I n una città abbandonata eternamente battuta da una pioggia torrenziale appaiono delle giovani combattenti tornate dall’al di là per riportare ordine all’interno del “partito”. Sono mandate nel mondo dei vivi da un ex dissidente, tale Monroe, pure lui morto. Il loro aspetto è mutante, vagamento ragnesco. L’umanità è quasi interamente estinta, e ciò che è rimasto del paesaggio umano, oltre a molti cadaveri, sono rovine di edifici concentrazionari, carceri, ospedali psichiatrici abitati da pochi malati mentali e funzionari del fantomatico “partito”. Breton, un paziente psichiatrico dotato di poteri medianici, viene incaricato dal partito di entrare in contatto con le revenants aracnoidi per fermarle. Questa è più o meno la sostanza narrativa di Le ragazze Monroe, quarantacinquesima delle quarantanove opere post-esotiche previste da Volodine, pubblicata da 66thand2nd nella sempre accurata traduzione di Anna D’Elia.
Quarantanove opere per costituire un genere inventato: il fatto di potere anche soltanto concepire un progetto di questa portata è qualcosa d’inedito. Riuscirci davvero, come sta facendo Volodine, rasenta il fenomenale. Comunque si voglia giudicarla, questa collezione di testi e di eteronimi (Antoine Volodine è il principale di una serie di nomi d’arte usati dallo scrittore) rappresenta un avvenimento artistico degno di attenzione e probabilmente destinato a lunga vita, non foss’altro per la sua eccentricità.
Le ragazze Monroe ci riporta nei consueti paesaggi immaginari dello scrittore francese. D’altronde, a ben vedere, l’interesse di Volodine sta quasi tutto nelle ambientazioni fantastiche. Nei suoi romanzi i personaggi hanno ben poca consistenza psicologica, sono bidimensionali, simili a pupazzi o marionette, e lo stesso potrebbe dirsi della trama, qui come altrove pressoché assente, incoerente e confusa come in un sogno (la matrice surrealista sembra peraltro evidenziata dal nome del protagonista). Volodine coincide quasi interamente con il suo immaginario.
Non c’era nulla che brillasse oltre i muri. Le case mostravano varchi scuri e senza vita, a volte nascosti da persiane con stecche che s’intuivano appesantite dall’untume. Gomitoli di fili elettrici collegavano in maniera caotica gli edifici. Facevano pensare a ponticelli di liane o a reti tessute da ragni giganteschi. Era impossibile sapere se i cavi fossero elettrificati. L’acqua presente nell’atmosfera ormai satura si radunava negli angoli e gocciava senza interruzione dentro le pozze e sui marciapiedi, spaventevoli per solitudine e cupezza, o tra i binari semi inghiottiti.Per un numero indefinito di minuti, diciamo cinque, la musica che segue la pioggia costituì l’unico sottofondo sonoro. Poi la ragazza sul marciapiede uscì dal suo stato catatonico. Neanche lei sarebbe stata in grado di stabilire se la propria immobilità fosse attribuibile a uno svenimento, a un normale stato di sonno e di recupero delle forze fisiche, o a uno shock emotivo.
C’è l’immaginario postumano – uomini mutanti, uomini-animali – oggi al centro di tante fibrillazioni teoriche. Ma c’è anche quello post-sovietico, con il feticismo nostalgico dei i rituali del grande apparato, qui incarnato in particolare nella lunga lista delle “frazioni” che accompagna in appendice il romanzo. C’è l’immaginario concentrazionario-totalitario, dal sapore foucaultiano. C’è quello apocalittico, distopico e postnucleare, che neppure Volodine avrebbe immaginato potesse tornare tanto d’attualità. C’è quello sciamanico che trova adepti tra i cultori della Tutto questo impastato in un unico testo e declinato in uno stile venato di umorismo burlesco e beckettiano che il lettore abituale non faticherà a riconoscere come la cifra principale dello scrittore.
Leggendo l’ultimo Volodine la domanda che sorge spontanea è fino a quando una cosa ritenuta strana continui ad apparire tale.
Se Volodine è a tutti gli effetti uno degli autori europei più “weird”, e probabilmente tra i più “weird” del mondo quando consideriamo nell’insieme quello che sta facendo, la domanda che sorge spontanea è fino a quando una cosa ritenuta strana continui ad apparire tale. Più si avanza nella conoscenza del corpus post-esotico più si rischia di abituarsi alle sue cupe fantasmagorie. Credo che sia un meccanismo psicologico abbastanza banale. Forse servirebbero degli “occhiali di Hirsch”, come quelli che usa Breton per guardare nell’altro mondo, per riuscire a conservare intatto lo stupore che ha accompagnato le prime letture di questo scrittore. Oppure un amore tale per le sue idiosincrasie, una tale condivisione dei suoi incubi, da non sentirsene mai sazi.
Ciò non significa che Le ragazze Monroe sia un libro inferiore ai precedenti, anzi. Non mancano in questo romanzo alcune soluzioni degne di nota. Penso ad esempio all’uso originale del cosiddetto narratore inattendibile: nelle parti dove a raccontare è Breton (il romanzo alterna capitoli in prima e terza persona) il narratore, presumibilmente schizofrenico, sembra dissociarsi continuamente dal proprio pronome lasciando intendere che esista un secondo Breton, oltre a lui, che agisce nella storia. Questo sdoppiamento naturalmente rende il punto di vista molto incerto, destabilizzando il lettore. Altro elemento interessante è la difficile visualizzazione delle combattenti che danno il titolo al libro: le descrizioni, alcune delle quali indugiano su particolari anatomici disturbanti, sembrano incapaci di cogliere la consistenza fisiologica dei personaggi non completamente umani e c’è qualcosa di lovecraftiano in questa insufficienza del linguaggio davanti al mostruoso.
Tra le cose più umoristiche del libro c’è il modo in cui i cadaveri, alcuni dei quali sono ancora più o meno pensanti e senzienti, nonché parlanti, fanno un uso costante del turpiloquio. Devo ammettere che quest’immagine dei morti incazzati che imprecano ogni due parole ha qualcosa di memorabile.
L’uomo respirava a fatica, salire su per le scale pareva averlo sfiancato, e i suoi polmoni sibilavano in maniera convulsa, con una impercettibile nota da organetto alla fine di ogni espirazione. Era invecchiato e i suoi lineamenti avevano ceduto. Kaytel pensò subito che fosse morto anche lui. Porca puttana, pensò, adottando il linguaggio fiorito dei deceduti di fresco. Quindi questo cafone è crepato anche lui? Ma siamo proprio crepati tutti, cazzo?
Accanito avversario dell’autorialità, la varietà dei testi di Volodine pare però inversamente proporzionale alla sua prolificità, e leggendo le Ragazze Monroe mi è capitato di domandarmi quanto il lettore dovrebbe andare incontro a un romanziere che pure stima quando quest’ultimo si accontenti di riproporre una combinazione di elementi che, per quanto originale, resta pur sempre più o meno la stessa, domandando una sorta di fruizione rituale e fideistica delle proprie opere, più che una spassionata disanima o una goduriosa consumazione delle stesse.
Volodine vuole che giochiamo il suo gioco, ci porta sul proprio campo e ci mostra una tale persuasione, una tale genuina fiducia verso la propria idea, che riesce difficile abbandonarlo.
Detto in altri termini: Volodine vuole che giochiamo il suo gioco, ci porta sul proprio campo e ci mostra una tale persuasione, una tale genuina fiducia verso la propria idea, che riesce difficile abbandonarlo. Qualcuno potrebbe però trovare che il gioco sia diventato lungo, e davanti a questa lunghezza potrebbe cominciare a domandarsi dove vuole condurci: è un rischio, credo, che lo scrittore corre coscientemente.
Mi limito per il momento a sollevare la questione aspettando la fine della partita per osservare “l’edificio post-esotico”, come lo definisce l’autore, finalmente compiuto nella sua stravagante monumentalità.