N on è la specie più forte che sopravvive, né la più intelligente. Ma quella che meglio si adatta al cambiamento,” avrebbe detto Charles Darwin. Eppure il padre della teoria dell’evoluzione questa frase non l’ha mai pronunciata, né messa per iscritto. Come ha dimostrato John van Wyhe – il più grande esperto al mondo di tutto ciò che riguarda la vita e le opere di Darwin – questa massima è opera di Leon Megginson, un professore di marketing ed economia della Louisiana State University.
Probabilmente, questa frase il naturalista inglese non l’avrebbe neanche sottoscritta, perché fa pensare a una volontà nell’adattamento, ma l’evoluzione per selezione naturale non ha volontà propria. Chi sopravvive quindi? Chi ha per puro caso tutte le caratteristiche (genetiche, morfologiche, funzionali) che gli consentono di vivere e riprodursi al meglio in quell’ambiente specifico, a quelle condizioni e in quel determinato momento storico. Queste caratteristiche, determinate da mutazioni genetiche casuali, solo e soltanto in quelle condizioni e in quel momento storico danno al singolo individuo un vantaggio che trasmetterà alla propria prole. Ci vuole quindi fortuna per sopravvivere? Anche.
L’evoluzione per selezione naturale non ha volontà propria.
Di sicuro, nel corso delle centinaia di milioni di anni di evoluzione, il lavorio incessante della selezione naturale ha dato vita alla biodiversità che oggi vediamo intorno a noi. Ogni singola specie è perfettamente adattata al suo habitat: alcune hanno caratteristiche uniche che consentono loro di sopravvivere in ambienti estremi, e stanno ispirando nuove tecnologie. Altre per sfuggire ai predatori sono capaci di mettere in atto strategie straordinarie, che spesso contemplano inganni e bugie. Altre ancora per sopravvivere devono mettersi in viaggio, spostandosi da un continente all’altro.
Sopravvivere in ambienti estremi
Dalle foche leopardo che vivono nelle acque antartiche, agli orsi polari che abitano l’Artico, fino al leopardo delle nevi che popola l’Himalaya, le regole per sopravvivere all’estremo freddo sono le stesse per tutti i mammiferi: folte pellicce, importanti strati di grasso isolante, code e orecchie minuscole per ridurre al minimo la dispersione di calore. Per esempio, le volpi artiche, che vivono lungo tutto il circolo polare artico dall’Alaska alla Siberia, possono sperimentare una differenza di temperatura, tra calore corporeo e ambiente esterno, anche di 80 °C in inverno. Per questo in autunno costituiscono le riserve di grasso, aumentando il loro peso corporeo di oltre il 50 per cento; cambiano il pelo, che diventa bianco (per mimetizzarsi nella neve) e più folto e lungo per essere più isolante. Ma come fanno a camminare per mesi nella neve senza che le zampe si congelino? Il segreto sta nella circolazione del sangue nelle zampe: i cuscinetti delle volpi restano costantemente al di sopra del punto di congelamento dei tessuti grazie a un sistema circolatorio “di scambio controcorrente”, in cui il calore che verrebbe disperso dai capillari arteriosi viene ceduto direttamente ai capillari venosi, ed è così recuperato.
Lo stesso sistema antigelo viene utilizzato in Antartide dai pinguini imperatore: l’unica specie che osa riprodursi durante l’inverno antartico, quando le temperature arrivano a 60 °C sottozero e i venti soffiano a 200 km/h. A dover sopravvivere in queste condizioni per sessantacinque giorni, in realtà, sono solo i maschi, che peraltro hanno il compito di covare l’unico uovo stando attenti a tenerlo tra le zampe, senza poggiarlo sul suolo ghiacciato: ghiaccerebbe anche l’uovo. Per sopravvivere a tali condizioni proibitive, i pinguini imperatore hanno il piumaggio più fitto di qualsiasi altro uccello, con quindici piume per centimetro quadrato, e uno strato di grasso spesso tre centimetri. Inoltre, si riuniscono in grossi gruppi per tenersi al caldo l’un l’altro. E, nonostante tutto, in quei sessantacinque giorni perdono circa venti chili, ovvero dimezzano il loro peso corporeo.
Le specie che devono sopravvivere a temperature molto alte e all’arsura dei deserti, invece, hanno adattamenti molto più fantasiosi. Per sopravvivere nel deserto senza bere e mangiare per giorni, a cammelli e dromedari non serve solo la gobba (il primo ne ha due, il secondo una), che contiene grasso e non acqua. Servono anche ciglia lunghissime per riparare gli occhi dalle tempeste di sabbia. Inoltre questi ungulati hanno il problema opposto a quello dei pinguini e di altri animali polari: non devono scottarsi le zampe. E infatti posseggono zampe callose per camminare sulle dune roventi.
Alcune tra le creature che abitano i deserti, per non restare a secco hanno adattamenti straordinari, emersi in milioni di anni di evoluzione e a cui l’ingegno umano sta guardando con interesse per trovare soluzioni al futuro sempre più arido che ci si prospetta. Il diavolo spinoso del deserto (Moloch orridus) ne è un esempio. Come dice il nome, questo rettile australiano ha il corpo ricoperto di spine e, per recuperare l’acqua necessaria a sopravvivere, sfrutta l’escursione termica del deserto tra notte e giorno: la sua pelle è idrofila, attrae l’acqua, e le scaglie di cui è ricoperto sono solcate da minuscoli canali che formano un fitto reticolo che arriva fino agli angoli della bocca. In questo modo, il Moloch riesce a raccogliere e bere le gocce di rugiada che si formano al mattino sulle rare piante o sulle rocce del deserto, senza mai restare senz’acqua.
Alcune tra le creature che abitano i deserti, per non restare a secco hanno adattamenti straordinari, emersi in milioni di anni di evoluzione.
Una tecnica simile è utilizzata dal coleottero delle nebbie, lo Stenocara gracilipes, che vive nel deserto del Namib ed è capace di “filtrare la nebbia”: quando arrivano le masse umide dall’oceano Atlantico, questo insetto si posiziona in cima alle dune a favore di brezza. Aiutandosi con le lunghe zampe, inclina il dorso in modo che sia ben esposto alla nebbia e attende, immobile, che l’umidità condensi sul suo corpo, facendo scivolare le gocce d’acqua verso la bocca per bere. Proprio lui ha ispirato gli “acchiappanebbia”: reti installate nel deserto di Atacama in grado di raccogliere 14 litri d’acqua al giorno per ogni metro quadrato.
Fingere per aver salva la pelle
Scappare da un predatore e sventare un attacco richiede molte energie. Quale modo migliore, allora, per passare inosservati a un predatore se non fingersi tutt’altro? Una foglia morta, per esempio: è quello che fa la farfalla Kallima inachus, che vive in un’area che va dall’India al Giappone e che ad ali chiuse ricorda una foglia secca, con tanto di picciolo, venature e persino aree di colore diverso, come fosse già intaccata da muffe e batteri decompositori. A questa farfalla basta chiudere le ali per farsi ignorare dai predatori – uccelli per lo più – salvo poi fuggire via in un battito d’ali, non appena ve ne sia l’occasione. Lo stesso camuffamento è sfruttato anche da falene italiane e asiatiche, come l’Uropyia meticulodina, che finge talmente bene da avere i margini delle ali arricciati, come una foglia ormai secca da molto tempo e completamente disidratata. Ma i campioni in quest’arte sono i Fasmidi: un’ordine di insetti che comprende gli insetti foglia, che imitano foglie verdi e rigogliose, oppure foglie secche o già rosicchiate da qualcuno; e gli insetti stecco, che si fingono un ramoscello non solo nell’aspetto, ma anche nel modo di oscillare e di camminare nella vegetazione.
La capacità di confondersi con l’ambiente circostante si chiama criptismo: camaleonti e polpi lo fanno apposta, e riescono a cambiare colore della pelle in pochi secondi; gli insetti stecco, invece, criptici ci nascono. E infine c’è chi per aver salva la pelle è disposto a tutto, persino ad assomigliare… a una cacca: è il bruco della farfalla coda di rondine maggiore (Papilio cresphontes) che ricorda in tutto e per tutto la cacca di un uccello, con tanto di chiazze bianche.
Fingersi un vegetale secco o una rivoltante deiezione non è l’unico modo per provare a sopravvivere. A volte, basta fingersi morti. È un’arte, questa, che prevede paralisi immediata, emissione di cattivi odori e, perché no, anche lingue penzoloni, e sembra essere efficace dagli insetti ai mammiferi, passando per i rettili. I predatori infatti possono essere schizzinosi e non toccare una preda già morta, maleodorante, che sembra già in decomposizione. L’opossum della Virgina, per esempio, inscena la sua morte schiantandosi su un fianco a peso morto, con gli occhi spalancati, la lingua di fuori ed emettendo un liquido maleodorante dall’ano. Entra così in uno stato simile al coma e può rimanere in queste condizioni fino a quattro ore, scoraggiando la maggior parte dei predatori.
Un’altra opzione è fingersi velenosi o addirittura letali: indurre il predatore a stare alla larga, anche se si è completamente disarmati e privi di qualsivoglia veleno. E il mondo lì fuori è pieno di “pecore travestite da lupi”. Nelle acque tra l’Indonesia e le Filippine nuotano due polpi noti da poco alla scienza: il polpo mimetico Thaumoctopus mimicus, scoperto a Sulawesi nel 1998, e il polpo Wunderpus photogenicus, battezzato solo nel 2006. Entrambi sono abili trasformisti capaci di assumere le sembianze di oltre quindici temibili creature. Un esempio? Il serpente di mare bocca gialla, a cui basta iniettare 0,45 milligrammi per chilo del suo veleno neurotossico per provocare arresto respiratorio e collasso cardiovascolare nelle sue prede o in chi lo disturba. Altre interpretazioni da Oscar sono quelle del pesce leone e del pesce scorpione, che possiedono una dozzina di aculei veleniferi tra pinne dorsali e anali, e che dall’Oceano Indiano sono arrivati anche nel Mediterraneo e nelle acque italiane.
La capacità di confondersi con l’ambiente circostante si chiama criptismo: camaleonti e polpi lo fanno apposta, e riescono a cambiare colore della pelle in pochi secondi; gli insetti stecco, invece, criptici ci nascono.
C’è poi il serpente “falso corallo” Lampropeltis triangulum, che imita nella sua colorazione il letale serpente corallo, in un turbinio di spire gialle, nere e rosse. In natura, infatti, questi colori e le loro diverse combinazioni sono un chiaro segnale di allarme. Non è un caso che il giallo-nero si trovi per esempio su calabroni, vespe e api, che sono dotate appunto di pungiglione. E non sia mai che una tale livrea tanto nota, quanto temuta, venga sprecata. Sono infatti moltissime le specie di insetti innocui che si camuffano da pungenti imenotteri, come le falene calabrone del genere Sesia, o il coleottero vespa (Clytus arietis), e poi una serie sterminata di Sirfidi e Bombilidi: ovvero mosche pronube, che svolgono il fondamentale servizio di impollinazione e somigliano per colori, modo di muovere le antenne e ronzio alle vespe e alle api.
Ma chi la fa l’aspetti: il “gioco dei travestimenti” piace anche ai predatori. Lì fuori è pieno anche di “lupi travestiti da pecora”, di predatori che si camuffano, per esempio, da quanto di più poetico e colorato ci possa essere in natura: i fiori. I ragni granchio e le mantidi orchidea se ne stanno tutto il tempo appollaiati sui fiori, di cui “indossano” gli stessi colori e le stesse venature, in attesa di agguantare il malcapitato insetto impollinatore del tutto ignaro della fine che lo attende.
Migrare per sopravvivere, anche al mondo che cambia
Il nostro pianeta è attraversato da miliardi di animali in viaggio: è il popolo migratore. Sono insetti come le farfalle monarca; rettili come le tartarughe marine, mammiferi come le balene o gli gnu e le zebre che migrano nel Serengeti, attraversando anche la Gola di Olduvai, lì dov’è nato l’uomo. E, ovviamente, ci sono anche gli uccelli migratori.
Migliaia di specie si sono evolute per vivere la loro vita senza confini, a cavallo tra due nazioni o due continenti, in un incessante andirivieni. Si mettono in viaggio al mutare delle stagioni, seguendo precisi segnali e battendo sempre le stesse rotte da migliaia di anni. Alcuni compiono più viaggi in una sola vita, altri completano la migrazione come in una staffetta a più generazioni. Percorrono decine di migliaia di chilometri in volo, in marcia o a nuoto, affrontando difficoltà e pericoli, su percorsi infidi che spesso costano loro la vita.
Se mettersi in viaggio significa rischiare di morire, allora, perché migrano? Per sopravvivere. Può sembrare un paradosso, ma vanno incontro a una morte probabile per sottrarsi a una morte certa. Gli gnu, per esempio, sfuggono alla stagione secca alla ricerca di acqua e cibo a nord, per poi tornare al Lago Eyasi quando sarà di nuovo pieno. Anche gli uccelli migratori che arrivano in Europa in primavera cercano cibo: partono dall’Africa, per lo più dalle regioni a sud del Sahara, quando lì gli insetti cominciano a scarseggiare, mentre qui si stanno appena palesando. Così si mettono in viaggio, per sopravvivere e per dare più chance alle covate che cresceranno sul suolo europeo. E quando sopraggiunge l’autunno, tornano in Africa in cerca di una nuova primavera.
Se mettersi in viaggio significa rischiare di morire, allora, perché migrano? Per sopravvivere: vanno incontro a una morte probabile per sottrarsi a una morte certa.
In questo viaggio di sopravvivenza in cui affrontano venti contrari, tempeste, predatori e persino il fuoco nemico dei bracconieri, questi uccelli devono superare barriere ecologiche naturali come il Sahara, le Alpi e il Mediterraneo. Ed è quest’ultima la prova più dura: cadere in mare significa morire. Qualcuno riesce a riposarsi su piccole isole o su qualche nave, molti muoiono di stanchezza e di stenti, inghiottiti dal mare. Ma a vincere, ogni anno, è l’istinto di sopravvivenza. E la migrazione non si ferma.
Estratto dal nuovo numero della rivista trimestrale Sotto il vulcano. Idee Narrazioni Immaginari (Feltrinelli Editore), diretta da Marino Sinibaldi. Il settimo numero, Sopravvissuti, curato da Paolo Giordano, è in uscita il 9 maggio.
Francesca Buoninconti sarà a Trieste, al Festival Scienza e Virgola, diretto da Paolo Giordano, sabato 6 maggio alle ore 9.30 in dialogo con Federico Gemma e Lorenzo Peter Castelletto, negli spazi del BIOMA Area Marina Protetta di Miramare. L’incontro è organizzato in collaborazione con il Festival Mare Dire Fare. La VII edizione di Scienza e Virgola è dedicata al tema della democratizzazione della conoscenza: il programma completo su scienzaevirgola.it