S arajevo è stata uno degli ultimi centri urbani multietnici, multilingue ed ecumenici che erano il vanto dell’Europa centrale e del Mediterraneo Orientale. Nei paradossi che regala la Storia, è stata luogo di violenza dall’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando all’ultimo assedio, ma resta vivo il senso della sua resistenza dall’epoca ottomana, austroungarica e jugoslava. L’unicità della cultura pluralista di Sarajevo, capace di sopravvivere alla Prima Guerra Mondiale e a dispetto delle successive guerre e genocidi, è un bene in pericolo da preservare. Il carattere cosmopolita, multietnico, multiculturale e poliedrico di questa terra è una sfida costante alla Storia.
La situazione precaria e specifica della Bosnia Erzegovina e della sua capitale rendono il paese fondamentale per gli equilibri generali dell’area balcanica. Lo stato della giustizia e della politica, che governa sul principio della spartizione etnica del potere, come la corruzione dilagante alimentano la crescente sfiducia dei cittadini verso i cardini dell’ordinamento statuale in un sistema istituzionale molto complesso e farraginoso prodotto dagli accordi di pace di Dayton del 1995. Sarajevo si misura ancora, come il resto della regione, con gli effetti della transizione economica dal sistema jugoslavo al libero mercato e di una democrazia incompiuta.
“Sarajevo traccia una linea rara di contatto tra Oriente e Occidente – osserva Benjamina Karić, la sindaca più giovane nella storia di Sarajevo –. Le differenze che l’animano sono il suo tesoro più grande ed è il volto multiculturale che siamo orgogliosi di mostrare al mondo”. I trent’anni di Karić, nata nel 1991 da padre bosniaco musulmano e madre serba, coincidono con l’età della dissoluzione della Jugoslavia, della deflagrazione del conflitto fratricida e di una convivenza pacifica ancora piena di incognite. Una fotografia significativa di Toše Mitaševski ritrae Karić nelle strade di casa a Grbavica. Era il 1996, alla fine dell’assedio e aveva cinque anni. È in bicicletta e pedala tra le macerie e le carcasse di automobili crivellate dai proiettili.
Sarajevo, emblema del cosmopolitismo incrinato dalla retorica etnonazionalista, guarda all’Europa per risolvere l’isolamento di uno Stato mai uscito del tutto dal dopoguerra: “Questa città appartiene all’idea di Europa e occorre rilanciare la cooperazione con le più importanti città europee – prosegue Karić –. Innanzitutto dobbiamo dimostrare di essere la vera capitale della Bosnia, tessendo relazioni più forti con le altre città da Tuzla a Mostar. Moschee, sinagoghe, chiese cattoliche e ortodosse sono esistite sempre qui e hanno convissuto. La nostra prosperità dipende dalla sconfitta delle logiche della separazione etnica”.
Il carattere cosmopolita, multietnico, multiculturale e poliedrico di questa terra è una sfida costante alla Storia.
La pianta urbana e l’anima di Sarajevo, nonostante la ricostruzione postbellica, restituiscono ancora le ferite dell’assedio più lungo della Storia moderna e contemporanea, perpetrato dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. La guerra ha plasmato quattro generazioni in qualsiasi ambito della vita. Dopo trent’anni la personalità di tutti coloro che l’hanno vissuta in modo diretto e indiretto ne è ancora influenzata. “Il trasferimento del trauma della guerra di generazione in generazione è l’aspetto più preoccupante – spiegava la neuropsichiatra Irfanka Pašagić, pioniera nel trattamento e cura dello stress post traumatico –. Manca il riconoscimento reciproco. Nelle scuole non si rielabora ancora il vissuto del conflitto e ogni parte in causa racconta la propria versione della storia”.
In Bosnia si impara soprattutto che per i sopravvissuti la guerra non finisce dopo l’ultima bomba: il secondo tempo comincia quando si spengono le luci sulle macerie. Il trauma della violenza, che scava in profondità, si tramanda tra le generazioni e in ognuno è difficile decifrare che cosa possa diventare. L’assedio di Sarajevo ha lasciato in filigrana molte immagini, come l’amore inseparabile tra la venticinquenne Admira Ismić, bosniaca musulmana, e Boško Brkić, serbo ortodosso, che è divenuto nel mondo il simbolo della multiculturalità ferita di Sarajevo. Definiti i “Romeo e Giulietta” di Sarajevo, rimasero abbracciati per molti giorni così come erano stati uccisi il 19 maggio 1993 dai cecchini, appostati sulle montagne intorno a Sarajevo, mentre cercavano di fuggire dall’assedio attraversando il ponte Vrbanja. La coppia ebbe il coraggio di opporsi al concetto etnico di cittadinanza, imposto dalla guerra, che resta la ragione fondamentale delle tensioni e compromette ogni scenario di rilancio dell’area.
“Non permetteremo a nessuno di distruggere Sarajevo”: scandivano queste parole le decine di migliaia di manifestanti che invasero le strade della città dopo il referendum e la dichiarazione d’indipendenza della Bosnia, che il parlamento aveva proclamato il 3 marzo 1992, dopo quella di Slovenia e Croazia, segnando l’inizio delle ostilità belliche. Oggi fa effetto alloggiare nel simbolico Hotel Holiday Inn, dove risiedette Radovan Karadžić, presidente della Repubblica Serba di Bosnia, dal quale i cecchini serbo bosniaci dell’esercito, noto come Vojska Republike Srpske, e i paramilitari cominciarono a sparare e uccidere i manifestanti sarajevesi come Suada Dilberović e Olga Sučić che urlavano slogan di pace. Dagli spari di quel 6 aprile 1992 riecheggiano le domande che pone il film di Teona Strugar Mitevska L’appuntamento, appena uscito nelle sale cinematografiche italiane: chi ha il diritto di vivere Sarajevo trent’anni dopo la guerra? Esiste un punto d’incontro tra chi sparava dalle alture, mirando nelle case delle persone, e i sopravvissuti? Che cosa ha significato resistere 1460 giorni sotto assedio a Sarajevo?
Il paesaggio urbano è contaminato dal dolore e dalle lapidi: più di 11.500 morti, di cui 2mila bambini, 52mila feriti, tra i circa 280mila abitanti rimasti durante l’assedio, sopravvivendo alle granate, al fuoco dei cecchini, alla fame e all’assenza di acqua, luce e gas. Gli sniper sparavano anche sui funerali. I morti venivano sotterrati ai piedi dei palazzoni. Giardini, come i campi di calcio, divennero luoghi di sepoltura.
Chi ha il diritto di vivere Sarajevo trent’anni dopo la guerra? Esiste un punto d’incontro tra chi sparava dalle alture, mirando nelle case delle persone, e i sopravvissuti?
Al contempo la vita della città è stata ritessuta dalle storie di chi non ha ceduto alla barbarie della violenza. Il generale serbo Jovan Divjak, che animò la difesa territoriale di Sarajevo, condividendo il comando con un bosgnacco musulmano e un croato bosniaco, ricordava spesso: “La determinazione dei sarajevesi a vivere il più normalmente possibile era straordinaria”. Furono fondamentali civili come il tassista Mile Plakalović che salvò un numero altissimo di vite, prestando soccorso ai feriti e trasformando la propria vettura in un’ambulanza. Oggi tra gli eventi culturali spicca il Sarajevo Film Festival, nato proprio durante l’assedio, ormai centrale tra gli appuntamenti di rilievo del panorama cinematografico europeo.
Questa doppia anima che si respira nella città permea il romanzo Preghiera nell’assedio, appena pubblicato in Italia nella traduzione di Estera Miočić. L’autore Damir Ovčina, nato a Sarajevo nel 1973, fa entrare il lettore dentro a condomini popolosi, edifici con molti piani e appartamenti, luoghi che un tempo erano fonte d’orgoglio e dimostrazione del progresso socialista, luoghi sicuri e luminosi, prima di diventare l’obiettivo degli sniper ed essere crivellati per sempre dai colpi di artiglieria. La narrazione si apre nella primavera del 1992: Il primo giorno del terzo mese del terzo anno dell’ultimo decennio del ventesimo secolo. La conduttrice radio contrita. Sarajevo assediata nel corso della notte. Spiega dove e cosa è successo, poi intervengono corrispondenti da diverse zone della città. Raccontano ciò che vedono. Freddo e nuvoloso. Nessuno al parcheggio, nessuno per strada. Mio padre telefona. Parla poco, ascolta molto.
Mette giù la cornetta. Cosa sta succedendo? È per il referendum. Ci serve aiuto.
Per chi non ha potuto, voluto o semplicemente non è riuscito a lasciare la città, l’esistenza assunse un carattere di assoluta precarietà e arbitrarietà in balia del male e della potenza di fuoco delle armi. Nella sua prosa Ovčina restituisce questa caducità con frasi e cronache dell’abisso molto concise. La lingua diventa uno strumento di comprensione di una realtà stravolta: “Ovčina, come lui stesso dice, affida tutto allo stile – sottolinea Miočić –. La scrittura, e di conseguenza la lettura, procedono a piccole porzioni attraverso frasi brevi e semplici che punto dopo punto si ricompongono in un’immagine più complessa dell’esperienza che si sta affrontando. Questo procedimento stilistico rende la lettura del libro un’esperienza quasi reale e viva, è come se a poco a poco si fosse risucchiati dentro quella realtà”.
“La determinazione dei sarajevesi a vivere il più normalmente possibile era straordinaria.”
Ovčina, intrappolato per anni a Sarajevo durante la guerra, ha attinto a vicende autobiografiche, riuscendo a proporre la Storia e le storie sotto una luce nuova, come a ragione osserva la sua traduttrice: “Negli ultimi trent’anni la città è diventata una leggenda planetaria della cultura pop poco avente a che fare con il suo vissuto e il vissuto della sua gente. Il racconto che emerge in Preghiera nell’assedio riscatta l’immagine fin troppo spesso manipolata. E questo semplicemente perché il romanzo esula da ogni racconto stereotipato e scontato della sua vicenda bellica. Nel romanzo di Ovčina non vi è nulla di folcloristico, di auto-esotizzazione o di auto-vittimizzazione. In nessun momento riduce l’assedio della sua città a una storia tra buoni e cattivi. Il nero, come lui stesso dice, ha diverse sfumature e il bene è ancora più sorprendente del male, la vita è più complessa di quanto riusciamo a captare o a immaginare”.
Il giovane protagonista e voce narrante del romanzo, che è un adolescente come Ovčina nel 1992, sperimenta la frantumazione della realtà circostante e si trova costretto a decodificare l’orrore della guerra nel quale si trova all’improvviso immerso. All’alba dell’assedio è bloccato nel quartiere di Grbavica, occupato dalle truppe serbo-bosniache, e viene arruolato suo malgrado negli squadroni per la sepoltura dei cadaveri e lo svuotamento degli appartamenti abbandonati. Così Ovčina ricostruisce l’immagine vivida di ciò che è stato: La porta di un’abitazione aperta. Cose sparse sulla soglia. Nel soggiorno un divano marrone tranciato con un coltello. Macchie di caffè e una grande džezva blu sul tappeto vicino al tavolino basso. Due quadri staccati dalla parete e lasciati sul parquet sotto la finestra.
Dall’altra finestra la vista sul Trebević. Nella camera da letto due corpi. Un uomo sulla cinquantina. Una donna in vestaglia sotto la finestra. Girata di fianco. Cose sparse ovunque. Sulla parete sopra la testiera del letto diversi buchi. Di fianco al letto un cuscino con una fodera blu a fiori bianchi. Il capo entra, emette un gemito, si fa il segno della croce. Si siede sulla sedia alla destra del letto matrimoniale. Tira fuori un fazzoletto, si asciuga prima la fronte, poi gli occhiali. Stende bene il fazzoletto, per poi ripiegarlo. Il mio compagno si mette a piangere sottovoce, dice che finiremo tutti ammazzati e si siede per terra. Il capo mi ordina di allontanarmi dalla finestra, perché ci manca solo che crepi per mano della mia stessa gente. Prendo il lenzuolo dal letto e lo stendo sopra la donna. I suoi occhi chiusi. Indossa una vestaglia a fiori. Avviciniamo il corpo del marito al suo.
“Le cose io le conosco da sempre vedendo, ascoltando, annusando, toccando”, sosteneva John Steinbeck. In Vietnam salì a bordo delle pattuglie fluviali, perlustrò in elicottero e a piedi aree ampie, descrisse ciò che un soldato vede e vive quotidianamente. In uno dei messaggi raccolti in Vietnam in guerra – dispacci dal fronte (Leg Edizioni), il 14 gennaio 1967, Steinbeck s’interrogava se sarebbe mai stato possibile descrivere il Vietnam. In ciascuna di queste corrispondenze emerge la tensione di Steinbeck che esplora una condizione di solitudine e al contempo il tentativo di comprensione del mondo condensato in queste sue parole:Uno scrittore, al di fuori della propria solitudine, prova a comunicare come una stella distante che lancia segnali. Non sta raccontando, insegnando od ordinando. Piuttosto cerca di stabilire una relazione di senso, sentimento e osservazione. Siamo animali soli. Spendiamo tutta la nostra vita tentando di esserlo meno. Uno dei nostri metodi antichi è raccontare una storia supplicando l’ascoltatore di dire – e soprattutto sentire – “Sì, è questa la strada giusta, o almeno è ciò che sento”. Non sei solo come pensavi.
In Le cose che portiamo, Tim O’Brien avvertiva: “Se una storia di guerra ti sembra morale, non crederci. Se alla fine di una storia di guerra ti senti elevato, se hai la sensazione che da quell’enorme spreco sia stato salvato un piccolo pezzo di rettitudine, allora sei stato vittima di una vecchissima e tremenda bugia. Non c’è virtù”. Ovčina guarda dentro a questa oscurità, che continua a segnare il nostro tempo, lasciando una testimonianza precisa e nitida di una tragedia europea, della pianificazione e messa in opera di una pulizia etnica che non smette di ricordarci questa assenza di virtù.