Luca Gringeri
Diana Mihaylova
/ Immagine: Georgi Gurianov, Rikoset, Joanna Stingray, Aja-Jai e Jurij Kasparjan, foto d'epoca, URSS anni Ottanta
10.5.2023
Infedeli alla linea
La controcultura russa dai tempi di Brežnev a oggi.
Luca Gringeri è addetto stampa e divulgatore culturale. È fra i fondatori della associazione Neutopia e redattore della rubrica di critica letteraria dell'omonima rivista.
È stato attivista per i diritti dei migranti e dei detenuti e ha curato opuscoli di approfondimento politico con il blog collettivo Barbarie.
Diana Mihaylova italo-bulgara, si occupa di letteratura, cultura e musica dei paesi slavi. Interprete da e verso il russo e blogger sul canale Instagram ilmaestroemargherita, collabora con l'Associazione culturale Premio Felix - Festival del cinema russo a Milano e al progetto dell'associazione culturale Perestroika.it sulla divulgazione e promozione del cinema russo e sovietico.
I
l 12 e il 13 agosto 1989 allo Stadio Lenin di Mosca, davanti agli occhi pieni di meraviglia della gioventù sovietica si esibiscono alcune tra le più importanti band dell’hard rock internazionale: Mötley Crüe, Bon Jovi e Scorpions creano una crepa in quella cortina di ferro che già da tempo stava cedendo. Improvvisamente l’Occidente scopre che anche la gioventù sovietica ama il rock. In realtà quel concerto fu solo il punto d’arrivo di un decennio in cui una vivace scena contro-culturale aveva scardinato le granitiche certezze della società sovietica, e fu anche il punto di partenza per nuovi movimenti che avrebbero negato quell’egemonia capitalista che sembrava affermarsi anche lì. Ma che cos’è la controcultura? È la cultura antisistema, quella non ufficiale, quella che sfida le regole dell’egemonia culturale dominante. Come vedremo, i fenomeni contro-culturali russi dell’ultimo ventennio del ‘900, metteranno in discussione tanto la società sovietica, quanto quella liberale e, oltre che parlare al loro presente, spesso getteranno uno sguardo su un futuro che, con la guerra in Ucraina, si è fatto tremendamente attuale.
Tra stagnazione e perestrojka: il Caffè Saigon
Cambiamenti, chiedono i nostri cuori Cambiamenti, chiedono i nostri occhi Nelle nostre risate, nelle nostre lacrime, e nelle pulsazioni delle vene Cambiamenti! Aspettiamo i cambiamenti!
Così cantava Viktor Coj, frontman dei Kino, una delle rock band più amate e seguite in Unione Sovietica negli anni Ottanta, nella canzone Choču Peremen (“Voglio cambiamenti”) uscita nell’aprile del 1989, a pochi mesi da quel fatidico 9 novembre, giorno della caduta del Muro di Berlino, che segnò per sempre i destini di migliaia di giovani in Europa e nel mondo.
1989: siamo in piena perestrojka, sotto l’amministrazione di Michail Gorbačëv. I cambiamenti evocati nella canzone dei Kino stanno rapidamente arrivando in Unione Sovietica: in politica interna ed estera, nelle iniziative economiche e sociali, ma anche in arte, musica e letteratura. A partire dal 1987 si assiste infatti a un decisivo allentamento della censura, che permette finalmente una maggiore circolazione e fruizione di opere letterarie che erano rimaste per anni clandestine o di altre da tempo dimenticate o ancora inedite, come per esempio Il Dottor Živago di Boris Pasternak, pubblicato ufficialmente in URSS per la prima volta solo nel 1988.
La scena musicale diventa sempre più dinamica e a poco a poco non solo esce dalla clandestinità, ma anzi sale alla ribalta, con l’inaugurazione dei primi concerti rock a Mosca e Leningrado (oggi San Pietroburgo) a partire dal 1981 circa. Nascono poi alcuni circoli artistici e letterari che strizzano l’occhio all’Occidente, e i primissimi programmi televisivi dedicati alla musica rock, tra cui Muzikalnij ring (“Ring musicale”) trasmissione in cui le band più in voga intervenivano e si “sfidavano” sul ring, creando un dibattito intorno a questa nuova sottocultura rivoluzionaria. Il programma in onda dal 1984 al 1990 ospitò i Maščina vremeni (“Macchina del tempo”), gli Akvarium, i Strannye Igri (“Strani giochi”), e poi ancora Aukcion, Pop-mechanika e molti altri artisti.
L’intento dei giovani musicisti sovietici è chiaro: c’era un forte desiderio di creare una propria scena musicale, rock, pop, punk, e non solo, ma nella propria lingua, finalmente in lingua russa, con sonorità nuove, alternative e accattivanti, ben diverse da quelle della musica “canonica” e ufficialmente promossa dagli enti statali sovietici. Ciò che era stato proibito e considerato sovversivo da parte del PCUS e dalla censura di Stato, ad un tratto, “viene allo scoperto”.
Ma facciamo un passo indietro. Dal 1964 al 1982 Leonid Il’ič Brežnev ricopre il ruolo di Segretario generale del PCUS e capo di Stato. Il periodo viene oggi ricordato come zastoj, ovvero “stagnazione”, a causa dell’immobilismo della politica di quegli anni. L’incancrenimento delle istituzioni determina un generale clima di inerzia che caratterizza i vertici dello Stato per due lunghi decenni, molto diversi dal breve momento di entusiasmo che aveva invece investito l’URSS negli anni Sessanta, sotto l’amministrazione del predecessore di Brežnev, Nikita Chruščëv. Il lungo periodo della stagnazione vede un lento e graduale invecchiamento dei progetti e delle proposte in campo economico, politico, sociale e culturale, accompagnato dall’inesorabile invecchiamento della stessa classe dirigente.
Negli anni di lunga amministrazione brežneviana, la cultura musicale in Unione sovietica era rimasta piuttosto statica, in linea con il clima e il periodo storico. Tuttavia, per quanto riguarda il rock, e più in generale la musica underground, soprattutto a partire dagli anni Settanta vi è uno sviluppo parallelo su due fronti: da una parte si sviluppa immutata la musica sovietica “ufficiale”, promossa e sponsorizzata dagli enti culturali sovietici; dall’altra invece, fiorisce clandestina la contro-cultura musicale, che dapprima rimane nell’ombra, ma poi, gradualmente, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta inizia a mostrarsi.
Oltre ai primi circoli musicali clandestini, un luogo di riferimento per molti musicisti, artisti e scrittori diventa il Caffè Saigon. “Il Saigon, insomma, il bar del ristorante Moskva, è oggi diventato un centro d’attrazione per i cosiddetti ‘hippie’ nostrani, per i punk, e per altri generi di muffe, ma loro sono prima di tutto degli invertiti, ma di un nuovo tipo…” si legge in un’intervista con il direttore e corrispondente del quotidiano sovietico Lenigradskaja pravda del 19 luglio 1987. Inaugurato nel settembre del 1964 al numero 49 della centralissima Prospettiva Nevskij, il caffè ha ospitato per decenni la comunità intellettuale più bohémien di Leningrado, finendo per diventare un simbolo e un centro della contro-cultura musicale e artistica della città. Il caffè era situato nello stesso edifico del ristorante Moskva, pertanto veniva inizialmente chiamato Podmoskov’e, ovvero “dintorni di Mosca”. Successivamente prese un altro nome: Petuškì, (“galletti”) poiché dei galletti ne decoravano le vetrine esterne, ma oggi tutti lo ricordano con un altro nome – Saigon, appunto. A detta del critico letterario leningradese Viktor Toporov il nome “Saigon” nacque dopo un inconsueto episodio: c’era un severo divieto di fumo al chiuso nei locali, ma pare che due ragazze stessero continuando comunque a fumare all’interno del caffè. Un poliziotto che passava di lì le vide ed esclamò: “Ma che fate qui? È un’indecenza! Che razza di ‘Saigon’ avete messo su qua dentro?”. In quegli anni era in corso la guerra in Vietnam (1955-1975) e la capitale vietnamita non godeva di un’ottima reputazione.
I frequentatori del caffè erano numerosi e molto variegati. Non necessariamente si trattava di persone apertamente antisovietiche, anticomuniste o in lotta con il regime. Al contrario, in un clima di inettitudine, o per meglio dire, impotenza generale, molti giovani non si schieravano apertamente né a favore, né contro il PCUS e la sua politica, ma erano anzi piuttosto disinteressati. In questo contesto, il Caffè Saigon divenne un luogo di aggregazione in cui cercare di dar vita a nuove realtà e nuove culture alternative. Tra i frequentatori c’erano personaggi celebri, ma anche persone comuni, poeti e letterati, tra cui Josif Brodskij, Sergej Dovlatov e il poeta leningradese Viktor Krivulkin, gruppi di nuovi “hippie” sovietici, i primi punk, i neformaly, cioè gli “alternativi”, numerosi artisti e soprattutto tanti cantanti e musicisti, molti dei quali diedero poi vita alle prime rock band della scena leningradese. All’interno del caffè venivano organizzate letture di versi, discussioni filosofiche, ma anche mostre e concerti. Era insomma un luogo in cui scambiarsi commenti, idee e opinioni, e talvolta persino manoscritti e materiale proibito, come musicassette e blue jeans, capo d’abbigliamento non presente sul mercato sovietico, e pertanto richiestissimo. Inizialmente, un contatto reale con l’Occidente non c’era, dunque i giovani sovietici si erano creati un proprio immaginario, ipotizzando come poteva essere la vita oltre la cortina di ferro: ideavano il proprio look, la musica e lo stile in maniere alternative e inconsuete, cercando di imitare l’Occidente, e proprio per questo motivo non erano ben visti dalla classe dirigente dell’URSS. Per tutte queste ragioni e per ciò che esso rappresentava, il Caffè Saigon non era apprezzato dalla polizia e dai vertici del PCUS di Leningrado, e perciò veniva costantemente sorvegliato; tuttavia, la sua attività continuava comunque a fluire, nonostante episodi di controlli e talvolta anche risse tra gruppi rivali (si racconta per esempio che tra i punk e i gopniki, non corresse buon sangue).
La fine del celebre Caffè risuonò con una nota amara: venne chiuso definitivamente nel marzo del 1989, dopo 24 anni di attività, per essere sostituito da un negozio di sanitari e WC italiani. Nei primi anni Zero al suo posto venne costruito il lussuoso Radisson SAS Royal Hotel, presente ancora oggi al n. 49 della Prospettiva Nevskij, che, come unica testimonianza dei vecchi splendori del celebre caffè, riporta soltanto una placchetta metallica sul muro del bar.
Il Rock’n’roll (non) è (ancora) morto: Akvarium e Kino sul palco del Rock Club
Di sabato vado al Rock Club.
Al Rock Club ci sono così tanti gruppi bravi. Entro orgoglioso col mio biglietto in mano, e mi cantano canzoni nella mia lingua madre. (…) E se mi chiederete: “Dov’è la morale?” Indirizzerò il mio sguardo nella cupa distanza E vi dirò: “Ah, come mi dispiace, per Dio, non so dove sia qui la morale!”Pesnja prostogo čeloveka (“Canzone dell’uomo semplice”), di Mike Naumenko, leader degli Zoopark, 1984
Un altro luogo che divenne cruciale per lo sviluppo del rock e della contro-cultura musicale fu il Rock Club di Leningrado, inaugurato nel 1981. Quando polizia e autorità si resero conto di non poter più reprimere in alcun modo i movimenti alternativi giovanili decisero di porre rimedio proponendosi come diretti promotori di questa nuova cultura musicale, in modo da poter continuare a sorvegliarli da vicino, attraverso un’apparente concessione di libertà espressiva. Difatti, tutti gli artisti, prima di poter suonare o cantare, erano sottoposti a un controllo preliminare dell’abbigliamento e soprattutto dei testi delle canzoni, per evitare che potessero influenzare negativamente il giovane pubblico o addirittura aizzarlo contro il potere centrale con tematiche scomode o sovversive.
I concerti al Rock Club avvenivano ogni sabato sotto diretto controllo di rappresentanti del KGB. Le band incaricate di esibirsi per la giornata venivano elencate in ordine alfabetico e poi salivano sul palco. Dal canto suo il pubblico doveva rimanere composto, in ordine, spesso anche seduto, senza intonare cori, o esibire cartelli d’ammirazione per i propri idoli.
Tra i protagonisti assoluti della primissima scena rock troviamo certamente gli Akvarium. La band di Boris Grebenščikov (voce) e Anatolij Gunickij (percussioni) nacque nel 1972 a Leningrado. Frequentando posti come il Caffè Saigon iniziò ad acquisire popolarità nel contesto musicale underground, fino ad essere una delle prime a salire sul palco del Rock Club dal 1981. Nel 1983 uscì il loro album Radio Africa, oggi uno dei più conosciuti e amati della band, che tra le altre cose si distinse per esser stato uno dei primi album registrati in uno studio con apparecchiature professionali. Il video musicale della celebre canzone Rock’n’roll mërtv (“Il Rock’n’roll è morto”), contenuta nell’album, si apre con un dialogo in lingua inglese in cui è lo stesso Grebenščikov, con una lunga chioma e una colorata chiesa russa sullo sfondo, a parlare: Voce fuori campo: “How did you earn money?” Grebenščikov: “I do not really earn it. Somehow it happens that when I need it, I have it. I don’t have tons of equipment, but I’d like to have; but… So what? I have my guitar, sometimes that’s enough for me. When I need more, I somehow get more for a while.”
Per noi forse sembra assolutamente normale e scontato che un giovane cantante parli in inglese, ma per un giovane cittadino dell’Unione sovietica nel 1983 conoscere e saper parlare fluentemente inglese non era cosa da tutti. Se in Italia siamo abituati da decenni all’esposizione costante alla lingua inglese, che viene insegnata e studiata nelle scuole su tutti i livelli, in Unione Sovietica non era così. Tra i giovani artisti, musicisti e cantanti degli anni Settanta e Ottanta, erano ben pochi quelli che sapevano esprimersi in lingua inglese. Il fatto che il giovane Boris Grebenščikov si esprimesse in inglese aveva quindi un portato simbolico: mostrava così di distinguersi e di non conformarsi ai dettami del PCUS in merito alla cultura e all’istruzione giovanile, contribuendo così a diffondere una cultura nuova, di respiro più internazionale e meno chiusa rispetto a quella sovietica.
Gli Akvarium, e poi i Kino, e alcuni altri gruppi sovietici, divennero noti in Occidente grazie alla statunitense Joanna Stingray. La giovane musicista di Beverly Hills, pur non sapendo il russo, visitò più volte l’Unione Sovietica tra il 1984 e il 1989, ed entrò in contatto con la scena della controcultura musicale leningradese. Nel 1986 grazie a Joanna Stingray uscì l’album Red Wave, il primo in Occidente a raccogliere brani di diverse rock band sovietiche, tra cui Akvarium, Kino, Alissa e Strannye Igri. Fu proprio questo album a mettere la scena della contro-cultura musicale sovietica sotto i riflettori: ne furono incuriositi tra gli altri David Bowie, Andy Warhol e alla fine persino il segretario generale del PCUS – Michail Gorbačëv, che resosi conto dell’importanza del substrato culturale giovanile del suo Paese, decise di aprire la scena e i palchi a questi musicisti, anche attraverso i canali culturali ufficiali.
I veri grandi protagonisti della scena musicale rock alternativa furono però senza alcun dubbio i già menzionati Kino. I loro brani dal ritmo veloce e incalzante e i loro testi velatamente malinconici e provocatori divennero l’inno di quell’intero substrato culturale, fino ad arrivare alle masse. Tutt’oggi la band è tra le più amate e ascoltate non solo in Russia, ma anche in molti altri Paesi ex sovietici o ex comunisti. Il fenomeno Kino ha avuto un’influenza significativa su molti musicisti e rock band successive, che vi si sono poi ispirati, e ai Kino – o a Viktor Coij – sono stati dedicati più di un film, documentari, e molte cover. La band si formò nel 1981 con Viktor Coj (voce), Rybin e Oleg Valinskij, ma inizialmente aveva un altro nome, ovvero Garin e gli iperboloidi, omaggio al romanzo di fantascienza Le iperboloidi dell’ingegnere Garin di Aleksej Tolstoj.
Viktor Coj (1962-1990), giovane musicista di madre russa e padre coreano, fu l’idolo indiscusso della band. Il suo stile volutamente trasandato, l’abbigliamento total black, le giacche di pelle, e le bandane intorno alla chioma spettinata lo rendevano un personaggio estremamente singolare: underground e dallo spirito ribelle, era l’autore della maggior parte dei testi della band. La sua voce roca e i contenuti polemici facevano sì che la band non fosse vista di buon occhio dai vertici dell’URSS. Tra i temi che più volte risuonano nelle canzoni dei Kino troviamo senz’altro il desiderio di cambiamento, come evidenziato nella già menzionata canzone Choču Peremen, ma anche temi decisamente più critici e più che mai attuali, come guerra e anarchia. Una celebre canzone del 1986, intitolata Mama Anarchia, è arrivata anche in Italia, con la cover Mamma è l’anarchia della band anarcho-punk Kalashnikov. In entrambe le versioni il ritornello risuona: “Mamma è l’anarchia! Papà è un bicchiere di vino!”. Un testo provocatorio e controverso, che fa tornare la parola “anarchia” sulla bocca dei giovani russi dopo circa cinquant’anni di oblio, dovuti agli scontri fra l’armata nera anarchica di Makhno e l’Armata Rossa di Trockij fra il 1919 e il 1921. E infatti farà da apripista a una serie di gruppi anarcho-punk sovietici, dai siberiani Grazhdanskaya Oborona ai moscoviti Mongol Shuudan.
Il tema della guerra è ancora più cantato e ripetuto, e possibilmente ancora più delicato, soprattutto se rivisto con gli occhi di oggi. Nei riferimenti alla guerra dei Kino non vi è certamente menzione a nessuna guerra “fratricida”, ma vi è piuttosto una generale critica al militarismo dell’URSS nel corso dei decenni. Sono cosa nota, infatti, i numerosi coinvolgimenti dell’URSS in scontri e guerre internazionali, tra cui l’intervento nella crisi del Canale di Suez (1956), dove i sovietici appoggiarono i ribelli di Nasser, gli interventi nella guerra di Corea (1950-1953), la guerra in Afghanistan (1979-1989), oltre alle situazioni di tensioni vissute con gli Stati Uniti, come la Crisi di Cuba del 1962. La critica appare soprattutto in alcune canzoni del celebre album Gruppa Krovi(“Gruppo sanguigno”) uscito nel 1988 come sesto album della band, in un momento in cui la loro fama era all’apice.
Il mio gruppo sanguigno è scritto sulla manica,
Il mio numero d’ordine è scritto sulla manica. Augurami “buona fortuna nel combattimento”, augurami: Di non rimanere su questa erba, Di non rimanere su questa erba. Augurami “Buona fortuna”, augurami “Buona fortuna”! E so come ottenerlo, ma non voglio Una vittoria ad ogni costo. Non voglio piantare il mio piede su nessun petto. Vorrei rimanere con te, solo rimanere con te, Ma una stella alta nel cielo mi richiama a partire…
La carriera dei Kino fu incredibilmente radiosa, ma terminò prestissimo. Il 15 agosto del 1990 Viktor Coj morì in un terribile incidente d’auto in Lettonia, a soli 28 anni di età, interrompendo bruscamente il lavoro della band. La sua morte fu un’enorme tragedia per migliaia di fan, tanto che alcuni arrivarono persino a suicidarsi per la disperazione; infine, anche il potere centrale sovietico decise di esprimersi sulla vicenda, attraverso una dichiarazione della Komsomol’skaja Pravda, quotidiano ufficiale del PCUS: “Per i giovani della nostra nazione, Coj significa più di ogni politico, celebrità o scrittore. Questo perché Coj non ha mai mentito e non si è mai venduto. Era e rimane se stesso. Coj è l’unico rocker in cui non c’era nessuna differenza tra la sua immagine e la sua vita reale, ha vissuto nello stesso modo in cui ha cantato e per questo è l’ultimo eroe del rock”.
Viktor Coj venne seppellito nel cimitero Bogoslovskoe di Leningrado il 19 agosto, ma la sua morte precoce alimentò il mito della sua musica. Negli ultimi mesi di vita stava lavorando con i Kino all’uscita del Čërnyj Al’bom (“Album nero”) che venne ugualmente pubblicato postumo nel dicembre del 1990, grazie al compagno e amico Kasparjan che aveva con sé una registrazione acerba delle canzoni con la voce di Coj.
Dopo la morte di Coj a Leningrado e in altre città russe comparvero molti graffiti e murales raffiguranti il musicista, con citazioni delle canzoni e frasi d’omaggio alla band, tra cui spesso spesso spicca Coj živ! (“Coj è vivo!)”, frase che riprende alcuni poster sovietici, riferiti però alla figura di Lenin (Lenin živ!). Ancora oggi molti fan si radunano presso i graffiti e fumano una sigaretta in onore del musicista, intonando le sue canzoni. Le canzoni dei Kino legate alla guerra sono tristemente tornate alla ribalta nell’ultimo anno a seguito della guerra tra Russia e Ucraina:
E duemila anni di guerra,
una guerra senza un reale scopo. La guerra è un affare da giovani, Una medicina antirughe. Rosso, rosso sangue, In un’ora rimane solo terra, In due, vi crescono erba e fiori, In tre, essa vive di nuovo, riscaldata dai raggi di una Stella chiamata sole… (dalla canzone Zvezda po imeni solnce -Una stella chiamata sole)
Lenin era un fungo: Sergej Kurëchin e l’orchestra totale Il 17 maggio 1991, in uno show per giovani sulla tv sovietica ha luogo una bizzarra intervista: il presentatore annuncia l’intervento di Sergej Kurëchin, “attore e attivista politico”, che avrebbe fatto una scoperta sensazionale. Dopo un dettagliato excursus su suoi viaggi in Messico, l’intervistato annuncia: Vladimir Ilič Uljanov, noto ai più come Lenin e padre della Rivoluzione d’ottobre, era in realtà un fungo psicotropo; coadiuvato da reperti fotografici e da un’analisi formalmente scientifica, in poco più di un quarto d’ora porta ogni tipo diprova logica per dimostrare la veridicità della sua tesi. Quella che sembra essere una performance dadaista fuori tempo massimo diventa presto uno dei primi media virus russi, anticipando di almeno due decenni i meme, con la frase “Lenin era un fungo” che diventa virale fra le nuove generazioni. Provando in televisione la natura fungina del rivoluzionario bolscevico, egli al contempo dimostra come i media, tramite il medium alienante della televisione, siano veicolo di una propaganda tale da poter convincere il popolo delle tesi più assurde. E questo non solo nel tam-tam sovietico “di regime”, ma anche e soprattutto in un occidentalissimo show di intrattenimento.
Ma chi è Kurëchin? Nato in Crimea nel 1954, comincia a studiare pianoforte all’età di 6 anni. Si trasferisce a Leningrado negli anni Settanta dove conosce Arkady Dragomoshchenko, grazie al quale diventa ospite frequente del Caffè Saigon. Già conosciuto anche in Occidente come pianista jazz, entra a far parte degli Akvarium come tastierista e occasionalmente songwriter; è a quel punto che lancia il suo progetto definitivo, i Pop Mechanika (“Meccanica popolare”).
Cercando di raggiungere – parole sue – una “metafisica dell’unità totale”, Pop Mechanika era un’orchestra improvvisata che proponeva senza apparente soluzione di continuità jazz, rock, industrial e teatro d’avanguardia. Senza cast, senza membri fissi, il progetto si arricchiva di volta in volta di nuovi ospiti, fra cui Sergej Letov (fratello di Egor dei GrOb) e Viktor Coj. A fare da perno vi era il solo Kurëchin, chiamato anche col bellicoso soprannome de “il Capitano”, che univa i ruoli di compositore, direttore d’orchestra, direttore artistico e musicista.
Ma, oltre alla mera avanguardia, nel progetto di Kurëchin c’è molto altro: in un’intervista del 1990 a Walter Rovere spiega come la “pazzia” sia una caratteristica portante dell’arte russa: “L’idea alla base di Pop Mekhanika è: follia totale. Questa è molto importante perché è alla base dell’arte russa. Molte persone mi chiedono delucidazioni su cosa sia l’arte russa, il jazz russo, il rock russo; ecco, credo che sia follia totale. Se suoni stili di musica differenti e porti all’interno di essi questa follia, ecco, avrai la musica russa” (Musiche n8, 1990). “Penso esista una netta contraddizione fra processo creativo e opera d’arte” spiega Kurëchin nell’85 a Leo Feigin, fondatore dell’etichetta Jazz Lo Records; “La creatività è lo spirito, la liberazione dal fardello del corpo. Quando lo spirito se ne va, ciò che resta è una cosa morta, l’opera d’arte.”
Limonka e il Partito Nazional Bolscevico La parabola artistico-politica del “Capitano” trova così il suo massimo compimento nella sua adesione al Partito Nazional Bolscevico, nel 1995. Parlando infatti delle sottoculture politicizzate della Russia post perestrojka, non si può non citare Eduard Limonov. Nato nel 1943 a Dzerzinsk, figlio di un ufficiale del NKVD, dopo un lungo periodo moscovita dove aveva acquisito una certa notorietà come scrittore e poeta, si trasferisce nel 1974 a New York. Qui vive da reietto fra i reietti, scioccando l’opinione pubblica con le sue accuse all’intelligencija russa d’emigrazione (in primo luogo, ad Andrej Sacharov e Aleksandr Solženicyn) e denunciando le miserabili condizioni della maggior parte degli immigrati russi negli Stati Uniti.
Il suo primo romanzo Eto ja – Edička (“Sono io, Eddy”, 1979, tradotto in italiano come Il poeta russo preferisce i grandi negri), è una confessione in prima persona sulle (dis)avventure di un emigrato russo emarginato, e include vivide descrizioni di incontri sessuali occasionali sia con donne che con uomini.
Nel 1980 Limonov si trasferisce a Parigi, dove collabora con L’idiot international, una rivista rossobruna che raccoglie a sé elementi di estrema sinistra e di estrema destra per una svolta nazionalista e comunitarista del gauchisme francese. Nei suoi articoli di questo periodo, Limonov critica pubblicamente la perestrojka e, più tardi, la caduta dell’Unione Sovietica. In questo stesso periodo comincia anche ad adottare pose sempre più guerresche e machiste, che culminano nei suoi reportage in diverse zone di guerra nell’ex Jugoslavia, dove diventerà (tristemente) famoso per la sua amicizia con i nazionalisti serbi Arkan e Karadzič.
Al suo ritorno in Russia, Limonov è accolto in maniera paradossale: da una parte, il suo personaggio pubblico viene associato con l’opposizione nazional-patriottica a El’cin, dall’altra, si collega alle nuove forme di libertà civili e di costume che caratterizzano l’epoca. Fra il 3 e il 5 ottobre del 1993 gli OMON (“Unità speciale mobile della polizia”) per ordine di El’cin intervengono contro i nazionalisti e i comunisti asserragliati nella Casa Bianca di Mosca per protestare contro lo scioglimento del Soviet Supremo, provocando centinaia di morti. A seguito della rivolta Limonov decide di scendere in politica e fonda il Partito Nazional Bolscevico. Oltre a lui, tra i fondatori anche il filosofo di destra radicale Aleksandr Dugin, Taras Rabko, allora studente di giurisprudenza e fan di Limonov e Egor Letov, frontman dei Graždanskaja Oborona. Limonov e Dugin, rispettivamente come leader politico e ideologo del partito, concepivano il NBP come una combinazione di idee radicali di destra e di sinistra, sostenendo una politica estera nazionalista e imperialista, insieme a una politica interna che si rifaceva al sovietismo del primo periodo. Lo stemma del partito è stato preso dal retro di copertina di Isčeznovenje varvarov (“La scomparsa dei barbari”, 1982) un ironico saggio di fantascienza in cui Limonov immaginava le nefaste conseguenze dell’improvvisa scomparsa dell’URSS dalla sfera geopolitica. Alla fondazione del Partito fa subito seguito la redazione del suo organo ufficiale: il giornale Limonka (“Granata”). Il nome viene suggerito dal poeta e attivista queer, nonché amico di Limonov e simpatizzante del NBP, Jaroslav Mogutin, mentre la veste grafica è curata da un discepolo di Dugin, Konstatin Chuvasčev. Egli si ispira fondamentalmente all’estetica sovietica degli anni Venti, riproducendo lo stile aggressivo e diretto della “plakatnaja estetika” (“l’estetica dei manifesti politici”).
Il primo articolo pubblicato su Limonka a firma di Dugin, intitolato “Il nuovo contro il vecchio”, è una riflessione sui nazionalismi con espliciti riferimenti al futurismo italiano, ed è in tutto è per tutto una “chiamata alle armi” per la costruzione di un nuovo movimento radicale che combatta la nuova Russia capitalista, unendo i popoli caucasici orfani dell’URSS e impoveriti dal capitalismo, i punk anarchici, i fanatici religiosi e tutte le altre categorie marginalizzate che componevano la nuova società russa. Il giornale accoglieva anche una rubrica fissa di Limonov che, sotto lo pseudonimo di “Colonnello”, scriveva i suoi limonki (“bombe a mano”), feroci articoli ad personam contro i politici e i membri dell’intelligencija russa dell’epoca.
La sezione satirica del giornale, intitolata Smachno pomer(letteralmente, “morì in modo succoso”) includeva notizie come: “Ragazza minorenne stupra un vecchio in pensione”, o “Si è imbattuto in Elc’in e si è spaventato”, oppure articoli che facevano “modeste proposte” per risolvere il problema della disoccupazione.
Disoccupato in scatola. Il disoccupato è un parassita, un membro della società completamente inetto: non è in grado di aprire un’attività in proprio e non può lavorare per qualcun altro. Si penserebbe che il disoccupato è solo uno spreco, un pezzo difettoso. Ma anche questi individui possono servire la società capitalista. Sotto forma di cibo.
(Kto ne rabotaet – togo ediat, cioè “chi non lavora verrà mangiato”)
Questo brano, aspra satira memore di Swift, si scagliava contro un sistema capitalista che negli anni Novanta aveva condannato interi settori della popolazione russa alla povertà estrema perché, in fondo, il primo nemico contro cui si scagliavano i membri del partito Nazional Bolscevico era il capitalismo. Secondo Limonov e Dugin, l’estrema destra e l’estrema sinistra dovevano unire le proprie forze contro il sistema economico vigente. Oltre all’eredità comune ai due, alle teorie della nouvelle droite francese, comunitarista e proudhoniana, vi è inoltre un forte richiamo alle idee di Hermann Niekisch ed Otto Strasser, ex nazisti che negli anni Trenta avevano teorizzato un nazionalsocialismo filosovietico.
La tradizione cui attingeva Limonka, però, non era solo quella della destra meno ortodossa: vi si trovavano anche lunghi articoli sulle Brigate Rosse, riferimenti continui alla Rote Armee Fraktion, e lunghi peana nei confronti dei pensatori della critica radicale, come ad esempio un articolo di Dugin all’indomani del suicidio di Debord (1994), e di una mobilitazione in cui i NazBol avevano provato a occupare la TV di Ostankino:
Dobbiamo tornare a Ostankino, ancora e ancora. Con chi è vivo e chi morto. Con Guy Debord. Quella torre sinistra, quel fallo di Satana, che genera la velenosa ipnosi della società dello spettacolo. Così daremo fine allo spettacolo eterno.
Utilizzando il linguaggio millenaristico dell’anarchismo russo primonovecentesco, il testo sembra più il parto di un qualche anarchico adolescente, che quello di un “nazista e futuro consigliere di Putin”, come appare Dugin alla stampa occidentale di oggi.
“Stalin, Berija, Gulag”. Il punk nazional-bolscevico Settembre 1995, San Pietroburgo. Così il critico musicale Aleksandr Kušn descrive la situazione che gli si para davanti agli occhi:
Sul palco c’erano croci in fiamme con annessi stuntman, e una gigantesca ruota rotante, ora con una Puttana di Babilonia che esegue una danza sensuale, ora con un boia che corre in giro in abito da gloria del Ku Klux Klan. Improvvisamente esplosero dei petardi e un gruppo di nani si mise a strisciare fra le persone in piedi, mentre le pensionate degli studi Lenfil’m cantavano canzoni patriottiche. … Accompagnato da strumenti musicali rituali tibetani, Dugin pronunciava incantesimi magici. Limonov e Kurëchin all’unisono cantavano “All We Need Is Victory” del bardo Bulat Okudžava. Vecchie signore dai capelli grigi volavano sull’altalena, Efebo vagava con la pelle di leopardo e il Capitano lodava lo spirito del defunto Alesteir Crowley.
A corredo di queste immagini da grand guignol vi erano le bandiere nazicomuniste del NBP e uno striscione che recitava “Stalin, Berija, Gulag!”. Era l’ultimo concerto dei Pop Mechanika, il quattrocentodiciottesimo, e 418 era anche il numero di tessera di affiliazione al partito di SergejKurëchin che, dopo anni di vicinanza distaccata, si era deciso a offrire un endorsement alla campagna elettorale di Dugin alla Duma.
Nel NBP Kurëchin vedeva “un’ideologia completamente nuova, dove i concetti di ‘sinistra’ contro ‘destra’ non avevano più senso e non c’era spazio per dualismi di alcun tipo. Insomma, il Partito Nazional Bolscevico era il riflesso ideologico della gesamtkunstunwerk dell’orchestra Pop Mechanika. Malgrado la magniloquenza di questa campagna elettorale, Dugin raccolse la misera somma di 1.500 voti, ma il concerto raccontta quanto il partito fosse vicino ai movimenti subculturali giovanili degli anni Novanta. Del resto non poteva che essere così, dato che fra i suoi membri fondatori c’era il punk siberiano Egor Letov, che, dopo la parentesi solista noise dei Kommunizm, riformò i Graždanskaja Oborona e diede alle stampe un disco che si può definire il manifesto musicale del NBP: Solncevorot (“Solstizio”).
A partire dall’iconica copertina fino a inni patriottici come il brano Rodina(“Patria”), tutto il disco è pervaso da un sentimento riottoso e patriottico allo stesso tempo. Il disco si compone di una serie di trionfali mid-tempos sporcati da distorsioni shoegaze e da organi memori della psichedelia anni Sessanta, dando al progetto un’aurea a un tempo epica e disperata. Una delle canzoni simbolo dell’album Daleko bežit doroga(Vperedi vesel’ja mnogo)(“Corre lontano la strada, (davanti a noi c’è ancora molto divertimento”)), scritta insieme a Vladimir Kuzmin, mastermind della band indie pop Čërnyi Lukič, è una sorta di descrizione emotiva della lunga marcia verso il (nazional)comunismo:
Camminiamo in silenzio sulla primavera assassinata,
Sugli edifici distrutti, sulle teste calve, Sulla terra verde, sull’erba scura, Sui corpi caduti, sul più grande degli atti, Sui bicchieri rotti, sui distintivi del Komsomol’, Sulle parole insanguinate, su anni di carestia. Del resto in una video intervista del ’93 Letov spiegava così la sua welthanschauung:“La forza animatrice delle rivoluzioni sono le emozioni, non l’ideologia. Le ideologie vengono a sostituirle. La rivolta viene prima. Voglio una rivolta diretta contro tutte le ideologie, alla fine.” Sempre all’interno della stessa intervista, Letov spiega: “Ci consideriamo dei commu-fascisti. Rappresentiamo l’ala più radicale dell’opposizione. Siamo i rosso-bruni. Il fascismo è un concetto molto forte (…) è stare insieme legati l’un l’altro. Perché sia i comunisti che i fascisti sostengono valori umani comuni. (…) Valori collettivi. La salvezza collettiva è l’unica via da percorrere”.
Il pensiero di Letov sembra ricalcare quasi completamente la “quarta teoria politica” duginiana: un recupero del nazionalismo fascista accompagnato da un superamento del binomio destra-sinistra. In Letov, in perfetto stile nazbol e in apparente contraddizione col suo passato anarchico, è molto forte anche il sentimento filobolscevico, come si evince in un’intervista al giornale di estrema destra Den’ dell’ottobre 1993:
SONO UN NAZIONALISTA SOVIETICO. La mia patria non è solo la Russia (…) La mia patria è l’URSS. La Russia è una questione privata e separata, come la Germania, la Francia, la Cina e altri Stati. L’URSS è il primo e grande passo in avanti, in un nuovo tempo, in un nuovo orizzonte. L’URSS non è uno stato, è un’idea, una mano tesa per una stretta di mano, e la gloria e la grandezza della Russia è che per la prima volta nella storia dell’umanità ha intrapreso l’aspra e la giusta missione di rompere millenni di squallore e l’oscurantismo e la solitudine dell’uomo alla grande unità… all’umanità.
Ma Letov e Kurëchin non sono gli unici musicisti convintamente nazionalbolscevichi: i bielorussi Krasnye zvezdy (Stelle Rosse) nella canzone Impierija (“Impero”) promettono la resurrezione dell’ impero sovietico con la forza militare, mentre il “bardo” Aleksandr Nepomnyashchiycompone il blues Ubei Yanki (“uccidi lo yankee”) in cui, in un testo ricco di citazioni (dai Dead Kennedys ai Nirvana), chiama alla guerra santa contro il capitalismo americano.
Nel 1995 l’ultras dello Spartak Mosca Ilja “Santim” Malašenkov fonda il gruppo Banda Četirëcho “Banda dei quattro”, pagando tributo tanto a Mao Zedong quanto ai Gang Of Four, storico gruppo post-punk inglese. I Banda Četirëchsi rifacevano musicalmente alla prima ondata postpunk inglese con però tangibili influenze neofolk (tanto da coverizzare “Hitler as Kalki” dei Current 93), corredato da un immaginario militarista e di estrema destra. “Sono come i Grašdanskaja Oborona, però nazisti” si diceva all’epoca di loro, ed effettivamente testi come Ole Ole che declamavano “La Cecenia è un cesso, la vittoria sarà nostra” lasciavano poco all’interpretazione. Eppure dal 1999 Santim comincia a esibirsi con magliette che inneggiano alle Brigate Rosse, nelle interviste si dichiara “di sinistra e filosovietico” e, soprattutto, si iscrive al NBP. Per il pubblico punk e skinhead russo, questa appare come una scelta di campo molto chiara: dopo l’uscita di Dugin nel ‘98, pur mantenendo una dottrina politica “imperiale” che guardava alla riconquista di tutti i territori ex sovietici, il partito si riposiziona in un campo inequivocabilmente di estrema sinistra. Intanto si moltiplicano le azioni dirette contro oligarchi e politici: nel marzo del ‘99, due attivisti lanciano uova in faccia al regista Nikita Michalkov; lo stesso anno, un gruppo di NazBol occupa il club dei marinai di Sebastopoli per protestare contro le discriminazioni verso i russofoni in Crimea.
Nel 2001 Limonov viene arrestato per possesso illegale d’armi, ma l’attività del partito non si ferma: si moltiplicano le occupazioni simboliche di sedi istituzionali, le proteste contro la NATO – culminate con il lancio di pomodori in faccia al segretario George Robertson al grido “NATO peggio della Gestapo” – e i cortei selvaggi, fra cui uno davanti alla casa dell’ambasciatore americano a Mosca l’11 settembre 2002, in memoria degli “eroici kamikaze dell’11/09/01” dichiarando che “gli attacchi sono la giusta punizione di mezzo secolo di politica estera aggressiva”.
Moltiplicate le azioni, i cortei, i militanti (che arrivano a 10.000) e anche gli arresti, tanto che s’ingaggia una vera e propria battaglia contro la “Russia Unita” di Putin, Limonov diventa uno dei principali avversari dell’autocrate russo, e i nazionalbolscevichi trovano persino l’approvazione di Anna Politkovskaja, che nel 2005 dichiarò: “Mi sono ritrovata a pensare di essere completamente d’accordo con ciò che dicono i NazBol. L’unica differenza è che a causa della mia età, della mia istruzione e della mia salute, non posso invadere i ministeri e lanciare sedie. (…) I NazBol sono probabilmente il gruppo di sinistra più attivo, ma il loro nucleo si è ridotto da quando molti sono stati arrestati e imprigionati”.
Il collega della Politkovskaja alla Novaja Gazeta, Zachar Prilepin scrisse addirittura il romanzo semi-autobiografico San’kja, la storia di un giovane sbandato che attraverso un fantomatico “partito rossobruno”, trova finalmente una dimensione e una famiglia fatta di amici che lottano per la rivoluzione sociale. Il finale del libro è però dolente: i rossobruni uccidono un magistrato e San’kja viene incarcerato e deportato in Siberia. Nel suo viaggio verso il campo di lavoro, trova il momento per fare un’amara considerazione che, col senno di poi, risulta quasi profetica: “Voi avete dato la Russia in pasto alle vostre delusioni”.