Anna Castelli
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Workshop con le tessitrici. Foto Anna Castelli.
20.6.2023
Atlas guaranì
La ricerca antropologica attraverso gli strumenti della danza.
Anna Castelli Anna Castelli è dottoranda in Visual and Media Studies presso l'Università IULM di Milano. I suoi principali interessi di ricerca riguardano il rapporto tra arte e antropologia nel contesto della storia dell'arte globale. Al momento il focus del suo lavoro riguarda il tema delle restituzioni. Precedentemente ha insegnato alla NABA (Milano) e all’Università IULM (Milano). Nel 2022 ha scritto, insieme all’antropologo Franco La Cecla, il libro “Scambiarsi le arti. Arte e antropologia” (Bompiani).
N
el mese di marzo 2023 sono stata invitata dal Centro Nazionale di Produzione della danza Virgilio Sieni a Santa Rosa di Cuevo, un villaggio guaranì di poche case di fango e paglia nella regione del Chaco boliviano. L’obiettivo era quello di sondare il contesto attraverso gli strumenti della danza insieme alla coreografa Delfina Stella: qualcosa che gli antropologi sono abituati a fare in genere con il fieldwork, con interviste, osservazione partecipata, shadowing e note di campo.
In Resonance: Beyond the Words (Chicago University Press, 2012) , il libro che raccoglie i suoi quarant’anni di studi antropologici, Unni Wikan ricorda un aspetto fondamentale del suo primo lavoro sul campo:
Quando ho iniziato a lavorare con le famiglie di un quartiere povero del Cairo nel 1969, la mia conoscenza della lingua era scarsa. Avevo studiato l’arabo per un anno all’università, ma non sapevo granchè parlare. Questo dissuadeva le persone dal cercare di interagire con me? Tutt’altro! Si aprivano come se fossi in grado di capire tutto quello che mi dicevano, anche se era abbastanza chiaro, anche a loro, che non lo ero. Quando i loro tentativi di comunicare incontravano la mia espressione perplessa, vuota, iniziavano con un’altra serie di rumori e borbottii, verbali e non, per cercare di arrivare a me e affermare il proprio punto di vista.
E continua:
Ma quello che mi colpisce, quando ci ripenso, è quanto ho capito, e quanto le persone hanno dato per scontato che potessi capirle, senza avere una grande conoscenza del “linguaggio”.
Le parole di Wikan riecheggiano pensando allo strumento principale che, insieme a Delfina, abbiamo utilizzato per esplorare le ritualità condivise di questo popolo; uno strumento che precede la parola: il gesto.
Progetto ospite del Festival internacional de las Artes, Atlas guaranì, nuevos gestos del siglo XXI è un tassello di un più ampio progetto che parte dall’osservazione di come la gente si muove nella vita quotidiana, nelle competenze dei lavori, nelle relazioni fino ad arrivare all’elaborazione di azioni coreografiche e ad un’opera collettiva e condivisa sul senso del gesto “ascoltato”. Il progetto di Sieni ha inizio a Firenze nel 2002 con l’esperienza Bottega Inside, durante la quale danzatori e artigiani dell’Oltrarno si riuniscono all’interno delle botteghe per scambiarsi gesti e movimenti in modo diretto, senza alcuna mediazione teorica (un approccio che riprende la pratica artigianale stessa, in cui il passaggio delle conoscenze avviene attraverso l’azione e l’esperienza). Da quella sperimentazione, nel 2007, prenderà vita l’Accademia sull’arte del Gesto, la cui metodologia si fonda sull’idea della trasmissione del movimento secondo un approccio conoscitivo sul corpo in relazione all’altro, allo spazio, all’ambiente e alla natura. In Bolivia la sfida diventa particolarmente audace e nuova: si tratta di immergersi in un mondo rurale e indigeno, nel suo paesaggio di argilla e alberi di quebracho. Abitare il gesto dell’altro diventa la strategia quando, come ci ricorda Tim Ingold in Making: Antropologia, archeologia, arte e architettura (Raffaello Cortina Editore, 2013) “la mera trasmissione di informazione non ci dà garanzia di conoscenza, né di comprensione”.
Mentre faccio lavoro sul campo, passo ore accovacciata nella polvere rossa dell’altopiano con la videocamera in mano. Quest’ultima giustifica formalmente il mio osservare continuo dei visi, dei corpi, dei gesti della gente di Santa Rosa, che si riunisce attorno all’ex monastero del villaggio.
Santa Rosa sembra galleggiare sulla sabbia, appoggiata casualmente in un angolo del paesaggio, con lo stesso atteggiamento delle piante dalle radici aeree che rotolano sul terreno o sostano sui fili elettrici sopra il paese.
In questo paesaggio aspro, color terra di Siena bruciata, arido e nello stesso tempo ricchissimo di calanchi, pietre tonde, silicati argillosi e ombre, la terra si contrappone ai verdi e ai blu delle montagne che si stagliano contro il cielo terso. Colpi di luce sono interrotti da passaggi di cani, da piste di polvere, dal sollievo di ruscelli e cascate che appaiono e scompaiono. I guaranì fluttuano, si muovono leggeri sulla loro terra, nessuno ha un passo pesante. Tutt’uno con la loro geografia, ci ricordano le parole di Sergio Atzeni sui sardi delle origini nel suo capolavoro Passavamo sulla terra leggeri.
Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.
Al villaggio si arriva da un’unica strada passando per un ponte che, alla fine della nostra permanenza, sarà spazzato via da una pioggia torrenziale simile a quella che recentemente ha allagato alcuni territori della Romagna. Il ponte verrà ricostruito solo molto tempo dopo. Santa Rosa sembra galleggiare sulla sabbia, appoggiata casualmente in un angolo del paesaggio, con lo stesso atteggiamento delle piante dalle radici aeree che rotolano sul terreno o sostano sui fili elettrici sopra il paese. Le case, che inizialmente ci sembravano poche, sono solo il segno per noi più evidente di un vasto territorio abitato, disseminato di nuclei di famiglie guaranì che vivono nell’intrico di macchia e alberi. Qui, la casa non è una merce né un “bene immobiliare”, è legata alla terra e vissuta collettivamente. Se una famiglia lascia il luogo dove ha abitato, questo viene utilizzato da qualcun altro.
I guaranì sono presenti nel Chaco da secoli. Sono stati i padroni di queste terre fino a quando non vennero resi servi della gleba dagli spagnoli e poi dallo stato nazionale. Nel Settecento, i gesuiti crearono delle enclaves dove gli indigeni potevano essere liberi, ma soggetti all’educazione religiosa, le reducciones. Dei guaranì si racconta che da sempre siano stati alla ricerca di una “Tierra sin mal”, di un mondo libero dalla morte. Lo racconta con ironia anche Elio Ortiz, un antropologo guaranì, autore insieme al regista Juan Carlos Valdivia del film del 2013 Yvy maraey, che in lingua guaranì significa “La terra senza il male”. Il remoto villaggio di Santa Rosa, fondato nel 1888, è un frammento di un mondo vasto e antico in cui le comunità hanno preso il controllo del proprio destino solo un secolo dopo, attorno alla metà degli anni Ottanta. Da peones, quasi schiavi dei latifondisti, tramite una sottile ma costante costruzione di reti di resistenza, anche grazie ad alcuni francescani arrivati qui dall’Italia quarant’anni fa, oggi i guaranì hanno diritti, scuole, ospedali e dignità.
A Santa Rosa, i movimenti dei singoli creano una composizione armonica collettiva.
Distogliere le persone della comunità dalle loro abitudini quotidiane significa sottrarli ad attività necessarie. Entriamo nelle case, nell’unico negozio, nella scuola. Usiamo come punto di partenza del progetto l’elaborazione del loro patrimonio gestuale fatto di sguardi, posture e modi di fare. Chiediamo loro di ripetere per noi i gesti quotidiani e ci accorgiamo subito che esiste una maniera di percepire i confini del corpo molto diversa dalla nostra. I movimenti dei singoli creano una composizione armonica collettiva. Nel 1942, Flora Bailey pubblicò uno studio sui gesti dei navajo, analizzandone le abitudini personali, sociali e lavorative e soffermandosi su quel modo di camminare che ha come effetto agio, rilassamento e controllo nell’andare. Si potrebbe dire lo stesso dei guarani che osserviamo muoversi? Il movimento è un “saper fare”, un qualcosa che non si impara, ma dentro cui si nasce.
Attraverso lo spioncino della videocamera vedo la naturalezza con cui accettano di danzare i propri gesti quotidiani e mi stupisco della duttilità con cui lo fanno: si distendono per terra, intrecciano i corpi, usano il corpo dell’altro come appoggio nei momenti di pausa, sembra non esistere un confine tra il me e il te. Osservando, inizia ad essere sempre più chiaro che tra i guaranì esiste uno spazio prossemico diverso da quello a cui siamo abituati nelle nostre società europee e che questo aspetto va di pari passo con una diversa concezione di ciò che è “mio”. Non a caso Rocìo Dosserich, dell’Universidad Indigena Guarani “Apiaguaiki Tupa”, mi racconta durante una chiacchierata informale che i guaranì sono noti tra i popoli indigeni per l’incapacità nel tenere aperto per lungo tempo un esercizio commerciale: quando possono condividono quello che hanno. L’avarizia, che va a braccetto con l’avidità, è considerata il peggior peccato. Ciò che si ha, si condivide.
Il concetto di proprietà si basa sulla condivisione e sull’uso collettivo e non sulla proprietà individuale. Parallelamente, lo spazio personale può essere partecipato dall’altro e rispettato in modo collettivo. Le distanze fisiche tra le persone durante le interazioni possono variare a seconda del contesto, delle relazioni e dell’intimità tra gli individui coinvolti. Tuttavia, nelle conversazioni informali o durante le attività quotidiane all’interno della comunità, i guaranì vivono con totale agio una distanza fisica ravvicinata, che prevede contatto, toccamenti leggeri, sia tra i più giovani che tra gli adulti, quasi come se ci trovassimo di fronte a un corpo collettivo. Osservarlo, registrarlo, scatena in me una profonda, sincera serenità, un sentimento che a tratti mi sorprende. D’altra parte, come ci ricorda Giorgio Agamben in Mezzi senza fine siamo figli di “una società che ha perduto i suoi gesti [che] cerca di riappropriarsi di ciò che ha perduto e, insieme, ne registra la perdita” in un’epoca in cui “ogni naturalezza è stata sottratta, ogni gesto diventa un destino”.
Ed è così che nei gesti quotidiani della vita di questa comunità, per quanto fortemente influenzata e divisa nella propria fede cristiana, tra cattolici e evangelici, e soggetta a costanti invasioni di imprese estere che trivellano il terreno a scopo estrattivo, si vedono le tracce di un rapporto ancestrale, mai messo da parte, con la terra e con l’altro.
L’abitudine alla prossimità dell’altro la si può leggere nel modo in cui Raquel, la macellaia, decide di affidarsi al corpo di Delfina. Le due donne si conoscono appena, da non più di un quarto d’ora, ma nell’intimità del negozio, davanti agli sguardi distratti dei familiari e a quello assolutamente indisturbato della mia telecamera, i due corpi improvvisano un duetto a partire dai gesti del tagliare la carne, del pesarla, del pulirla. È una danza fatta di tocchi, di abbracci, di risposte. Vedo i visi delle due donne, le loro fronti appaiarsi e i corpi accovacciarsi appoggiando il capo una sulla spalla dell’altra.
Ciò che siamo abituati a fare con un foglio e una matita, qui accade inclinando la sedia verso il suolo e tracciando linee in uno spazio che i nostri corpi non frequentano.
La continuità con il corpo dell’altro, la si può leggere nel modo in cui Neida, Carla, Lorena, Silvia, Andra, Liseth e Rosa, a coppie, usano le braccia, le gambe, il torso, il volto, la nuca della compagna come se fosse il proprio strumento di lavoro. I gesti del tessere – avvolgere, far scorrere le dita su un ordito, battere con il pettine, sfilare la navetta con un movimento fluido e rapido, tirare, tagliare e legare i fili – divengono una performance e svelano la loro unità. Quest’arte prevede intenzionalità, sapere che cosa si sta facendo, consapevolezza delle potenzialità e della potenza del gesto, esattamente come nella danza.
Il rapporto con la terra si manifesta per pura casualità a noi attraverso i disegni di John, otto anni. Usa la pavimentazione di terra battuta del monastero come una tavola dove rappresentare ciò che vede, soprattutto gli elicotteri dell’impresa cinese che quotidianamente sorvolano il villaggio e che lo affascinano infinitamente. Successivamente notiamo che l’anziano mburuvicha (leader) Calisto, un uomo cosciente della centralità del gesto nel rapporto con l’altro, utilizza il pavimento di casa sua per descrivere, disegnando nella polvere, le strategie impiegate dai cinesi, da mesi impegnati a eseguire carotaggi per cercare gas naturale e giacimenti minerari. Ciò che siamo abituati a fare con un foglio e una matita, qui accade inclinando la sedia verso il suolo e tracciando linee in uno spazio che i nostri corpi non frequentano, che abbiamo allontanato e di cui abbiamo dimenticato il possibile uso.
L’artista Matt Mullican, nei suoi interventi di arte pubblica, privilegia la pavimentazione: lavorare a terra riduce le probabilità che le opere vengano vandalizzate. Mullican attribuisce questo fatto alla presunta supremazia del corpo umano rispetto al suolo, al fatto che il potenziale vandalo si sente già in una posizione di dominio fisico rispetto all’opera a differenza di una parete che lo “sfida” al dialogo.
La sociologa e attivista boliviana Silvia Rivera Cusicanqui racconta nel suo libro Un mundo ch’ixi es posible. Ensayos desde un presente en crisis (Tinta limón, 2018) come, in passato, soprattutto nella regione andina, esistesse “una relazione di ricerca e costruzione di territori, fondamento di appartenenze e genealogie spaziali; una relazione che nasceva dal lavoro delle mani, del camminare, del tha-ki-takiy (cammino e danza, processione danzante rituale in uno spazio sacro)”. Nel Gran Chaco, la sabbia argillosa non è solo palcoscenico della rappresentazione della vita umana, ma l’elemento che modella i corpi dei guaranì. Il rapporto che si instaura tra corpo e paesaggio è una danza di addomesticamento reciproco.
Con il nostro arrivo a Santa Rosa, ci siamo introdotti come elementi esterni, come in ogni lavoro sul campo. Abbiamo chiesto agli abitanti di avviare con noi un negocio de gestos, un commercio di gesti, con “l’onestà” che ogni scambio offre. In questo “do ut des”, in questo “dare e avere”, abbiamo provocato le forme del quotidiano, quelle di cui i gesti sono la muta ed eloquente espressione. La videocamera ne ha assorbito il fascino. Vederli, però, ci permette di comprenderli solo in minima parte. Replicarli, al contrario, ci porta a un altro livello di esperienza, permettendoci di imprimerli sulla memoria della superficie corporea.
Nel Gran Chaco, la sabbia argillosa non è solo palcoscenico della rappresentazione della vita umana, ma l’elemento che modella i corpi dei guaranì.
In questo scambio si evidenzia la relazione profonda tra arte e antropologia. Come osserva sempre Tim Ingold si può “considerare l’arte come una disciplina che condivide con l’antropologia il comune intento di risvegliare i nostri sensi per permettere alla conoscenza di crescere dall’interno dell’essere nel dispiegarsi della vita. Intraprendere un’antropologia con l’arte [in questo caso con la danza] significa corrispondere con essa nel suo stesso movimento di crescita o divenire, in una lettura che procede in avanti anziché a ritroso, e che segue fino in fondo i sentieri lungo i quali essa conduce”.