I l 12 gennaio scorso, mentre Shakira gliele cantava a Gerard Piqué battendo ogni record di visualizzazioni e ascolti su Youtube e Spotify in un giorno solo (circa 80 milioni in totale, persona più persona meno) con Bzrp Music Sessions, Vol. 53, io ero a farmi la tinta ai capelli al Salón Miura, un piccolo parrucchiere all’ingresso della cittadina di San Fernando, patria d’origine di Camarón de la Isla, considerato il più grande cantante di flamenco della storia. Vado lì da quando tre anni fa mi sono trasferita in Andalusia e ogni volta osservo soddisfatta lo scontrino, pensando a quanti soldi sto risparmiando rispetto a quando vivevo a Milano. Le ragazze del Salón Miura si chiamano Paula, María, Verónica e Estefanía. Ai miei occhi rappresentano l’essenza stessa della latinità spagnola del sud con il loro tono di voce deciso che tralascia le s a fine parola, le loro labbra dai rossi e rosa accesi e la loro determinazione.
La prima volta che sono andata al Salón Miura, Estefanía commentava la serie Soy Georgina – che racconta l’ascesa della compagna di Cristiano Ronaldo da commessa in una boutique di lusso a essere “la moglie di” – con una foga e un’indignazione che per un attimo ho pensato stesse parlando di una persona a lei molto vicina, una cognata o una cugina. Per questo, ispirata dalla mia amica giornalista e scrittrice Marga Durá che in un messaggio di poche ore prima, riferendosi all’affaire Shakira mi aveva scritto: “Mi piacerebbe tanto che fosse una montatura tra lei e Piqué per guadagnare ancora più soldi e che ci rendessimo conto che i ricchi non sono lo specchio delle nostre miserie”, ho deciso di discutere con le donne del Salón Miura di quanto stava accadendo, e in particolare sentire la loro opinione in merito a un verso della canzone che stava scatenando un acceso dibattito tra le femministe di mezzo mondo:
Me dejaste de vecina a la suegra
Con la prensa en la puerta y la deuda en Hacienda
Te creíste que me heriste y me volviste más dura
Las mujeres ya no lloran, las mujeres facturan
[Mi hai lasciato la suocera come vicina di casa
Con la stampa alla porta e i debiti con l’Agenzia delle Entrate
Pensavi di avermi ferita ma mi hai reso più dura
Le donne non piangono più, le donne fatturano]
“Tanto per cominciare: che paghi”, commenta impietosa Verónica, riferendosi ai quattordici milioni e mezzo di euro che la cantante avrebbe evaso al fisco spagnolo. Una cifra di poco al di sotto del capitale che si calcola abbia fatturato con la revenge song dedicata all’ex (15 milioni di dollari). Capitale destinato però – deduco io – a coprire i costi di trasferimento a Miami dopo la rottura, che secondo quanto leggo su Marca.com, ammontano a 12 milioni di dollari. Non è chiaro però nell’articolo se includano o meno la spedizione via nave della flotta di automobili.
Un verso della canzone di Shakira stava scatenando un acceso dibattito tra le femministe di mezzo mondo.
“Comunque, Shakira o no, i soldi sono la base di tutto il sistema patriarcale – aggiunge Verónica – Io non ho figli, però appena una donna decide di averli inizia a pagare un costo economico. Io credo che le donne dovrebbero ricevere una compensazione anche solo per aver dato figli al matrimonio e alla società.” “I soldi sono la chiave della libertà perché tutto costa – aggiunge María – Mio marito sa benissimo che anche senza di lui ce la posso fare”. “Io credo – ammette Paula, la proprietaria – che l’aspetto economico sia solo una parte del problema e lo dico da libera professionista e madre, pensando alle poche garanzie che ho e ai salti mortali che faccio nella gestione del bambino.” “Mettendoti i bastoni tra le ruote ti castigano per aver voluto diventare imprenditrice” conclude Veronica.
Nel libro di Azzurra Rinaldi, economista femminista e direttrice della School of Gender Economics dell’Università degli Studi La Sapienza di Roma, Le signore non parlano di soldi. Quanto ci costa la disparità di genere? (Fabbri editori, 2023) ritrovo, strutturati e argomentati, tutti gli aspetti trattati con le ragazze del salone tra una piega e un trattamento alla cheratina. “Una vita senza denaro, allo stato attuale delle cose, non è una vita libera – mi conferma Azzurra durante la nostra lunga chiacchierata – e quello che la canzone di Shakira dice in fondo è: non ho bisogno di te. Non emotivamente, ma per mettere insieme il pranzo con la cena e crescere i miei figli. Poi è ovvio che in una prospettiva femminista, la critica sia rivolta tanto al sistema patriarcale quanto al capitalismo, ma solo una volta che abbiamo il conto e la pancia piena e siamo in grado di sopravvivere, possiamo dissertare per ore su quanto ci faccia schifo il resto.”
Azzurra Rinaldi evidenzia un cortocircuito nei ruoli che ricoprono uomini e donne all’interno del sistema economico e sociale: “Il sistema patriarcale – spiega – infantilizza uomini e donne in ambiti diversi. La donna tiene la barra dritta in casa, dove l’uomo è il bambino. All’esterno però la donna viene resa incapace di crescere, ostacolando la sua indipendenza. Nel nostro paese la donna che implora i cinque euro per comprare il pane è un canone socialmente accettato anche se è violenza economica.”
“In Italia – scrive ancora Rinaldi – oltre un terzo delle donne non è titolare di un conto corrente personale. È una condizione che rischia di impedirne l’empowerment, che fa sì che, in alcuni casi, vivano una sudditanza nei confronti dei mariti o dei compagni (i breadwinner, ossia coloro che portano il denaro a casa) e perfino che diventino vittime di violenza psicologica e fisica.”
La donna tiene la barra dritta in casa, dove l’uomo è il bambino. All’esterno però la donna viene resa incapace di crescere, ostacolando la sua indipendenza.
Secondo i dati riportati nel libro del The Domestic Abuse Report redatto dall’organizzazione britannica Women’s Aid, le conseguenze dell’abuso economico sono devastanti. “Il 71% delle vittime ha dovuto fare a meno anche di beni essenziali, il 41% ha dovuto usare il denaro destinato ai figli (accumulato per i compleanni o messo da parte sotto forma di risparmio) per acquistare il necessario per la sopravvivenza, il 61% si è ritrovato con dei debiti pendenti, il 37% ha avuto un rating negativo da parte degli istituti di credito. Non da ultimo, il 77% ha affermato che la violenza economica subita ha avuto ricadute anche sulla sua salute mentale.”
Per quanto Rinaldi faccia presente che la violenza economica colpisce donne appartenenti a qualunque ceto sociale, è evidente che Shakira abbia le risorse per uscire rapidamente da qualunque situazione. Come ad esempio un fuck off fund, termine coniato dalla scrittrice statunitense Paulette Perhach quando si è ritrovata prigioniera di una relazione violenta e delle rate delle auto da pagare, per definire un conto segreto che, in caso di fuga, consenta di vivere dignitosamente e senza l’aiuto di nessuno.
Al di là della condizione di Shakira e del suo conto corrente, quel che è certo è che quella strofa ha risvegliato molte coscienze e ha toccato un nervo scoperto soprattutto nei paesi latinoamericani, dove la canzone è stata recepita e assimilata con tutte le sue sfumature, diventando manifesto di una sofferenza che va al di là della lotta femminista o dell’interpretazione manichea nostrana: “madre degenere, non pensa ai cuccioli, che poco stile a insultare l’altra”.
Una storia di donne che piangono per amore
“Le canzoni di Shakira non sono femministe, e nemmeno questa lo è – commenta l’attivista e cantante rap guatemalteca Rebeca Lane quando parliamo su Zoom – ma questo non toglie che sia una canzone super potente e che sia importante. È servita per parlare della violenza che c’è all’interno delle coppie e di abbattere certi tabù come quello dell’infedeltà, non più vista solo come una questione privata ma come forma di violenza. Shakira allude a una storia fatta di donne che piangono per amore, la cui stragrande maggioranza ha sempre sopportato i tradimenti in silenzio. La frase vuole dire che non restiamo più zitte a soffrire, che i soldi li facciamo da sole e parla a una cultura nella quale le donne non gestiscono il denaro e non hanno indipendenza economica.”
Al di là della condizione di Shakira e del suo conto corrente, quella strofa ha toccato un nervo scoperto soprattutto nei paesi latinoamericani.
Se la frase las mujeres ya no lloran las mujeres facturan ha avuto questo effetto, è anche grazie alla costruzione stessa della canzone. “È quello che nella musica rap e nelle battaglie di freestyle chiamiamo punchline – mi spiega Rebeca Lane – ovvero l’ultima delle quattro frasi che compongono un verso – una barra, nel linguaggio rap – nel quale le prime tre ti preparano affinché la quarta sia memorabile”. E colpisca come un pugno in faccia l’avversario.
Prima di dedicarsi totalmente alla musica, Rebeca Lane ha studiato sociologia e lavorato come ricercatrice. Le sue canzoni parlano di femminicidio, violenza di genere, aborto legale, molestie sessuali, mestruazioni e chiedono giustizia collettiva. Con i suoi testi non si piange, si lotta. Mi viene dunque naturale domandarle che effetto le fa vedere una cantante che di questi temi non si è mai occupata, diventare simbolo di rivendicazioni che altre artiste come lei portano avanti da tempo senza scalare le classifiche.
“Sento che socialmente c’è un’interpretazione errata di quello che è femminista. Una cosa non è femminista solo perché viene fatta da una donna e nemmeno lo è ciò che vuole mettere le donne su un piedistallo – puntulizza Rebeca Lane – Così è facile superficializzare il discorso e perdere la prospettiva critica verso il patriarcato, il capitalismo e il colonialismo. Quando un discorso si superficializza è più facile da attaccare. L’idea dell’emancipazione personale è importante ma deve essere unita alla lotta collettiva. Il discorso non è se io voglio essere madre o no, ma chiedere per tutte educazione sessuale nelle scuole e aborto libero. Quando a parlare o a cantare di femminismo sono le grandi etichette musicali a noi viene tolto spazio e possibilità di aprire il dibattito.”
I soldi “buoni” non sono solo dei bianchi
Tra i primi commenti che ho letto sui social in seguito all’uscita di Bzrp Music Sessions, Vol. 53, c’è stato quello di Marte Manca, attivista transfemminista marchigiano di origine argentina. Nel suo post, Marte evidenzia il trattamento riservato a Shakira dai mezzi di comunicazione spagnoli che si riferiscono alla cantante chiamandola “la colombiana”. Espressione a suo vedere di una superiorità colonialista. Marte è un operaio e nei suoi scritti ritrovo la realtà del lavoro e della fatica che spesso manca nelle riflessioni intellettuali, anche in quelle che vorrebbero mettere al centro le categorie meno privilegiate ma ne sono incapaci perché proprio sul privilegio si fondano. Sentivo il bisogno di discutere con Marte di una sensazione che percepivo: a parlare di soldi e a stabilire i modi nei quali questi soldi sia dignitoso farli e usarli, è chi i soldi già ce li ha. Se a dire che li vogliono per farci quello che gli pare sono i poveri e le minoranze (donne incluse), non va bene. Forse è per questo che una delle versioni che più ho amato di Vol. 53 c’è quella de La Cholita Lu, una venditrice di strada originaria di Puno, in Perù, dalle forme rotonde, le gonne colorate e le lunghe trecce, seguita da un milione e quattrocentomila persone su Tik Tok.
Una cosa non è femminista solo perché viene fatta da una donna e nemmeno lo è ciò che vuole mettere le donne su un piedistallo.
“Da circa sette anni a questa parte, in coincidenza con la nascita del movimento femminisita Ni una menos in Argentina, si è iniziato a sentire nelle classifiche Billboard artiste donne di paesi che nessuno si è mai filato prima – osserva Marte – Prima della collaborazione con Shakira, Bizarrap aveva fatto una session con Villano Antillano, una donna transgeder dominicana che rivendica i soldi fatti con la prostituzione e con Snow Tha Product, californiana di origine messicana. È stato un modo per dire ai bianchi che anche noi latini riusciamo a fare i soldi, una riaffermazione di potere più che di denaro.”
Proprio nei giorni dell’uscita di Vol.53, in un articolo apparso sulla rivista argentina Anfibia, la filosofa Tamara Tenenbaum analizzava i testi e l’estetica di varie esponenti del trap latino, evidenziando il parlare di soldi come una nuova tendenza. In modi espliciti, a volte ironici, rivendicando insieme all’indipendenza economica il diritto a usare il proprio corpo nella strada verso il successo. Tra le artiste citate ci sono Cazzu, Farina, Natti Natasha e Karol G, colombiana come Shakira e sua complice nella seconda revenge song post separazione, TQG, nella quale insieme cantano:
Ya cambié mi norte, haciendo dinero como deporte
[Ho già cambiato rotta, facendo soldi come sport]
Tutte rappresentano a vario titolo delle sottoculture. Sono latine, afrodiscendenti, indigene, ex prostitute e transessuali che tendono a sfuggire dalla discografia e dai media tradizionali. Il loro parlare di denaro può risultare sboccato, volgare, privo di buon gusto. “I modi onorevoli di fare soldi – riflette Tanenbaum – sono quelli scelti dai ricchi, dai bianchi, dai maschi cishet (persone che si identificano con il genere assegnato alla nascita e che sono attratte da persone del genere opposto, ndr). Si guardano con sospetto le scarpe costose di un uomo nero con un berretto in testa, ma non quelle di un bambino ben vestito; gli stessi tacchi di Manolo Blahnik producono un’impressione molto diversa sui piedi di una ragazza trans che si mangia le S che su quelli di una studentessa universitaria della quale sappiamo — o crediamo di sapere— come ha fatto a fare i soldi per comprarle. Sulla seconda sembreranno eleganti, sulla prima una cafonata. Sarebbe meglio che i neri, le ragazze dei quartieri malfamati e i poveri fossero un po’ più discreti.”
Parlare di soldi senza mezzi termini, così come di femminismo, è dunque tollerato ma solo se non disturba. “Per raggiungere il tetto del mainstream – riflette Marte – devi accettare dei compromessi, se no, rimani nella nicchia. Shakira il femminismo l’ha usato perché si rende conto che è sentito e presente, il suo è un femminismo alla Beyoncé, ma non ha mai rivendicato le sue origini colombiane, ha assunto la bianchezza dentro di sé. La sua canzone è un testo di revenge come tante, ma il popolo è veramente strano perché rimodula tutto quanto riplasmandolo su sé stesso.”
C’è una strumentalizzazione del denaro “buono” associato a certe categorie e una rappresentazione affettivo-emotiva di esso.
Paola Iannello, psicologa e docente di “psicologia economica” all’Università Cattolica di Milano, riconosce che ci sia una strumentalizzazione del denaro “buono” associato a certe categorie e una rappresentazione affettivo-emotiva di esso. “Mentre per gli uomini il denaro è una strada per esercitare il proprio potere ed essere liberi – spiega Iannello – per le donne ancora oggi risulta essere legato a sicurezza, amore, affetto. Questo di fatto mantiene lo status quo e pertanto le donne, come le minoranze e le fasce di popolazione più fragile, fanno fatica ad avere accesso agli strumenti di base per gestirlo perché sono tendenzialmente escluse anche da un certo tipo di formazione e dai processi di socializzazione economica.”
“Se non si parla di denaro, come si possono avere conoscenze e competenze? – domanda Iannello – È notizia recente che in Italia l’educazione finanziaria entrerà nelle scuole e questo è un bene perché non solo non abbiamo un’educazione economica formale, ma nemmeno informale. Parlare di soldi spesso è un tabù anche in casa. Imparare in autonomia, per prove ed errori, su qualcosa di così importante può avere conseguenze pesanti.” In un sistema patriarcale e capitalista, rimarca Rinaldi, “senza denaro noi donne siamo esposte, fragili e depotenziate.” Ma cosa succede quando una società si basa su paradigmi diversi? Quando sono le donne a gestire gli affari e ad amministrare l’economia?
Il matriarcato cholo degli aymara in Bolivia
Valeria Salinas Maceda è una ricercatrice di La Paz e dottoranda presso l’Università di Salamanca. Da anni si dedica allo studio della cultura e dell’economia degli indigeni urbani aymara in Bolivia e alla figura della chola paceña quale simbolo dell’ascesa sociale delle donne native. Gli aymara sono una popolazione originaria dell’altopiano andino intorno al lago Titicaca, ma il processo di migrazione li ha portati a insediarsi in particolare a El Alto, città gemella di La Paz e situata a quattromila metri di altitudine. “È in città che inizia il rapporto delle donne aymara con il denaro – ricostruisce Salinas Maceda – che, arrivate dalle campagne, vanno a lavorare nelle case dei ricchi spagnoli. Loro sono le uniche capaci di parlare entrambe le lingue, lo spagnolo e l’aymara, e sono quindi il nesso tra gli agricoltori e i bisogni di chi vive in città. I “padroni” si fidano di loro e questo consente la scalata prima sociale e poi economica. Le donne aymara di città iniziano a adornare i loro abiti con elementi che non esistevano nelle campagne come pietre e gioielli e inizia a sorgere una borghesia chola, meticcia.” Da tutto questo processo l’uomo rimane escluso e cerca di mimetizzarsi nella società creola, mentre “le donne non si vergognano della loro identità culturale e la usano come strategia di negoziazione in un mondo maschile sviluppando, senza nessun accesso all’educazione, un’abilità innata verso gli affari.”
Uno dei rimproveri che spesso viene fatto agli aymara è quello di gestire un commercio informale, quasi a voler sminuire il loro successo e a delegittimarli in quanto, appunto, minoranza. “Questo poteva valere agli inizi – conferma Salinas Maceda – Ad esempio nella strada Eloy Salmon di La Paz, dove si trovano tutti i negozi di elettrodomestici, la prima attività è stato avviata da una donna chola e il mercato era principalmente rivolto ai paesi vicini come Cile e Perù. Molti commerci sono cresciuti grazie a sistemi estranei alle economie occidentali come il compadrazgo (legame basato sul rapporto personale che unisce amicizia e affari) o il pasanaku (un prestito senza interessi fatto da conoscenti), ma a partire dagli anni Duemila le cose cambiano, le donne iniziano a entrare nelle università e si forma una generazione di commercianti che vogliono che i loro figli siano diversi. Gli aymara oggi parlano inglese e cinese, studiano economia, amministrazione, diventano contabili o avvocati. Tanto i ragazzi quanto le ragazze.”
È in città che inizia il rapporto delle donne aymara con il denaro che, arrivate dalle campagne, vanno a lavorare nelle case dei ricchi spagnoli.
Il matriarcato economico aymara, apparentemente rivoluzionario perché originato e basato sull’intraprendenza e le capacità femminili, è però accompagnato da diversi aspetti contraddittori che ne limitano le potenzialità. Innanzitutto le donne, pur gestendo gli affari, non si sono liberate dal lavoro di cura, semplicemente lo hanno portato con loro, crescendo i figli nel retrobottega e portando comunque sulle spalle il carico della gestione famigliare. La società aymara e boliviana nel suo complesso rimane poi profondamente maschilista e i ruoli di genere non sono stati stravolti: “Si parla di matriarcato cholo – conferma Valeria – ma nonostante la donna gestisca tutto, nella performance di genere ciò che fanno è mostrare che quello che decide è il marito, quando invece è solo il portavoce.” Infine, la tradizione folklorica rimane uno dei pilastri della costruzione gerarchica della società e per questo il ruolo ricoperto da ciascun individuo durante le festività religiose determina la sua ascesa.
“Essere leader folklorico – mi spiega ancora Valeria – vuol dire godere di prestigio anche al di fuori, negli affari e in politica. Una donna per essere eletta leader, deve però per forza essere accompagnata da un uomo, mentre un leader uomo solo è ammesso. Nei gruppi di danza che sfilano per le strade abbiamo i caballeros e le señoritas guías che aprono il corteo e ancora oggi le ragazze muoiono dal desiderio di ricoprire quella posizione perché ti apre molte strade come diventare modella o lavorare in televisione. Ma il riscatto della chola non deve rimanere banale e basato sull’apparenza.” La domanda quindi che insieme a Valeria ci poniamo è: “L’emancipazione nata dalla valorizzazione del proprio abbigliamento e dell’identità, consente poi davvero di raggiungere incarichi importanti? E inoltre, l’ascesa di alcune rispetto ad altre, attraverso la conservazione di usanze e tradizioni, non ha comunque prodotto una segmentazione interna tra chi è arrivata in alto e chi no?” La risposta è sì, “perché per quanto la società aymara provenga da un’altra logica culturale e sociale, è pur sempre legata al capitale.”
Ma può dunque esserci vera emancipazione femminile in una società capitalista e/o si può essere allo stesso tempo femministe e liberali? O il capitalismo per sua natura assorbe qualunque tentativo di cambiamento finendo per assoggettare a sé ogni rivendicazione? E ancora, in una società governata dalle leggi economiche liberali, le donne che “salgono sulla giostra”, possono davvero liberarsi del lavoro di cura che da sempre le accompagna senza che il sistema lo riconosca né ricompensi, ma del quale di fatto si approfitta per sostenersi?
Il sistema capitalista non è un mercato rionale
La ricercatrice Alessandra Maglie dell’Università degli Studi di Torino ha dedicato all’economista transgender americana Deirdre McCloskey la sua tesi di dottorato pubblicata da Accademia University Press a fine 2022 e titolato Deirdre McCloskey: economista, femminista, libertaria e post-moderna. Una biografia intellettuale. Parlare con lei può forse aiutare a trovare una prospettiva di pensiero che non vede per forza in contrapposizione liberalismo e femminismo. “In realtà McCloskey questa dicotomia non la risolve – mi confessa subito Alessandra – Quello che lei dice è che le donne hanno delle qualità naturali che anche gli uomini dovrebbero possedere, ovvero una sorta di morale relazionale, che si fonda sull’amicizia e le relazioni, principi basilari anche per solidi rapporti di mercato. Da anarco capitalista lei vede lo stato come paternalistico e dunque maschile, mentre le energie dinamiche della società civile come un principio femminile e per far capire la dimensione relazionale del mercato usa la metafora del farmer market, dove le madri di famiglia vanno e fanno due chiacchiere con i venditori, ma io fatico a vedere l’economia capitalista come un mercato rionale.” La prospettiva di Deirdre prova dunque a farci fare una giro di 180° dicendo che le vere capitaliste sono le donne, per loro stessa natura? “McCloskey sostiene che l’individuo ideale dovrebbe fondere le doti di amore e ‘caritas’, nel senso latino di ‘cura’, con l’individualismo proprio dell’homo oeconomicus, prudente e razionale, creando un borghese perfetto che scinde le qualità dal genere.”
La giustizia sociale ha bisogno di ben altre garanzie oltre alla bontà morale dei singoli individui.
Per Maglie però il problema di fondo rimane: “Secondo McCloskey l’economia è la storia dell’arricchimento progressivo e innegabile per tutti, ma quello che vediamo è che l’aumento della ricchezza di alcuni ha come conseguenza l’aumento delle diseguaglianze. Noi oggi ci stiamo preoccupando di quanto il più ricco sta togliendo al più povero e in nome della giustizia sociale chiediamo una redistribuzione della ricchezza. McCloskey in quanto libertaria, non ammette che ci possa essere un intervento dello Stato e per conciliare libertà e uguaglianza deve quindi ricondurre tutto alle qualità morali dell’individuo. Tristemente, sappiamo però che a nulla vale essere libere se si è anche povere e marginalizzate, e la giustizia sociale ha bisogno di ben altre garanzie oltre alla bontà morale dei singoli individui, o, per dirla ironicamente, oltre alla buona educazione borghese.”
La catena globale della cura
Infine, l’etica della cura che McCloskey si augura possa essere qualità condivisa da uomini e donne di fatto non lo è oggi né lo è mai stata e lo spiega molto bene la filosofa Nancy Fraser nel suo libro La fine della cura. Le contraddizioni sociali del capitalismo contemporaneo (Mimesis edizioni, 2017). “Quello che sostiene Fraser, che appartiene alla seconda ondata del femminismo americano (iniziata negli anni Sessanta e che ha allargato il dibattito dagli ostacoli giuridici all’uguaglianza di genere a temi quali la sessualità, la famiglia, il lavoro e i diritti riproduttivi, ndr) è che le donne sono state socializzate alla cura: non è qualcosa di naturale ma di imposto – spiega Maglie – Fraser non vede l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro come un fatto necessariamente positivo perché ha portato con sé un doppio carico.” E ha generato quello che io definisco una colonizzazione, più o meno inconsapevole, della cura, esercitata dalle donne sulle donne. Come scrive Fraser: Non pago di ridurre gli aiuti pubblici mentre recluta le donne nel mondo del lavoro salariato il capitalismo finanziario ha anche ridotto i salari reali, aumentando il numero di ore di lavoro casalingo pagato necessario a supportare una famiglia e inducendo a fare i salti mortali per trasferire su altri il lavoro di cura. Per colmare il “vuoto di cura” [care gap], il regime importa lavoratrici migranti dai paesi più poveri a quelli più ricchi. Generalmente si tratta di donne connotate dal punto di vista razziale e/o provenienti da regioni rurali e povere, che accettano di svolgere il lavoro riproduttivo e di cura precedentemente eseguito da donne più privilegiate. Per fare questo, tuttavia, le migranti devono trasferire le loro responsabilità familiari e comunitarie ad altre badanti, ancora più povere, che a loro volta devono fare lo stesso – e così via, in “catene della cura globale” sempre più lunghe.
“Il capitalismo – osserva ancora Maglie – erode gli stessi legami sociali sui quali si fonda, ovvero la famiglia borghese, invitando le donne a uscire da una dimensione privata ed entrando nel mondo del lavoro.” Ma se il peso del lavoro di cura viene scaricato sulle famiglie e sulle comunità, proprio mentre diminuisce la loro capacità di svolgerlo con i tagli al welfare, la conseguenza, forse insperata, è che le donne, ostacolate nella possibilità di conciliare il tutto, smettano di fare figli, sottraendo così al sistema la sua materia prima. “Una nuova versione di ‘femminismo socialista’ potrebbe riuscire a interrompere l’infatuazione della corrente dominante del movimento per la mercatizzazione e plasmare al tempo stesso una nuova alleanza fra emancipazione e protezione sociale?” Si chiede Fraser. E io aggiungo: ammesso che il socialismo possa essere un’ideologia più accogliente per il femminismo, come può questo farsi spazio in un sistema che, per quanto rivoluzionario, è pur sempre guidato da figure maschili forti che ricoprono allo stesso tempo il ruolo di condottiero, padre e salvatore? C’è margine reale per una mutazione profonda e libera dei ruoli?
Nemmeno la rivoluzione ha volto di donna?
Mi risponde Alba Carosio dalla sua casa di Caracas. Un caschetto bianco ondulato e due mollettine a governarlo. Alba è docente all’Università Centrale del Venezuela, ricercatrice in studi femministi e di genere con particolare attenzione al pensiero latinoamericano e coordinatrice di REMTE (Rete Latinoamericana di donne che trasformano l’economia). Con lei, esiliata argentina in fuga dalla dittatura, ripercorriamo l’ascela al potere di Chavez e il ruolo delle donne nella rivoluzione bolivariana. “Il Chavismo della prima epoca, fino a quando Hugo Chavez si ammala nel 2010, ha effettivamente contributo alla massificazione del femminismo e delle sue idee nel paese. Nella Costituzione del 1999, che non fu socialista ma di ampliamento democratico, vennero introdotte diverse clausole come il riconoscimento del valore economico del lavoro domestico – anche se poi di fatto le casalinghe non hanno mai percepito nessun salario -; dei diritti sessuali e riproduttivi come parte dei diritti umani e si stabilì un linguaggio inclusivo in tutta la Costituzione, cosa che è avvenuta.”
Il Chavismo della prima epoca ha effettivamente contributo alla massificazione del femminismo e delle sue idee nel paese
.
“Si dice che la rivoluzione bolivariana avesse volto di donna perché le donne furono capaci di generare un tessuto sociale all’interno della comunità, di lavorare contro la violenza di genere, si attivarono per la giustizia sociale anche nelle popolazioni più ricondite” riconosce ancora Alba senza nascondere però le ipocrisie: “I critici evidenziano che era tutto lavoro gratuito e lo stesso Banco de la Mujer, che di fatto proponeva una sorta di microcredito di matrice socialista, in realtà servì a poco, perché prima o poi emergevano problemi. Come potevano le donne lavorare senza poter contare su un aiuto per il carico famigliare? Questo però servì comunque a far attivare le donne che riuscirono a rompere le pareti domestiche e da allora non c’è stato più nessuno capace di poterle rinchiudere.”
A dieci anni dalla morte di Chavez, Carosio riconosce il fallimento del processo nella sua totalità e la tragica situazione che le donne venezuelane vivono: “È da almeno cinque anni che non si pubblicano statistiche ma sappiamo che la tassa di mortalità materna si è triplicata nell’ultima decada e il numero di gravidanze adolescenti è tra i più alti del Sud America (circa 100 neo madri ogni mille hanno tra i 15 e i 19 anni, ndr.). A questo si aggiungono problemi che prima non c’erano come il traffico di donne per sfruttamento sessuale, soprattutto verso Trinidad e le Antille, e la migrazione.”
Alba vede la storia come una successione di cicli: “Si sono fatti dei passi avanti, se guardiamo per esempio a come stavamo negli anni Settanta ti direi che oggi va meglio perché possiamo parlare, partecipare e protestare. Cinquant’anni fa ci tiravano i pomodori, oggi mi invitano a parlare al Tribunale Supremo di Giustizia. Ma il paese sta soffrendo, non è il momento migliore per la lotta. Continuiamo a lavorare ma in una situazione di estrema precarietà perché senza dubbio il problema più grande sono i mezzi di sussistenza. Il governo di Maduro ci tollera ma non ci ascolta. Tutte le settimane manifestiamo per chiedere gli aumenti del salario minimo. Non ci reprimono ma il salario di base non aumenta e questo pregiudica di fatto le donne che lo percepiscono. Come le maestre che sono il 90% del corpo docente e che per arrangiarsi fanno le pulizie, le torte, le unghie.”
La Rete latinoamericana delle donne che trasformano l’economia unisce organizzazioni femminili di diversi paesi che, da una prospettiva femminista, criticano gli accordi di libero scambio e sviluppano proposte basate sull’economia solidale. “Quello di cui stiamo discutendo adesso sono il salario e la previdenza sociale universale – mi spiega Alba – Noi crediamo in una socialdemocrazia profonda. Se pensiamo che non solo in Venezuela ma tutta l’America Latina la metà della popolazione è fuori dal mercato del lavoro e il 50% delle donne sono da sole a crescere i figli, quando parliamo di corresponsabilità non ci riferiamo ai mariti ma allo Stato.”
Alternative economiche femministe
Nella visione di Marta Musić però, coordinatrice del gruppo di costruzione di economie femministe di AWID (Associazione per i diritti delle donne nello sviluppo), lo Stato non può essere parte del cambiamento perché non ha mai contribuito a sanare le diseguaglianze, al contrario incentiva i fenomeni di marginalizzazione. “Quello a cui lavoriamo è la creazione di alternative autonome per prenderci cura da sole di noi stesse” mi spiega, specificando che le alternative sono luoghi di tensioni e contraddizioni perché nascono pur sempre dentro un sistema. “Non sono perfette, bisogna riconoscerlo e accettarlo, ma esistono in ogni ambito, dalla salute all’educazione, e si basano sulla sovranità dei popoli, la reciprocità, la cura e la solidarietà.” Quello che cerca di fare Marta è creare ponti tra queste piccole alternative che lei vede pilari di un mondo possibile ma che sono isolate tra loro.
Le fatture al posto delle lacrime di Shakira sono ben lontane dalle richieste di un salario minimo universale o dagli sforzi di chi vuole creare alternative autonome per arginare ogni tipo di oppressione.
“L’idea – puntualizza – non è creare un’alternativa globale”. Ma come si chiamano e dove si trovano queste alternative? “In agricoltura abbiamo l’esempio di Nous Sommes la Solution, un movimento di donne rurali per la sovranità alimentare che unisce oltre 500 associazioni dell’Africa occidentale – mi racconta Marta – La presidente è Mariama Sonko e tra gli obiettivi del movimento c’è il contrasto alla crisi climatica attraverso l’agroecologia, la lotta contro le corporazioni che minacciano la biodiversità, l’accesso collettivo delle donne alla proprietà e alla gestione dei terreni agricoli. Se vogliamo invece un esempio di alternativa nella produzione tessile in Argentina c’è la cooperativa tessile Nadia Echazu, creata da persone trans per persone trans, che produce un abbigliamento comodo e inclusivo.” E in Europa? “In Europa le alternative vengono dalle seconde generazioni, dai dissidenti, dai migranti, dai margini. Quello che succede nel Nord globale è che spesso queste alternative vengono cooptate dallo stesso sistema. Il women empowerment come fenomeno mainstream non è una vera conquista. Diciamo di voler mettere la cura al centro ma di chi ci stiamo davvero prendendo cura? Di noi stesse o delle persone sfruttate? I diritti del lavoro sembrano scomparsi dal discorso femminista.”
Le fatture al posto delle lacrime di Shakira sono ben lontane dalle richieste di un salario minimo universale o dagli sforzi di chi vuole creare alternative autonome per arginare ogni tipo di oppressione. In un mondo nel quale, secondo il rapporto della Banca mondiale Women, Business and the Law 2022, circa 2,4 miliardi di donne in età lavorativa non hanno pari opportunità economiche e 178 paesi continuano ad avere barriere legali che impediscono loro di partecipare pienamente all’economia, parlare e cantare di denaro associandolo al riscatto personale amoroso o alla conquista di beni materiali, rappresenta già di per sé un privilegio. Vuol dire non trovarsi più nella condizione di chiedere giustizia per le ragazze uccise dalla violenza sessista, come fa Rebeca Lane, aver spezzato la catena della cura globale di cui parla Nancy Fraser, e aver ottenuto che lo Stato diventi parte attiva e responsabile della crescita e del benessere dei propri cittadini. Oppure, non avere nel proprio orizzonte e tra le proprie preoccupazioni nessuna di queste cose. Ma essere comunque perfetta come argomento di conversazione dal parrucchiere.