fattori a livello individuale come il benessere, l’educazione ricevuta, lo sviluppo emotivo, le dinamiche interpersonali, le esperienze vissute, le abilità apprese ed esercitate, lo sviluppo identitario e di genere. Infine, le predisposizioni cerebrali possono essere modificate, neutralizzate o persino invertite dall’interazione con l’ambiente. In altre parole, ciò significa che, per esempio, a incidere maggiormente sullo sviluppo di una specifica abilità matematica sia il fatto, più che una mera questione di ormoni, che un individuo di sesso femminile sia socialmente più scoraggiato a studiare e apprendere la materia rispetto a uno di sesso maschile.
Il neuromito delle differenze nette tra cervello maschile e femminile è ancora fortemente radicato nella società contemporanea, alimentato da media, libri scientifici datati e intellettuali nostalgici.
In sintesi, Fine e Rippon dicono che le differenze strutturali e funzionali cerebrali non possono essere nettamente categorizzate in base al sesso dell’individuo e che il genere è una realtà da intendere come multifattoriale piuttosto che bidimensionale. Inoltre, l’influenza di esperienza, allenamento e cultura di contesto nello sviluppo cerebrale si rivela incisiva e dimostra che la plasticità cerebrale è un fattore fondamentale da considerare nello studio del comportamento umano. In quest’ottica è ancora più evidente la pericolosità del condizionamento reciproco tra bias di ricerca dovuti agli stereotipi culturali e impatto delle ricerche scientifiche nella loro ulteriore conferma.
La questione chiave non è sostenere che non vi siano differenze strutturali o funzionali del cervello determinate dagli ormoni. Ma considerare il fatto che le caratteristiche neurali non siano così nettamente distinte a seconda del sesso, e che le differenze medie non siano facilmente identificabili. Bisogna quindi favorire i modelli multifattoriali che considerino non solo i geni, ma anche il contesto socioculturale e le esperienze individuali, in modo da abbandonare definitivamente la concezione essenzialista. Per dirla con le parole della stessa Rippon: “i cervelli riflettono le vite che hanno vissuto, non solo il sesso dei loro proprietari”.
I primi lavori di revisione di Fine e Rippon – a cui nel frattempo si sono aggiunti quelli di molte altre colleghe – hanno ormai quindici anni. Nel mondo della ricerca i nuovi modelli multifattoriali stanno cominciando a ottenere finalmente riscontro, seppur lentamente. Ma il neuromito delle differenze nette tra cervello maschile e femminile è ancora fortemente radicato nella società contemporanea, alimentato da media, libri scientifici datati e intellettuali nostalgici. Oltre che dalla diffusa fatica ad abbandonare la classificazione del comportamento umano in categorie e di accettare e concepire invece la complessità di ogni individuo.