F ermata della metro Barberini. Sono in anticipo e perdo tempo facendo quattro passi fino a via di Capo le Case. Lì dove c’era il bordello oggi c’è un alberghetto a tre stelle, uno dei tanti hotel del centro di Roma. Molti anni fa, il 16 ottobre 1943, mentre è in atto il rastrellamento degli ebrei romani, Mario Fiorentini scappa dal suo appartamento, attraversa il terrazzo in comune con la casa chiusa e sfugge miracolosamente alla retata.
Mario all’epoca è un giovane di venticinque anni, vive con i genitori ma spesso è a casa dello zio, poche strade più in là, vicino a via Rasella, dove ho appuntamento con Lorenzo Teodonio, studioso e autore, insieme a Carlo Costa di Razza partigiana, libro dedicato alla storia del partigiano italo somalo Giorgio Marincola. Con me ho un registratore, un microfono e un paio di cuffie: Lorenzo diventerà uno dei protagonisti di un audio documentario a cui sto lavorando. Qui oggi tutto è cambiato, uffici e b&b hanno cambiato faccia a un quartiere a vocazione popolare, abitato fino alla metà del secolo scorso da famiglie comuni. Teodonio ci passa tutti i giorni, è un ricercatore, un appassionato di storia e un professore, amico e biografo del partigiano e matematico Mario Fiorentini.
Cerchiamo un luogo defilato dove fare due chiacchiere. Gli unici segni ancora tangibili della vita che fu in questa stretta stradina scoscesa, indica Lorenzo, sono una antica vineria che ancora resiste e i buchi lasciati dagli spari dei fucili di un palazzo d’angolo, ben in vista su una facciata giallo ocra. Bisogna conoscerla però la vicenda, per darsi una spiegazione di quei fori, perché nessuna targa, lapide o cippo segna la memoria di quel giorno, che pure ha cambiato il corso della storia e della vita degli italiani.
Decidiamo per un anfratto silenzioso alle spalle del palazzo sforacchiato. Lorenzo inizia a raccontare. È il marzo del 1944, la primavera è alle porte. Gli americani sono sbarcati ormai da tre mesi a Anzio, a soli quaranta chilometri da Roma, leggenda popolare vuole che uno di loro sia anche arrivato in città a bordo di un sidecar. Si pensa e spera che la guerra stia volgendo al termine, ma le cose non stanno così: il fronte di Anzio è bloccato e il conflitto, viceversa, si intensifica. “In quei mesi i partigiani e i Gruppi di azione patriottici (GAP) romani moltiplicheranno le loro azioni, sono gli stessi americani a chiedere il loro aiuto, non riuscendo a sfondare la resistenza tedesca”.
Nessuna targa, lapide o cippo segna la memoria di quel giorno, che pure ha cambiato il corso della storia e della vita degli italiani.
Quel lungo inverno aveva già visto scorrere il sangue in molte strade della capitale, via Tomacelli, via della Lungaretta, via Cola di Rienzo… ed è un giorno di marzo quando nasce l’idea di una nuova azione. È ora di pranzo e a via Rasella, in una fiaschetteria, si incontrano quattro partigiani dei GAP: Lucia Ottobrini, Mario Fiorentini, Rosario Bentivegna e Carla Capponi. Vedono passare un gruppo di soldati tedeschi, sono centocinquanta, forse di più, marciano cantando nelle loro divise “verde marcio”, come appunta Mario, un colore che punge i suoi occhi dal giorno dell’arresto dei genitori, avvenuto in quel tragico 16 ottobre.
Nei giorni successivi Fiorentini nota che l’ora del passaggio dei tedeschi è sempre la stessa. Anche altri compagni verificano orari e coincidenze. Iole Mancini, una signora che quest’anno ha compiuto 103 anni, è la moglie di Ernesto Borghesi, uno dei gappisti che parteciparono all’azione. Quando a febbraio scorso siamo andati a trovarla nel suo appartamento ha detto: “Una volta Ernesto mi chiese di prendere l’orario del battaglione che partiva tutti i giorni da piazza del Popolo, ma non capii che era per l’azione di via Rasella. Non ero molto furba, ero solo una ragazza innamorata”.
Si delineano i dettagli e la strategia e dopo qualche esitazione si decide che tutto avrà luogo il 23 marzo. Lorenzo Teodonio spiega il perché di quella data: “Inizialmente l’azione era pensata un po’ più su, al Museo delle corporazioni, un grosso palazzo di architettura fascista, dove era prevista una manifestazione pubblica proprio in quel giorno, anniversario della fondazione del fascio, poi i fascisti decideranno di non farla più per ragioni di sicurezza”. Cambierà il luogo ma non il giorno.
Il 22 marzo Carla Capponi ritira l’esplosivo presso il centro militare clandestino, lo consegna ai compagni e attende la notte. Alle dodici di quel 23, insieme a Rosario, Carla mangerà alla birreria Dreher a piazza Santi Apostoli, dove un amico cameriere darà loro una doppia razione a prezzo dimezzato. I due si vedranno due ore più tardi a via Rasella, Rosario arriverà vestito da scopino, con un carretto contenente due bidoni: in uno, nascosto sotto a un mucchio di immondizia, ci sono diciotto chilogrammi di tritolo.
Quel giorno, fatalità, i tedeschi sono in ritardo. Dopo un’attesa infinita di quasi due ore Rosario fa per andarsene, quando, finalmente, poco prima delle sedici, il partigiano Guglielmo Placidi dà il segnale concordato: i tedeschi dell’undicesimo reparto del Polizei Regiment Bozen si avvicinano marciando e cantando una canzone che fa “Salta ragazza mia”. Bentivegna accende la miccia e corre veloce, Carla lo aspetta in cima alla strada, gli va dietro coprendogli le spalle con un impermeabile e insieme saltano al volo su un tram di passaggio. Il carretto salta in aria. Nell’esplosione muoiono trentatré tedeschi e un ragazzino italiano, si chiama Piero Zuccheretti. I tedeschi non capiscono cosa è successo, pensano che le bombe siano state buttate dall’alto, iniziano a sparare sui tetti, sulle finestre, ad altezza d’uomo. Tutto accade in pieno centro, in pieno giorno. Quando Adolf Hitler viene a sapere quello che è successo dà ordine che siano uccisi cinquanta italiani per ogni soldato tedesco morto e che venga fatto saltare in aria l’intero quartiere.
Via Rasella è una di quelle vicende in cui ancora storiografia e cattiva memoria continuano a confondersi.
L’ordine verrà ridimensionato. Ma saranno trucidate 335 persone, dieci per ogni tedesco più cinque, che nella confusione finiranno lì per sbaglio. L’eccidio avviene alle Fosse Ardeatine, alle spalle di Tor Marancia, lì dove oggi un mausoleo aperto al pubblico le ricorda. Tra loro ci sono giovani e vecchi, ricchi e poveri, ebrei e cristiani, sono rastrellati in fretta e furia per strada, intorno a via Rasella, ma anche nelle carceri di Regina Coeli e di via Tasso, come il giovane Orlando Orlandi Posti, che poche settimane prima di quel 24 marzo era stato arrestato nel quartiere Montesacro. La memoria di quei tragici giorni di prigionia è conservata a Pieve Santo Stefano, presso l’Archivio diaristico, lì sono esposti i piccoli fogli che Orlando appallottolava in minuscoli rotoli e nascondeva nella biancheria da lavare che consegnava alla madre. Nell’ultimo scritto, quando evidentemente al diciottenne era chiaro che sarebbe stato fucilato a breve, si rivolge alla sua amata: “Marcellina, sappi che ti volevo bene, solo ho saputo far tacere il mio cuore perché non ero degno finché non avessi avuto aperta la via di un avvenire sicuro, perciò ora, cara, che è impossibile che possa realizzare il mio sogno, ho voluto confidarti il mio segreto”.
Ascanio Celestini ha raccontato l’azione di via Rasella e l’eccidio delle Fosse ardeatine in Radio Clandestina, un monologo teatrale basato sul libro di Alessandro Portelli L’ordine è già stato eseguito. Questa storia, dice Celestini, potrebbe essere raccontata in un minuto, come in una vita. La si può ripercorrere così, in un paragrafo, oppure tuffandosi nelle testimonianze di centinaia di persone direttamente o indirettamente coinvolte, sfogliando il saggio di oltre quattrocento pagine di Portelli o raccogliendo le ricostruzioni di storici e appassionati. Quel che è certo è che ogni volta che la si racconta, questa storia, sorge una controversia, un dettaglio sconosciuto, un piccolo o un grande cortocircuito: nonostante siano passi 79 anni, è una di quelle vicende in cui ancora storiografia e cattiva memoria continuano a confondersi.
La leggenda più rinomata è quella dei manifesti, una falsità ancora difficile da smontare, nonostante le evidenze storiche. La sequenza è questa: il 23 marzo avviene l’azione, il 24 la rappresaglia, il 25 i lettori dei giornali romani trovano il seguente comunicato dell’agenzia ufficiale Stefani, a firma del comando tedesco della città occupata di Roma, redatto alle 22.55 del 24 marzo: “Nel pomeriggio del 23 marzo, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bomba contro una colonna tedesca di Polizia in transito per Via Rasella […] Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito”.
Il 24 marzo l’ordine è già stato eseguito, eppure ancora oggi c’è chi pensa che i tedeschi invitarono gli autori dell’azione a presentarsi e che loro vigliaccamente si nascosero, c’è addirittura chi ricorda che la richiesta avvenne attraverso dei manifesti affissi per la città. Non c’è stato nessun manifesto, perché non c’è stata nessuna richiesta, l’annuncio della rappresaglia è dato solo dopo che l’ordine era già stato eseguito. Il 25 novembre 1946, nel corso del processo iniziato qualche giorno prima nelle aule dell’Università La Sapienza, al comandante delle forze tedesche dell’Italia del sud Albert Kesselring si domanda: “Faceste qualche appello alla popolazione romana e ai responsabili dell’attentato prima di ordinare le rappresaglie?” “Prima no” “Avvisaste la popolazione romana che stavate per ordinare rappresaglie nelle proporzioni di una a dieci?” “No” “Ma voi avreste potuto dire: se la popolazione romana non consegna entro un dato termine il responsabile dell’attentato fucilerò dieci romani per ogni tedesco ucciso…” “Ora, in tempi tranquilli, dopo tre anni passati, devo dire che l’idea sarebbe molto buona” “Ma non lo faceste?” “No, non lo feci”.
Non c’è stato nessun manifesto, perché non c’è stata nessuna richiesta, l’annuncio della rappresaglia è dato solo dopo che l’ordine era già stato eseguito.
A via Rasella non c’è nessuna targa o cartello o memoriale a ricordare l’azione. Non c’è perché nessuno ha mai fatto richiesta. La giornalista Cecilia Ferrara ha scartabellato nel sito del Comune di Roma e parlato con la referente per la memoria Maria Vittoria Mancinelli, ha appreso che le targhe vengono decise da un’apposita commissione del Comune rinnovata a ogni legislatura (nel 2017, per esempio, è stata messa una targa in una casa a Trastevere per ricordare che in quell’appartamento aveva vissuto Lucio Dalla per un breve periodo). Una targa a ricordo dell’azione del 23 marzo non è mai stata deliberata, mentre si è discusso di porne una in ricordo di dieci persone rastrellate a via Rasella il giorno dell’azione e trucidate alle Fosse Ardeatine, la si può vedere in via delle Quattro fontane, a un centinaio di metri dal luogo esatto dell’azione, perché l’assemblea di condominio dell’edificio di via Rasella non ha permesso la posa sulle proprie mura. Accadeva nel 2010, in quegli stessi anni altre discussioni per altre pratiche per targhe richieste a ricordo di azioni dei GAP si sono concluse con parere negativo, a seguito dei dinieghi dei condomini su cui avrebbero dovuto essere state affisse. “Non è facile, sà”, mi ha detto al telefono Mancinelli, “quando si tratta di mettere qualcosa sulle proprietà private…”.
Chi erano quei tedeschi che passavano di lì ogni giorno? C’è chi ha detto che erano vecchi soldati, una falsità che nasconde una verità più complessa. Lorenzo Vianini ha dedicato una tesi di laurea in storia a questo tema. Per capirci di più, spiega, bisogna fare un passo indietro di quattro anni rispetto a quel 1944. È nel 1939 che in Sud Tirolo avviene quella che sarà chiamata “l’opzione”: ai sud-tirolesi in lingua tedesca viene chiesto di scegliere, diventare italiani, rinunciando definitivamente a tornare in Austria e nella grande Germania, o optare per il terzo Reich, entrare a fare parte della Germania nazionalsocialista, mantenere le proprie tradizioni linguistiche e ottenere all’interno del Reich una proprietà di uguale valore rispetto a quella che lasciavano in sud Tirolo.
Alcune settimane di propaganda bastano a fare decidere circa l’81% dei sud-tirolesi per la seconda opzione, alcuni partono, mentre la maggioranza, pur avendo optato per la Germania, rimane. Il sud Tirolo si trasforma così in un interessante campo di reclutamento per gli scopi del terzo Reich. Dopo l’armistizio dell’8 settembre si mettono gli occhi sui possibili arruolabili, all’interno di questo quadro si inserisce la storia dei Polizei Regiment e del Bozen, il primo reggimento che viene creato. Il Bozen ha una composizione molto eterogenea: persone che non erano state arruolate precedentemente per qualche motivo, uomini che avevano già svolto il servizio nell’esercito italiano e che vengono riarruolati, vecchi soldati e giovani leve. Il loro compito a Roma è ben preciso: dimostrare la presenza tedesca, fare vedere che Roma è ancora occupata. Lo fanno percorrendo la città, dalla zona dove alloggiano, vicino al Quirinale, fino al campo di addestramento, marciando, cantando e tenendo ben in vista le loro armi. Quel 23 marzo la loro marcia è brutalmente interrotta.
Ad oggi su questa vicenda ancora non si vede una crescita dal punto di vista storiografico e memorialistico, basti pensare che il Dolomiten, il quotidiano in lingua tedesca più antico e più letto dell’Alto Adige, ogni anno pubblica un trafiletto in cui si ripete che tutta la colpa delle Fosse ardeatine è dei partigiani, quindi le vittime di via Rasella sarebbero 368, i trentatré soldati tedeschi più i 335 delle Fosse.
“Ma anche dal lato italiano permangono grosse difficoltà a guardare in modo obiettivo all’azione di guerra di via Rasella e alla connessa (e non conseguente) rappresaglia delle Fosse”, spiega Vianini. “È un processo difficile, perché riguarda due categorie di vittime molto diverse: da una parte ci sono gli uccisi nella rappresaglia, vittime delle politiche di repressione che miravano a sottomettere la comunità di Roma, dall’altra ci sono dei soldati in assetto da guerra, un obiettivo militare come se ne trovavano da ogni parte in quei mesi”.
“Il fatto militare importante”, conclude Lorenzo Teodonio, “è che da quel giorno in poi i tedeschi non passeranno più al centro della città. Roma, che nasceva l’8 settembre come città aperta, solo grazie a via Rasella diventerà davvero città aperta. In pochi lo dicono, eppure i bombardamenti americani volgeranno al termine dopo quel giorno, grazie a un’azione realizzata per merito di una rete ben radicata, dove mezza città, come confesserà anche Herbert Kappler nel corso del suo processo, nascondeva l’altra mezza città”.