G li eroi di Dag Solstad sono uomini apparentemente ordinari, apparentemente innocui, apparentemente inetti. Solstad racconta crisi matrimoniali, esistenze fatte di stanze non comunicanti, uomini “chiusi nel loro astuccio”. Elias Rukla, il protagonista di Timidezza e dignità (1994, tradotto da Massimo Ciaravolo per Iperborea, uscito per la prima volta in Italia nel 2010), è un professore di letteratura norvegese che impazzisce dopo venticinque anni di onorato servizio, distruggendo reputazione e carriera. La crisi gli permette di ripercorrere le tappe fondamentali della sua esistenza: gli anni universitari, l’amicizia con il filosofo Johan Corneliussen, fino all’incontro con la sua compagna, Eva Linde, che “dorme dietro la porta della camera da letto, mentre Elias Rukla restava sveglio la sera coi suoi pensieri”.
Rukla discende dai tanti celebri inetti che con i loro tentennamenti e il loro non gusto per la vita hanno attraversato la Repubblica delle Lettere, specialmente nel Novecento. Ma Solstad non si limita a rielaborare il cliché letterario: lo mette in discussione. Attraverso Elias Rukla, Solstad s’interroga sulla validità artistica del suo personaggio, ironizza sulla sua scrittura e al tempo stesso intesse un dialogo critico con gli scrittori che lo hanno preceduto.
Si vedeva benissimo presentarsi a un’audizione per essere selezionato come personaggio romanzesco, passando sotto l’esame degli scrittori degli anni Venti. Li vedeva man mano declinare, uno dopo l’altro; vedeva Marcel Proust sollevare appena una palpebra, prima di lanciare un breve ed eloquente sguardo ironico ai suoi colleghi, e prima che la rozza risata di Céline risuonasse nelle orecchie di Elias Rukla. Solo Thomas Mann avrebbe preso sul serio quel povero materiale per un personaggio romanzesco. Avrebbe guardato Elias Rukla e gli avrebbe chiesto se poteva spiegare in poche parole perché ritenesse che proprio il suo destino fosse adatto a diventare materia romanzesca, in qualità di protagonista o di personaggio secondario.
La cifra meta letteraria percorre l’intero romanzo. Nella prima parte, Rukla analizza l’Anitra Selvatica di Ibsen. A catturare la sua attenzione è il dottor Relling, personaggio secondario del dramma: “che tipo di commenti fa il dottor Relling? Che questo è uno stupido, che quell’altro è sempre stato un idiota e che quell’altro ancora è un presuntuoso e insopportabile figlio di papà che soffre di un senso della giustizia patologico. Tutte verità semplici, ciniche e perfino banali. E queste verità banali sono riversate sopra i personaggi del dramma di Ibsen, mentre il dramma stesso va in scena. Il dottor Relling getta fango sull’intero dramma. Il dottor Relling è il nemico del dramma, tutto quello che dice ha un unico scopo: distruggerlo, distruggere il dramma che Henrik Ibsen sta scrivendo”.
Elias Rukla è protagonista e contemporaneamente antagonista di se stesso, prigioniero di una mente che non sa comunicare con l’esterno.
Come il dottor Relling sabota il dramma di Ibsen, Elias Rukla sabota sé stesso e il dramma di Solstad. Un professore un po’ alcolizzato e sua moglie, un’ex bellezza, ecco con quali parole Solstad ne descrive la dramatis persona. Se in Ibsen il dottor Relling rappresenta un’istanza della mente dell’artista che dialoga negativamente con gli altri personaggi, in Solstad queste istanze schizofreniche della mente dell’artista, che crea e al tempo stesso getta fango sulla propria opera, sono riunificate in un unico individuo: Elias Rukla. Rukla è figlio di Ibsen e ma è anche figlio di Dostoevskij; i personaggi dostoevskani non si limitano a entrare in una dialettica con gli altri personaggi, come aveva intuito Bachtin rintracciando nella polifonia la cifra distintiva della poetica dostoevskana, ma hanno un rapporto dialettico anche con sé stessi: si auto-accusano, si insultano, si contraddicono, dibattono tra sé e sé rompendo l’unità aristotelica della persona.
Elias Rukla è protagonista e contemporaneamente antagonista di se stesso; continuamente in contrasto col mondo che lo circonda, è prigioniero di una mente che non sa comunicare con l’esterno; quando sente un suo collega esclamare: “oggi mi sento come Hans Castorp”, e riconosce nell’altro un estimatore di Thomas Mann, autore per il quale nutriva una grande ammirazione, neanche allora riesce a instaurare un dialogo, un legame umano con il suo collega. Fin qui il lettore che ha dimestichezza con i tanti uomini del sottosuolo otto-novecenteschi, non rintraccerà una differenza sostanziale tra il personaggio di Solstad e i tanti antieroi che l’hanno preceduto. “Un uomo incapace di vivere ma non abbastanza coraggioso da togliersi la vita”, non c’è definizione più canonica per descrivere un inetto, ma possono applicarsi anche ad Elias Rukla?
Annoiarsi a un’ora di norvegese in cui si analizza un dramma di Henrik Ibsen non è poi così sorprendente (…) Questi individui immaturi erano mandati a scuola per acquisire conoscenze sulla letteratura norvegese classica, che era suo compito dispensare. Il problema principale di tale compito era che quelle conoscenze che lui doveva dispensare, loro non erano in grado di recepirle.
Elias Rukla è consapevole della frattura generazionale che lo separa dai suoi allievi, ma questa consapevolezza non gli impedisce di proseguire per ben venticinque anni nella missione “di tramandare alla nuova generazione l’autocoscienza della nazione e il suo fondamento”. In una monotona cornice istituzionale, al cospetto di una classe di svogliati maturandi, cade preda di vere e proprie epifanie intellettuali. Elias Rukla è un inetto, ma è un inetto sui generis, non è l’uomo senza qualità di Musil, né il classico eroe cechoviano che vive nel segno della rinuncia, né lo Stoner di Williams che con mite rassegnazione subisce le prepotenze dei colleghi e della moglie; a un’esistenza spesa nel vano tentativo di educare una generazione di alunni impenetrabili alla letteratura, Elias Rukla contrappone una vita interiore ricca di verve, di passione.
“Lo feriva profondamente il fatto che i giornali e la televisione non si rivolgessero evidentemente più a lui e a quelli come lui. Era come se i nuovi araldi della società non si curassero proprio più di lui. Al contrario, era come se guardassero ostentatamente al di là di lui, e addirittura quasi come se provassero una gioia particolare nel farlo. Era diventato trasparente per loro, come aria, e questo Elias Rukla lo trovava profondamente offensivo. Tutto quanto lui rappresentava era stato cancellato dal linguaggio quotidiano della società”. Certo, Elias Rukla non ha le fattezze di un personaggio tragico a tutti gli effetti, non ha la levatura morale di un Amleto né la rabbia di un Raskol’nikov, ma il timido professore davanti all’urto del tempo e della Storia che avanza, oppone un rifiuto netto, radicale. “Adesso basta! Raggiunse a grandi passi la fontana e ci sbatté contro l’ombrello con furia selvaggia. Lo picchiò contro la fontana più e più volte, sentendo che il metallo dell’asta cominciava ad afflosciarsi e le stecche saltavano. La cosa gli diede una gioia violenta e continuò a picchiare con lo stesso furore”.
Solstad spoglia la tragedia dei suoi apparati scenici, non c’è grandiosità nel dramma che mette in scena: mostra al lettore la tragicità dell’esistenza che non riesce a essere all’altezza dell’Ideale.
“Furia selvaggia”, “gioia violenta”, “furore” caratterizzano un’atmosfera shakespeariana, fortemente drammatica. Se gli uomini di Solstad nelle loro esistenze grigie, ordinarie, sono figli di una letteratura che rifiuta il titanismo dell’eroe romantico ottocentesco, la loro parabola esistenziale li colloca in una dimensione tragica.
Solstad fonde le atmosfere del romanzo borghese – con i suoi uomini medi, intrappolati in lavori mediocri, in relazioni fallimentari, preda di spaesamenti generazionali – alle istanze tragiche della letteratura romantica. Il risultato è un effetto tragicomico: Elias Rukla riversa tutta la sua furia shakespeariana contro un innocuo ombrello e leggendo questo paragrafo è inevitabile non coglierne l’ironia, come pure la tragicità nascosta. Il senso del ridicolo investe il lettore e il personaggio di Solstad; si crea uno iato insanabile tra la drammaticità dei sentimenti provati da Elias Rukla e la comicità insita nella scena stessa, uno iato che in virtù del ridicolo che suscita è tragico in senso letterale.
Solstad spoglia la tragedia dei suoi apparati scenici, non c’è grandiosità nel dramma che mette in scena: mostra al lettore la tragicità dell’esistenza che non riesce a essere all’altezza dell’Ideale. La tragedia della modernità è nella sua ordinarietà, nella sua banalità che fa il verso ai suoi eroi che non sono più degni dell’appellativo di eroi; se si cimentano nell’impresa, al massimo cadono nel ridicolo e vengono esclusi, ignorati, elegantemente “messi alla porta”. Si potrebbe dire lo stesso di Dag Solstad?
In un articolo apparso su Repubblica, il titolo del romanzo venne storpiato in Tristezza e dignità. Forse è pretestuoso domandarsi se con un altro autore sarebbe accaduto lo stesso, non lo è invece domandarsi quanto spazio vi sia oggi per gli inetti non troppo inetti di Solstad, per un tipo di narrativa squisitamente cerebrale, squisitamente esistenziale che sembra essere, proprio come Elias Rukla, “cancellata dal linguaggio quotidiano della società”.