I nstancabile e frenetica, fredda e appuntita come le sue guglie, la Milano di Alda Merini si lasciava andare solo nel quartiere dei Navigli, che erano il suo collegamento al mare. Da quelle vie perlopiù pedonali, che fiancheggiano canali un tempo navigabili, da quelle acque emerse spumeggiante la poetessa Alda Merini. Imponente Venere di liriche d’amore, mistiche e sensuali, sacre e profane, tanto carnali e crude quanto mitologiche ed eteree. Lì visse gran parte della sua piena e non facile esistenza. Tra quelle che già nel Gobbo, prima poesia data alle stampe nel 1948, definisce “due sponde che non si risolvono (insoluta io stessa per la vita), come le rive del Naviglio”.
A Milano, Alda Merini è nata con la primavera. Il 21 marzo del 1931, in via Mangone, non distante da Porta Genova. Il padre Nemo è assicuratore, la mamma Emilia casalinga; una sorella più grande e un fratello minore, Anna ed Ezio. Scuole professionali e studio del pianoforte. Poi, appena quindicenne il lavoro in uno studio notarile di via Verdi e la passione per la poesia che preme. A soli diciannove anni due suoi testi, Il Gobbo e Luce, vengono pubblicati nell’antologia sulle Poetesse del Novecento di Giacinto Spagnoletti, che la conosce per tramite di Silvana Rovelli, nipote di Ada Negri.
Durante la guerra la casa di famiglia è stata distrutta dai bombardamenti, i Merini sono stati sfollati a Vercelli, ma nel dopoguerra tornano a Milano e vanno a vivere in un ex deposito di stracci in Ripa Ticinese: due stanzoni, senza bagno e senza riscaldamento. Sul marmo del comò di casa, Alda Merini si perde nella scrittura.
Ricorda Giacinto Spagnoletti nell’introduzione di Terra Santa: “Da uno di quei portoni alquanto sbrecciati usciva la poetessa dallo sguardo incantato, incontrando sulla sua strada i personaggi che avrebbero poi popolato le sue visioni e i suoi ricordi”. E già allora conclude: “Sorda a qualunque lusinga di carattere letterario, non fu possibile alla Merini che vivere nella cerchia di Porta Ticinese”.
A Milano, Alda Merini è nata con la primavera.
È lì nell’umile casa dei genitori che la va a trovare Salvatore Quasimodo, il Premio Nobel che si presenta ai suoi, gioviale, mazzo di fiori alla mano. Se ne va guardando il Naviglio, com’è descritto in Lettere a un racconto, con il pensiero rivolto alle sue molte donne. Ben più travolgente il suo primo grande amore: quello per Giorgio Manganelli. Dopo di lui, racconta ne’ La battaglia di Manganelli: “mi risvegliai fiorita, di colpo in manicomio”. Tra i tanti versi per lo scrittore a cui rimarrà affezionata per tutta la vita, dedica anche questo Manganelli sul Naviglio, dove il canale sembra prendere le caratteristiche più complicate dell’amante: “Il Naviglio è un rettilineo ben strano, che non permette alcuna scansione. Sembra qualche cosa di sinuoso e fervido ma, invece, è lugubre, perentorio, ripetitivo”.
Però sposa un fornaio, Ettore Carniti, nel 1953, l’anno in cui esce la sua prima raccolta, La presenza di Orfeo, dove scrive che lo amava: “come un nume, un soldato che dirige tutte le truppe”. Mette al mondo quattro figlie: prima Emanuela e Flavia; poi, molto più avanti, Barbara e Simonetta. Ma nella panetteria di via Lipari del marito ci resta poco. Ispirata dall’amore infelice per il medico Pietro De Pascale, nel 1961 pubblica Tu sei Pietro. Ancora una volta versi che ricollegano i suoi amanti alle contraddittorie sponde del Naviglio:
Non è che dalle cuspidi amorose, crescano i mutamenti della carne. Milano benedetta, donna altera e sanguigna, con due mammelle amorose, pronte a sfamare i popoli del mondo. Milano dagli irti colli, che ha veduto qui, crescere il mio amore, che ora è defunto. Milano dai vorticosi pensieri, dove le mille allegrie, muoiono piangenti sul Naviglio.
Dall’anno seguente, il 1962, viene internata per dieci anni al manicomio “Paolo Pini” di Milano. Un luogo – la cui mostruosità le richiama alle mente le illustrazioni del Doré per la Commedia Dantesca e in cui subisce innumerevoli elettroshock (una cinquantina, si dice) – che racconta in uno dei suoi scritti in prosa, tra i più toccanti: L’altra verità. Diario di una diversa. Il racconto ci apre le porte di quegli spazi e di quei pensieri, ci spalanca all’evidenza di come quel decennio di reclusione, capitato in sorte a lei, si sarebbe potuto dispiegare sulla strada di chiunque.
Il dottore sostiene che io per lungo periodo persi il contatto con la realtà. Ma mi viene, anzi mi è sempre venuto un dubbio in proposito. Chi può stabilire cos’è la realtà? Perché noi chiamiamo realtà quella che vediamo, sentiamo, odoriamo. Non siamo dunque noi, la sola autentica realtà possibile? È da noi che partono le cose. E allora io andai solo un po’ più in alto nel regno della metafisica.
Sta di fatto, spiega ancora in quel testo, che “Il manicomio non finisce più. È una lunga pesante catena che ti porti fuori, che tieni legata ai piedi. Non riuscirai a disfartene mai. E così io cammino per Milano, con questa sorta di peso ai piedi e dentro l’anima”. In questo modo, mai pienamente fuoriuscita a quell’ambiente – e chiuso tra quelle pagine Pierre, il grande amore del manicomio -, ritorna a vivere al Naviglio. E quando il marito, nel 1981, muore per malattia, per fare qualche soldo Merini affitta una camera della casa al pittore Charles, altro uomo che vive gli spazi del Naviglio e assieme quelli intimi del suo cuore e della sua poesia: “La casa non geme più sotto lo scricchiolio dei suoi passi. Ridatemi i rumori della sua carne perfetta” (da Poesie per Charles).
Nel 1983 è già il tempo del secondo matrimonio, con l’anziano medico e poeta tarantino Michele Pierri. Si trasferisce a Taranto, ha un nuovo internamento all’ospedale psichiatrico pugliese, e infine, alla morte del marito nel 1989, rientra a Milano:
Caro Naviglio, ti lasciai molti anni fa, quando eri pieno di povertà e languore. Io andavo a sposare Michele Pierri. (…) Quando poi sono tornata non c’erano più caffè letterari, trattorie modeste, scherni e lazzi familiari, ma soltanto un aspetto opulento e direi tragico: è un Naviglio che si abbandona alla lussuria. (Da Lettere a un racconto.)
Un caffè letterario in realtà c’era ancora. E questi sono infatti gli anni del Chimera, il caffè libreria non lontano dalla sua abitazione. Come racconta introducendo queste “liriche cercate nel quotidiano”, Laura Alunno nelle note di Ballate non pagate:
portando con sé fogli dattiloscritti che regalava agli avventori, coperti di caratteri alterni, sfuocati e turchini perché la sua macchina da scrivere era senza nastro e lei batteva i tasti direttamente sulla carta carbone.
È il tempo delle stanche solitudini forzate delle vecchie del Naviglio. Lei, vecchia, tra loro, “Perduta ormai la via della speranza, vengo a cantare in mezzo a dei dementi, sospinta da un illogico destino”. Ora vive tra persone qualunque incontrate ai margini dei Navigli, come il suo nuovo amante Pierluigi Porta, detto Titano, pronipote del poeta meneghino Carlo Porta. Così se le altre vecchie pensano di aver sepolto il loro ultimo amore assieme al marito, per lei arriva Titano: “quell’armata fatta di un uomo solo che tu eri, e comincia di nuovo a far la guerra al sentimento, sopra ad un ronzino”. (Da Natale ai Navigli).
Dal 1995, sostenuta economicamente dal vitalizio della Legge Bacchelli per cittadini meritori in stato d’indigenza, vive ancora al Naviglio: “Il Naviglio delle ragazze bianche, così belle che Venere si perde”.
Noi grandi poeti (…) di questo incosciente Naviglio (…) noi che accampiamo quel desiderio vitale, di essere puri al di fuori di tutto, abbiamo fiducia che le pietre volino, di sotto ai vecchi pontili.
È un Naviglio duplice e conflittuale, come tutto. Così in Lettere a un racconto: “Il Naviglio è un rione maledetto. Il mio è un portone maledetto. Quando entro in questa casa mi sento stringere i fianchi come se qualcuno mi frugasse nel ventre per estrarne l’unica perla che ho: la poesia”. E ancora, in Canto Milano, del 2007: “Non l’amo più Milano. È diventata una belva che non è più la nostra città. Adesso è una grassa signora piena di inutili orpelli”. Eppure, allo stesso tempo: “È bellissimo tornare a Milano, di notte. Si potrebbe lasciarla per sempre solo per andare in Paradiso. Ma forse desidererei, anche da lì, la mia casa”.
Alda Merini lascia Milano e le umane spoglie il primo novembre del 2009. Dal 2011, la mansarda al secondo piano della casa di ringhiera di Ripa di Porta Ticinese 47, dove la poetessa era in affitto, ha smesso di ospitare anche la famosa parete su cui Alda appuntava pensieri improvvisi e un’estemporanea rubrica di numeri di telefono, caricature e disegni, tracciati a penna biro e rossetto rosso sull’intonaco di casa. Dalla poesia Il Bacio: “Tutti mi guardano con occhi spietati, non conoscono i nomi delle mie scritte sui muri e non sanno che sono firme degli angeli per celebrare le lacrime che ho versato per te”.
La Cerchia dei Navigli la legò indissolubilmente alla sua Milano, contenendo la sua vita di donna e di poetessa.
Per tutti quello sarà per sempre “il muro degli angeli”. Per Bolaffi che l’ha messo all’asta, quell’intonaco è “un pezzo di storia di Milano” che ha incontrato la sensibilità di un acquirente. Per i comitati cittadini – tra i cui il gruppo social Salviamo Casa Merini per iniziativa della figlia Barbara – è un ricordo da preservare e far pulsare di nuova vita. Oggi è così in parte custodito alla casa museo a lei intitolata nella ex tabaccheria comunale, in via Magolfa 32, a un passo dal Naviglio Grande, che raccoglie mobili e oggetti personali autentici donati dalle figlie, insieme ad alcuni scatti del suo caro fotografo Giuliano Grittini. Da una lattina di Coca Cola a un Pikachu, tra accendini e sigarette, lo Spazio Alda Merini si offre oggi alla città, polvere compresa. “Fatta di ali di farfalle sbriciolate: sono i pensieri che, dopo il volo, si fanno materia e come polvere rimangono a testimonianza; non spolverarla, cancelli la vita e i ricordi”.
Così, mentre la città di Milano propone lo Spazio Alda Merini come “un bene comune che accoglie le idee di tutti” tra tesseramenti, volontariato e donazioni, per le vie del quartiere dai bar capita di ascoltare omaggi sonori di amici di oggi e di ieri. Il cantautore toscano, milanese d’adozione, Giovanni Nuti alle liriche di lei – Alda Merini definiva il loro un “matrimonio artistico” – ha dedicato più di un lavoro, dalla versione in musica della poesia “I Sandali” nel 1993 alle celebrazioni per il decennale della morte della poetessa, patrocinate in Duomo nel 2019 dal Comune di Milano, passando per il cofanetto del 2017 Accarezzami musica – Il Canzoniere di Alda Merini con 6 CD, 1 DVD, 114 canzoni, 13 inediti e 21 brani con la voce di Alda Merini recitante, tra cui il doppio album Il muro degli angeli con duetti celebri (da Renzo Arbore a Milva, Omar Pedrini, Simone Cristicchi, Enrico Ruggeri, Lucia Bosè, Mariangela Melato e tanti altri) e il live del Poema della croce, registrato al Duomo nel 2006 con Alda Merini nella sua Milano davanti a più di quattromila spettatori.
“Sono molto irrequieta, quando mi legano allo spazio” scrisse negli Aforismi del 1997, illustrati per la casa editrice Pulcinoelefante dell’amico Alberto Casiraghi. Ma questo poté la Cerchia dei Navigli, che la legò indissolubilmente alla sua Milano, contenendo la sua vita di donna e di poetessa.