Q uando Maddalena Cecconi scopre che sua figlia Maria ha ottenuto la parte per il film, l’iniziale disponibilità a ogni sacrificio per raggiungere ciò che sembra rappresentare la porta d’accesso per la realizzazione lascia spazio all’assoluta inconsistenza del mondo dello spettacolo. Luchino Visconti in Bellissima (1951) vuole mettere in scena l’artificiosità del sogno del successo e della volontà di spogliare l’immagine di ogni significato culturale ed emotivo.
Quasi settant’anni dopo, all’immagine esteriore continua a venire attribuito un valore che nulla ha a che fare con la bellezza. Lo descrive bene Flavia Piccinni che in Bellissime (Fandango, 2017) racconta l’universo italiano delle baby miss, assistendo a decine di selezioni, sfilate e concorsi per l’infanzia. In una delle tante interviste raccolte da Piccinni, la seienne Sara dichiara che i bambini brutti sono senza amici perché “i bambini brutti sono tristi”. Se l’attribuzione di Sara di uno stato emozionale all’aspetto esteriore può essere spiegato dall’ingenuità della sua età, a incoraggiare questa equazione sono anche madri come Marzia, che crede che la pubblicità, settore nel quale sua figlia ha all’attivo diversi lavori, sia il mondo che renderà la bambina “più aperta, più libera”.
La libertà di cui parla Marzia è però qualcosa da raggiungere attraverso una gentile obbedienza. Interrogata sul peso della bellezza di sua figlia nell’ottenere nuovi contratti, Marzia risponde: “Lei è una bella bambina, ma è anche una bambina buona, silenziosa, accondiscendente, che non fa confusione, che non si oppone”. Leggendo le dichiarazioni di questa donna si assiste al paradosso per cui l’estetica canonizzata – com’è quella ricercata ai casting di sfilate o pubblicità – diventa ciò che garantisce il privilegio della libertà qui intesa come autonomia, mantenendosi però sempre all’interno di criteri fisici e norme comportamentali. Sara e Marzia fanno sì che sia l’estetica a stabilire non solo ciò che è bello o brutto ma anche chi è felice o triste, consegnando alla bellezza un significato che non le appartiene.
“Lei è una bella bambina, ma è anche una bambina buona, silenziosa, accondiscendente, che non fa confusione, che non si oppone”.
Ma nell’attuale società dell’immagine si assiste anche al fenomeno contrario laddove l’estetizzazione agisce a discapito del messaggio. Un esempio di come l’armonia, la proporzione, l’equilibrio possano catturare l’attenzione a tal punto da spogliare il reale da ciò che rappresenta si trova nella fotografia. Lo scatto di Robert Capa del 1936 che ritrae un miliziano spagnolo, colpito a morte un attimo prima, mentre cade su un lato dell’inquadratura, rappresenta un compendio molto intenso della morte violenta, eppure, nel vederlo, si rimane colpiti non tanto – o non solo – dalla realtà che rappresenta, ma dall’estrema piacevolezza della composizione e dell’assemblaggio delle forme. Esplicativo è anche il caso della fotografia scattata da Alexander Gardner nel 1865 del condannato a morte Lewis Payne. Oggi l’immagine di Payne è facilmente riconoscibile: i bei tratti del condannato, la sua posa sicura, lo sguardo fermo hanno permesso che la sua figura si trovi stampata su poster e magliette, mettendo totalmente in ombra il senso di quello che Payne rappresenta: la morte imminente. Nel momento dello scatto Lewis Payne sta, infatti, per essere ucciso con l’accusa di essere uno dei cospiratori dell’omicidio di Abraham Lincoln.
L’estetizzazione della tragedia non si è mai interrotta, come mostra la fotografia virale, rivelatasi “finta” poiché il soggetto era in posa, della bambina ucraina che imbraccia un fucile succhiando un lecca-lecca. Accolta da alcuni come foto simbolo del conflitto, il ritratto è invece un esempio perfetto di come si possa rendere “glamour” ogni cosa – della ragazzina con l’arma in mano si notano i lunghi capelli con i fiocchi gialli e azzurri, il bel viso preso di profilo, ma non si percepisce il dramma di una bambina soldato. Un caso che dimostra come la denuncia e la propaganda siano divise da un filo talmente sottile da essere facilmente rotto. L’estetica – il bello, il non perturbante, la grazia – è sempre stata funzionale a condizionare l’opinione pubblica, ma viceversa, e proprio per questo, è a sua volta condizionata dalle strutture di potere.
Il rapporto tra bellezza e potere è il nodo che interessa Naomi Wolf nel suo importante saggio Il mito della bellezza, uscito per la prima volta in Italia nel 1991 per Mondadori e ripubblicato nel 2022 da Edizioni Tlon. Leggere il saggio di Wolf ora che un nuovo linguaggio inclusivo sembra voler definire altri canoni estetici fa capire che in realtà poco è cambiato. Wolf spiega che “le qualità che un certo periodo definisce come tratti di bellezza nelle donne sono solamente dei simboli del comportamento femminile che quel periodo considera come desiderabili: in realtà il mito della bellezza prescrive sempre dei comportamenti più che un aspetto esteriore”.
L’estetica – il bello, il non perturbante, la grazia – è funzionale alle strutture di potere e ne è a sua volta condizionata.
Sebbene oggi si senta sempre più spesso parlare anche attraverso i canali mainstream di body positive e sulle passerelle sfilino le cosiddette modelle curvy, la ricerca della propria identità continua a essere trovata in una cura particolare del corpo. Inoltre, il fatto che siano la pubblicità o le aziende di prodotti di bellezza a mettere in discussione un modello di fisico, fa sì che sia ancora il sistema a determinare i requisiti della donna moderna ed “emancipata”. Wolf scrive: “La cosa più impellente è che l’identità delle donne deve presupporre la loro ‘bellezza’, perché restino vulnerabili all’approvazione esterna e siano costrette a mettere allo scoperto quella caratteristica vitale e sensibile che è l’autostima”.
È l’attribuzione di un carattere patologico ai corpi non conformi agli standard e la moda per gli stili di vita salutistici a palesare come la bellezza – oggi in particolare la magrezza – sia considerata espressione del rispetto verso sé stessi. Senza ignorare i rischi di comportamenti alimentari squilibrati, pare evidente che associare il peso alla salute e alla soddisfazione personale può portare alla colpevolizzazione di chi abita un corpo che si discosta dai canoni dominanti.
Sebbene quello della forma fisica sia un culto che riguarda maschi e femmine, le qualità caratteriali che vengono richieste alle donne – la fragilità, la modestia, la purezza – fanno sì che sia in particolare il corpo femminile a essere considerato volgare e grottesco se grasso. Quella che può essere definita come una performance di genere appare quindi strettamente legata al rapporto che le donne “devono” avere con il cibo. Naomi Wolf afferma che “la cultura moderna reprime l’appetito di cibo delle donne così come la cultura vittoriana, attraverso i dottori, reprimeva l’appetito sessuale delle donne: a partire dall’apice della struttura di potere e con intento politico”. Il mangiare poco e in modo sano e il rimanere in forma sono dunque abitudini spesso determinate non tanto dalle esigenze e desideri individuali quanto da un contesto sociale che detta norme comportamentali. Il grasso delle donne in sé e per sé non è un pericolo. Ma il grasso femminile è oggetto di una passione pubblica, e le donne si sentono in colpa di essere grasse, perché implicitamente ammettiamo che, sotto l’influenza del mito, i corpi delle donne non appartengono a loro bensì alla società, e che la magrezza non è una questione di estetica privata, e la fame è una concessione sociale imposta dalla comunità. Una fissazione culturale sulla magrezza femminile non è un’ossessione sulla bellezza, bensì un’ossessione sull’obbedienza femminile.
In una logica di obbedienza, il concetto di piacere inevitabilmente viene meno e l’atto del mangiare è pertanto considerato accettabile solo se con il fine del sostentamento e non del godimento. L’avversione a zuccheri, grassi, alcol si conforma allora a un’idea di impurità dietetica da contenere con regimi alimentari che sorvegliano eventuali cambiamenti del corpo.
In una logica di obbedienza, il concetto di piacere inevitabilmente viene meno.
È René Girard in Anoressia e desiderio mimetico (Lindau, 2009) ad analizzare il culto della perdita di peso in relazione alla struttura capitalistica odierna. Partendo dal presupposto che la magrezza sia l’ultimo ideale comune a tutta la nostra società, Girard spiega che il sistema capitalistico riesce a adattarsi al “desiderio imperioso di dimagrire” coniugando tale aspirazione con il suo istinto tipico al consumo ossessivo di prodotti che, in questo caso, dovrebbero aiutare nella “guerra alle calorie”.
Nel saggio si individua nella dieta restrittiva – e nell’anoressia – non solo qualcosa che si allontana dall’attuale tendenza al consumismo – il sistema capitalista “preferisce sistematicamente il consumo all’astinenza e non è certamente l’inventore di questa isteria per le ‘diete’” –, ma anche un regime difficile da rispettare e da incoraggiare. Per Girard, l’equilibrio tra il rispetto dell’ideale estetico e la modalità accettata e accessibile per raggiungere tale modello si trova nello sport: Al fine di fronteggiare l’imperativo della magrezza senza dedicarsi a pratiche che minaccerebbero la salute o distruggerebbero il rispetto per sé stesse, molte persone hanno un’arma segreta: fanno esercizio fisico. Essi trascorrono gran parte del loro tempo libero a marciare, correre, fare jogging o andare in bicicletta, nuotare, saltare, scalare montagne o praticare altre attività orribilmente noiose e faticose, col solo obiettivo di eliminare le calorie in eccesso. L’aspetto irritante dell’esercizio fisico risiede soprattutto nella sua giustificazione in termini politicamente corretti.
Se l’essere in forma rappresenta una sorta di nuova religione, devono essere ritualmente ristabiliti delle norme da rispettare e dei comportamenti da emulare. Attraverso la magrezza si riesce dunque a ripristinare vecchi ruoli sociali e compiti che determinano una buona condotta di vita esattamente come l’antico codice religioso ha fatto in passato. In termini fisici si è ricostruito un obiettivo morale altrimenti detto, usando il pensiero di Girard, un esempio mimetico da cui può scaturire una rivalità: “Una volta definito il modello mimetico ideale, ognuno cerca di superare tutti gli altri nell’obiettivo da raggiungere, nella fattispecie la snellezza. Di conseguenza, il peso considerato come il più desiderabile per una ragazza è destinato a diminuire senza alcun limite”.
Se l’essere in forma rappresenta una sorta di nuova religione, devono essere ritualmente ristabiliti delle norme da rispettare e dei comportamenti da emulare.
Le baby modelle incontrate da Sara Piccinni si inseriscono dunque in una dinamica che disciplina il carattere e le abitudini di vita e che fa della bellezza una qualità che sempre meno riguarda il fattore estetico concentrandosi soprattutto sui comportamenti ritenuti adeguati. Se “bello” diventa sinonimo di “sportivo”, “attento alla dieta”, “rispettoso del proprio corpo”, è facile capire perché per Sara i bambini brutti sono tristi. Dando per vero che la magrezza sia un ideale comune della società occidentale capitalistica e l’estetica sia portatrice di un valore morale, quello che dice Girard quando afferma che “Molte donne vorrebbero essere anoressiche, ma fortunatamente solo poche ci riescono” acquista senso.
In questo panorama che vede giudicare bambine in base a rigidi criteri fisici, che accetta l’estetizzazione della tragedia e che assiste a corpi disposti a soffrire la fame, ciò che sembra più allarmante è la generale attitudine a seguire quelle regole che distinguono tra ciò che è decente e indecente dal punto di vista estetico.