Paolo Pecere
/ IMMAGINE: Chiesa della Beata Vergine del Rosario ad Asmara / shutterstock
3.3.2023
L’Eritrea, e come raccontarla
Esperienza, memoria, storia coloniale: una conversazione con Tommaso Giartosio a partire dal suo racconto di viaggio Tutto quello che non abbiamo visto.
Paolo Pecere si occupa di filosofia e letteratura. Tra i suoi saggi "La filosofia della natura in Kant" (2009), "Dalla parte di Alice. La coscienza e l'immaginario" (2015) e "Il dio che danza. Viaggi, trance e trasformazioni" (2021). Suoi racconti sono comparsi su "Nazione indiana" e "Nuovi argomenti". Ha pubblicato due romanzi, "La vita lontana" (2018) e "Risorgere" (2019), e il manuale "Filosofia. La ricerca della conoscenza" (2018, con R. Chiaradonna). Il suo ultimo libro è "Il senso della natura. Sette sentieri per la Terra" (2024).
A
lcuni anni fa sono andato a visitare l’Eritrea e ho scritto un racconto di quel viaggio. Mi colpiva la sproporzione tra i legami storici e personali strettissimi con l’Italia, di cui avevo trovato i segni nel Paese, e l’assenza totale dell’Eritrea dalla memoria condivisa e dal dibattito pubblico italiani. A questo si aggiungeva il dramma dei naufragi avvenuti sulle coste italiane, che non era bastato a riscuotere l’attenzione su quei legami rimossi. I racconti e i documentari che indagavano questo intreccio mi sembravano troppo pochi, mi appariva una lacuna della coscienza il cui senso deve ancora essere indagato.
Nel 2019, Tommaso Giartosio è andato in Eritrea e ora racconta la sua esperienza in Tutto quello che non abbiamo visto (Einaudi, 2023). In questo libro si trova una narrazione capace di rievocare la realtà eritrea e il modo in cui ci coinvolge, che va molto oltre il richiamo dei fatti storici e le descrizioni di luoghi e persone. Per la costante riflessione sul linguaggio come chiave di lettura dei luoghi, accompagnata dall’esposizione ironica dell’autore-viaggiatore, il libro sembra proseguire una ricerca narrativa di Giartosio che ha già trovato espressione, tra l’altro, in La O di Roma (Laterza, 2012). Ma Tutto quello che non abbiamo visto, facendo leva sul caso esemplare dell’Eritrea, mi pare una più generale messa in questione del racconto di viaggio, che riesce a definirne e ne analizza le profonde e perturbanti implicazioni. Di tutto questo ho deciso di parlare con l’autore.
Il tuo è un racconto di riflessioni e incontri, prima che di luoghi. Inizia con l’angoscia della partenza, la paura di pericoli che come Erinni facciano giustizia, la fantasia dell’aereo dirottato, e dopotutto: “loro” avranno qualche risentimento verso “noi”. Hai scelto di raccontare un viaggio in Eritrea, oltre ottant’anni dopo la fine del colonialismo italiano, senza avere dietro un canone consolidato, un’elaborazione di quel che è accaduto e delle stesse forme del narrarlo. Tempo di uccidere di Flaiano è del 1947, ci sono film di genere, brevi prose di Pasolini, racconti stilizzati di esotismo e nostalgia, ma nel 2021 ancora sembra che non si possa scrivere di Eritrea confidando nel già detto precedente, tantomeno su una conoscenza condivisa della storia e dell’attualità.
Ho scritto questo libro per riempire un silenzio, è vero, ma era in primo luogo un silenzio dentro di me. Vedi, se devo cercare le radici più remote di questo viaggio, ne trovo due. Una ha a che fare con la convinzione (legata alla mia esperienza di gay) che la curiosità, il desiderio altrui di conoscere, anche quello ancora intriso di stereotipi e addirittura di morbosità, sia meglio di un atteggiamento di contrazione epistemica magari travestito da rispetto: perché il primo è comunque dinamico e vitale, il secondo è atrofico. Perciò è meglio rischiare e cercare di conoscere da “non esperti”, che chiudersi nel silenzio. L’altra radice è il ricordo del 1989, la caduta del muro di Berlino e il senso di sollievo prepolitico che ne ricavai: a me, europeo, una parte fin lì negata della mia potenziale esperienza di incontro umano veniva improvvisamente restituita. In quel momento ho sentito che a maggior ragione dovevo cercare di fare esperienza dell’altro extraeuropeo e postcoloniale, perché era qualcosa che mi veniva sottratto. In questo senso ha contato molto, qualche anno dopo, l’esempio del libro di Edoardo Albinati sull’Afghanistan, Il ritorno (anche se ciò che io ho poi scritto sull’Eritrea è sotto tanti punti di vista un progetto di scrittura diverso dal suo, nato da un’esperienza ben diversa). Queste motivazioni si sono poi sommate agli innumerevoli silenzi intercettati in questo viaggio: il nostro quasi secolare silenzio di italiani sulla nostra ex-colonia; il nostro silenzio sulla strage dei migranti, in larga parte eritrei; il silenzio degli eritrei sull’oppressione di un regime autoritario; il silenzio del regime stesso. C’è davvero molto da raccontare, ma questo forse sarebbe più un compito per storici, politici, reporter; io, come scrittore, ho cercato di capire soprattutto come si allestisce e organizza questo silenzio, ho provato a immaginare e ricostruire quali siano le sue regole del gioco.
Definisci il racconto di viaggio come “l’esperienza di un non esperto”. Eppure il tuo racconto è caratterizzato anche da una studiata attenzione alla retorica dei gesti. Un ragazzo ti bacia la mano per gratitudine, danzi a un matrimonio, fai il bagno nudo alle Dahlak, giochi a nascondino con i bambini, ma in queste esperienze, come scrivi, non c’è innocenza. Trovo esemplare il tuo procedimento: prendi delle emozioni comuni del racconto di viaggio – la compassione per l’altro, il tornare giovani, lo stupore per le altre vite, il senso di colpa, l’ammirazione della bellezza – e le riproponi, ma subito le squaderni. Di solito ricorrono nei racconti di viaggio come elementi non analizzabili, monete emotive; tu le scomponi, ne esamini il valore neutralizzandolo per un attimo di sospensione, come fosse fuori corso. Ho pensato che, per contrasto col ricordo di italiani che arrivavano qui cantando “Faccetta nera”, disorientati da incongrui miti imperiali, tu sottoponi ogni slancio a uno sguardo riflessivo, ogni calore a una prova del freddo.
Mi fa piacere che tu abbia notato questo movimento, che è precisamente ciò che mi interessa, e in parte coincide con le “regole del gioco” di cui ti parlavo. È chiaro che, se lo slancio conoscitivo è apprezzabile anche qualora sia rivestito dei cliché etnocentrici (e questo è in qualche misura inevitabile), occorre poi prendere coscienza di questi gravami e sottoporli a critica. Qui di nuovo citerei Il ritorno, perché Albinati getta lo sguardo sugli afghani ma soprattutto sui suoi colleghi di lavoro: per lui sono più leggibili, e poi è meno ovvio e in realtà più urgente leggere loro che gli afghani, interpretare e smascherare i loro gesti, emozioni, reazioni, sublimazioni, alibi. Certo, poi si pone il problema di cosa farne di questa presa di coscienza. Esiste un posizionamento interamente libero dai presupposti che la nostra cultura ci impone, una suprema, asettica indifferenza rispetto a qualsiasi marcatura culturale? Non credo. Perciò occorre in qualche modo farsi carico del proprio orizzonte. C’è una pagina a cui tengo molto, appunto quella in cui facciamo il bagno alle isole Dahlak, un arcipelago che sembra realizzare l’ideale esotico europeo: isolette di candida sabbia corallina, acqua cristallina, pesci tropicali. Permettimi di citare: “Non eravamo innocenti (chi lo è?), ma mettevamo in scena la nostra retorica dell’innocenza. Mai siamo stati così noi stessi come in quella mezz’ora di abbandono: sprofondati nell’illusione che più ci apparteneva, come uno sciamano sprofonda nella sua trance. E i nostri corpi segnati da tutte le fiacchezze e le fatuità dell’Occidente – gli eritremi solari e le unghie ricostruite e le pance da pastasciutta e i tatuaggi scelti da un catalogo – quel pomeriggio sono stati corpi ridicoli, e puerili, e gloriosi”. L’importante è che si sappia mettere in prospettiva il momento in cui ci si riconosce nella propria cultura. Qui attraverso l’abbandono; in altri momenti attraverso la critica, l’ironia, lo straniamento, talvolta la pietà.
Asmara, come dici, è una città che ricorda l’Italia di oltre cinquant’anni fa. Visitare gli sfondi d’epoca di questa “piccola Roma”, i cinema, le insegne in italiano, i viali con i negozi con “le vetrine di una nudità sovietica” ha un effetto straniante, ha un’attrattiva problematica, sembra un estetismo astratto. Parli di “dignitosa povertà”, diversa da quella sudafricana e da quella di Roma. E punti il dito sulla “vocazione turistica”, che spesso è la soluzione delle tensioni post-coloniali. Visiti una scuola secondaria dove i ragazzi imparano a fare i letti alla occidentale, e senti “qualcosa di ripugnante in questo campo di addestramento per boy indigeni volto a sfruttare l’evidente vocazione turistica dell’Eritrea, e magari gli eritrei stessi”. Eppure, come riconosci, il turismo sarebbe un rimedio alla povertà, una possibilità economica. Forse in quel modello qui ti appare l’ombra del colonialismo?
Non so se sia possibile immaginare una solidarietà con i Paesi marchiati a sangue dal colonialismo che non sia esposta a derive neocoloniali. In realtà, penso che tutto il lavoro che da decenni stiamo compiendo (e non è ancora compiuto) per recuperare una piena consapevolezza di come la Shoah abbia segnato i destini dell’Occidente, sia utile anche come prova generale del lavoro che ancora dobbiamo compiere per prendere coscienza della abissale, feroce divaricazione operata dal colonialismo. Le generazioni ormai si sono avvicendate, dunque non è una questione di responsabilità personale (anche se vi è una responsabilità nel ricordare male o troppo poco), quanto soprattutto di assunzione collettiva di un’eredità storica e della reale necessità di superarla. Perciò, a farla breve, non c’è una via d’uscita pulita, sicura, interamente giusta e assolutoria. Ma una realtà come quella eritrea ci fa invidiare il momento in cui potremo permetterci questi scrupoli. Per ora ciò che conta è soccorrere uno dei Paesi più miseri del mondo. Sarò franco: io ho molta simpatia per la laicité alla francese, ho sempre pensato che il sostegno ai Paesi in via di sviluppo fosse compito dello Stato italiano e che lasciarlo alle organizzazioni di stampo ideologico o religioso fosse un errore, ma di fronte alla situazione drammatica di Paesi come l’Eritrea ho sentito che questa impostazione andava messa in sospeso. Ho chiesto il sostegno di organizzazioni cattoliche, ho raccontato il loro operato, ho riconosciuto che svolgono un lavoro prezioso. O lo svolgevano, perché dopo il mio viaggio il governo eritreo ha nazionalizzato le scuole religiose e ostacolato sempre più l’azione delle ONG.
È fin troppo facile – ma non falso – dire che visitando l’Eritrea si ha l’impressione di osservare i resti di un passato di cui da noi non si parla, e che la diversa direzione presa dal Paese liberato lo fa assomigliare a un parente lontano con cui non si ha avuto a che fare per una vita. Nel tuo racconto ti soffermi sui luoghi in cui l’Eritrea ancora celebra una gemellanza dolorosa con l’Italia, come Dogali o il cimitero italiano. Eppure questi segni non bastano a ritrovare un rapporto storicamente vivo. In Eritrea, oltre ai miraggi del passato coloniale, agisce poi un’altra sospensione del tempo: l’accesso a internet è impossibile o molto parziale, la televisione di regime fa propaganda, non c’è opinione pubblica. A questa condizione di isolamento rispetto alle nostre abitudini per situarci nel presente rispondono, da parte eritrea, i miti di autonomia e l’orgoglio nazionale dovuto a trent’anni di Resistenza contro il dominio coloniale, culminata in una sorprendente vittoria. Dichiari la difficoltà di raccontare fatti storici che in parte non si vedono e di cui non si parla: la guerra, l’emigrazione, le carceri. Dai tentativi di raccogliere opinioni politiche tra gli eritrei ricavi l’impressione di persone scisse – con poche eccezioni – tra accettazione e rassegnazione rispetto al regime, prive dell’idea di un’alternativa democratica. Di fronte a tutto questo è facile cadere in immagini astoriche dell’Eritrea come Paese fuori dal mondo, miracolo di autonomia o triste “Corea del Nord” africana. Nel libro hai cercato una prospettiva storica o hai preferito attingere alla realtà degli incontri, agli istanti, per farli lavorare nella memoria?
Sai, per quanto riguarda la distanza tra la temporalità eritrea e quella italiana, che può dare l’impressione di vivere in epoche diverse o addirittura in due presenti alternativi (senza che si possa dire quale sia quello autentico e quale quello controfattuale), è utile ricordare che le metafore da cui sei partito – il “parente lontano”, la “gemellanza” – in realtà vanno prese alla lettera. In Eritrea ci sono migliaia di nostri parenti, neanche tanto lontani. Sto pensando ai cosiddetti “meticci” a cui lo Stato italiano si ostina a non riconoscere la doppia nazionalità attraverso dispositivi discriminatori che hanno a che fare, di fatto, con il divario economico tra i due Paesi: quasi nessun “meticcio” può permettersi di sostenere i costi di una causa presso un tribunale italiano. Così si replica quel meccanismo sperequativo di cui ha spesso parlato Igiaba Scego, fondato sul differenziale di potere tra i passaporti. Questo è solo uno dei tanti aspetti del rapporto scaleno tra i due Paesi; però è eclatante, perché marca una divisione non solo tra connazionali (tali eravamo fino a qualche decennio fa) ma tra consanguinei. Superare questa divisione significherebbe, come osservi, per prima cosa raccontare il passato e il presente dell’Eritrea, e questo è un compito che si inizia ad affrontare, per esempio con gli studi postcoloniali che ormai si vanno diffondendo nel nostro Paese. Per come lo concepisco, il compito del viaggiatore è un altro: cercare tracce che possono essere anche minime, ma soprattutto registrare “antropologicamente” la relazione che si istituisce con queste tracce. Rendere conto di quell’intreccio di affetto, rancore, curiosità, malinconia – e molto altro ancora – che caratterizza lo sguardo eritreo sull’Italia. Spesso non sarà possibile attingere una presa di posizione politica o una visione storica fondata, ma occorre provare a leggere gli sguardi più o meno partecipi, le mezze frasi, i gesti formali ma proprio per questo rivelatori, la prossemica di una cultura diversa, la “retorica dei gesti” di cui parlavi prima… A volte è davvero come carpire un segreto, e lo dico sapendo che il rischio di fraintendere è altissimo. Occorre una semiotica sospettosa, anche di sé stessa.
Più che la storia, sembra interessarti il rapporto con le persone che incontri. Confessi che tu e i tuoi compagni di viaggio eravate “prigionieri d’amore”. Anche qui si agitano sullo sfondo miti coloniali. Ruoli maschili (dici di aver visto “maschi-maschi”) e femminili possono suscitare attrazione insieme a disagio, in un Paese dove d’altra parte – come ricordi – l’omosessualità è un reato, e restano normali i matrimoni combinati. In questo gioco di contrasti mi è sembrato di vedere non soltanto un’indagine sulla società eritrea, ma anche un riflesso dell’Italia che ti sei lasciato alle spalle, il nostro rapporto ancora in gioco con modelli sociali ancora forti benché messi in questione, che in Eritrea appaiono ancora, per così dire, in abiti tradizionali.
Questo è un vero e proprio terreno minato. Prima di tutto perché il potenziale proiettivo è altissimo, e anche persone che sembrano aver scaricato per intero la zavorra di pregiudizi e aspettative che tutti ci portiamo dietro, quando entrano in gioco l’eros e il genere si scoprono alle prime armi. Poi perché è fortissima la tentazione di ricorrere a certe vecchie chiavi interpretative che presuppongono un’ipotesi simile alla “zona sotadica” di Burton, una progressione lineare universale da un universo tradizionale verso modelli di emancipazione occidentali. Lungi da me il respingere i valori che questi modelli per noi incarnano. Io non sono di quelli che pensano che i diritti umani vengano imposti dall’Occidente a culture che non ne hanno bisogno. Però penso, appunto, che una cosa sono i valori, un’altra le identità e le pratiche. La maschilità eritrea può sembrarci tetragona, e certo è tale se usiamo come metro la sua (inesistente, direi) apertura all’identitarismo gay; ma non escludo che essa, proprio perché gode di un privilegio indiscusso, sia in grado di includere – con qualche compromesso, con qualche ipocrisia – pratiche che noi non consideriamo eterosessuali o cisgender. A un certo punto del libro parlo del mio incontro con un pastore eritreo che mette lo smalto viola sulle unghie perché “gli piacciono le cose della ragazze”: cosa possiamo dire di questo comportamento? Pochissimo (a meno che non sia possibile approfondire la questione con lui stesso): ma è importante dire che esiste, e che la sua stessa imprevedibilità ci affascina.
In questo racconto di fantasmi del passato, erompe di continuo l’infanzia a riportarti al presente. La “travolgente allegria collettiva” dei bambini, la loro felice disposizione al gioco, sembra una luce pura nel tuo racconto. Qui tocchi un altro punto critico dell’esperienza di viaggio e della narrativa di viaggio: la vitalità riflessa che si riceve da esserini festanti in luoghi poverissimi. Il fatto stesso di visitare paesi pieni di bambini per le strade è per noi esotico, esilarante e corroborante; ma loro come la vivono? A forza di giocare con i bambini eritrei, leggi qualcosa in filigrana nei loro slanci: quell’energia ha una complessità nascosta, un “origami di sentimenti” in cui c’è gioia e curiosità, ma anche sollievo di evadere da situazioni dure, e anche rabbia.
Nel libro ho esplorato a lungo questo che è un vero e proprio tópos della letteratura di viaggio: l’incontro con un’infanzia tanto più festosa quanto più miserabile. Credo che si debba, anche in questo caso, fare uno sforzo per dare una lettura non ingenua di questa energia travolgente che spesso ha qualcosa di isterico. O per metterla in termini meno medicalizzanti: possiamo chiederci che ne sarà di questa vitalità quando i bambini diventeranno adulti, che forme adotterà – equilibrate, violente, depressive? Però occorre anche interrogarsi sullo sguardo che noi occidentali portiamo su queste manifestazioni di allegra turbolenza infantile. Il vissuto italiano, come osservi, è segnato da una disabitudine alla giovinezza (chi torna dall’Africa non può fare a meno, credo, di sentire a volte un senso di oppressione di fronte al nostro paese per vecchi), il che non può non indurci a un’euforia obbligata di fronte alla ciurma di infanti. A ciò si aggiunge il senso di colpa. Anni fa, quando studiavo il percorso che in Sudafrica ha portato al superamento dell’apartheid, mi ha molto colpito la frase di un amico che tornava da Cape Town: “I bianchi hanno tutti una coda di paglia pazzesca. Non vogliono crederci, che sono stati perdonati. Ma è così. Li hanno perdonati”. Non dico che questa analisi fosse accurata (penso, in realtà, che ci sia stato – diciamo – più perdono di quanto i bianchi immaginino, ma certo non c’è stato solo perdono). Ma mi colpisce che il mio amico (bianco) sentisse il bisogno di trasmettermi questa buona novella. Ecco: sospetto che la gioia dei bambini africani sia uno stereotipo turistico così potente perché incarna, per estensione, questo perdono di cui sentiamo tutti un dannato bisogno. Il che ci impedisce di coglierne la complessità.
Narrando di bambini e adulti, c’è una domanda che ti poni di continuo nel libro, scandagliando gli sguardi e le parole: “e loro come vedono noi?” Fatichi a oltrepassare il riserbo degli eritrei, il loro diverso senso dell’intimità, a cui si sovrappone, come ulteriore strato opacizzante, il pensiero costante della delazione verso il governo, che è un reale pericolo. Racconti di aver messo in atto vere e proprie strategie per lasciar emergere reazioni altrimenti trattenute. Infine hai creduto di trovare un sentimento di ambivalenza verso gli italiani: c’è la memoria di un male subito, ma al tempo stesso, proprio perché c’è stata una profonda relazione, restano pure sentimenti positivi. Ricordi che degli eritrei si diceva, in Africa, che fossero “figli dei fascisti”. Forse una comune eredità problematica ha a che fare con quel complesso di sentimenti?
La tua domanda getta una rete molto larga. Da una parte dobbiamo muoverci con cautela, perché rischiamo di intercettare una diramazione del luogo comune sugli italiani brava gente e colonizzatori miti: penso all’idea primo-novecentesca di un’Italia Paese povero, ultimo arrivato tra le potenze occidentali, ma con una demografia robusta e un’antica vocazione agricola, e per tali motivi più in sintonia con le civiltà “arretrate” delle colonie. Questi sono gli argomenti che hanno sostenuto la nostra retorica imperialista. Come tutti gli stereotipi, contiene spezzoni di verità ma costruisce falsità. Ma ovviamente non credo che tu ti riferissi a questo, quanto invece al fatto che esiste, tra noi e gli eritrei, una storia condivisa. Il problema è che di questa storia non viene fatta memoria. Prima accennavo all’emergere degli studi postcoloniali, ma è chiaro che c’è poco da essere ottimisti: occorrerebbe ben di più che il lavoro pur benemerito di una ristretta branca dell’accademia. Manca per esempio un Museo del colonialismo italiano, che andrebbe tra l’altro pensato problematizzando il concetto stesso di museo. E più in generale la nostra storia coloniale viene spesso liquidata frettolosamente, sia pure con le dovute parole di condanna. Per far nascere una memoria, non dico coesa (il senso del lavoro sulla memoria sta proprio nel portare alla luce contrasti e contraddizioni), ma almeno comune (come lo è uno spazio di confronto e negoziazione), sarebbe necessario un dialogo democratico che è indubbiamente ostacolato dall’autocrazia eritrea ma non è certo facilitato dalla democrazia italiana. Ora, forse, meno che mai.
Racconti a un certo punto di aver colto l’amarezza per il fatto che, dopo il razzismo, da parte degli italiani è venuto l’oblio, il disinteresse, un fatto che mi sconcerta, e che credo abbia impoverito tutti. Parli pure – lo hai già ricordato sopra – della sorte dei meticci, vittime di una doppia svalutazione. Ci sono poi i discendenti degli emigrati italiani, nati o cresciuti in Eritrea: quasi tutti sono stati costretti a tornare durante o dopo la guerra. In loro c’è la nostalgia di quel mondo della loro infanzia, che non trova condivisione in Italia, dove quell’esperienza è cancellata. Come hanno pesato queste vicende nella costruzione del tuo racconto?
Mi è accaduto di incontrare, in modo ora più ora meno approfondito, rappresentanti di tutte queste comunità. Parlo di comunità, ma la casistica si sfarina in tante storie individuali: c’è il sacerdote meticcio che fa la spola tra i due Paesi per trovare finanziamenti per la scuola cattolica che dirige, c’è la fotografa che parte per Asmara nella speranza (vana) di ritrovare la tomba del nonno, c’è l’eritreo che ha fondato nel nostro Paese un’agenzia di viaggi-avventura in Africa (ma forse il suo arrivo in Italia è stato il primo viaggio-avventura), c’è l’italiano che ha sposato una donna eritrea e ora è separato con figli… Ognuno di loro è una sorgente di racconti sull’uno e sull’altro Paese. E ognuno meriterebbe di venire raccontato con calma, con un libro tutto per sé. Qui pesa la natura stessa del memoir di viaggio, che non può e non deve rendere conto in modo esauriente di singole persone o di singoli gruppi, ma accostarli, lasciando anche che emergano versioni alternative della stessa realtà storica. Più che un mosaico (che realizza un disegno prestabilito), è un lavoro di cut-up.
Più volte nel libro evochi il naufragio, quello degli eritrei scappati, quello dei libri raccolti in biblioteca senza catalogazione. Questa immagine suggerisce che il tuo libro sia stato il tentativo di costruire un’arca-archivio di immagini, per salvare dall’oblio. Ma poi scrivi che volevi cogliere quello che non vediamo, che non ci è concesso o ci è impossibile vedere. A un certo punto costruisci un climax emozionante: passi in rassegna tutte le immagini di persone, animali, cose che hai incontrato, come a volerle trattenere, e poi le lasci andare. Mi è venuto in mente il famoso incipit di Annie Ernaux: “tutte le immagini spariranno”. Nella scrittura di viaggio la scomparsa delle immagini appare accelerata dalla brevità e transitorietà delle esperienze. Ma questa scomparsa può anche rimandare al futuro. Come racconti nell’introduzione, il viaggio inizia in occasione di una pace con l’Etiopia che poi si è rivelata fragile. Dopotutto, la storia va avanti. Come hai reagito a questo fatto rileggendo il testo per la pubblicazione?
Mi è sembrato di perdere una seconda volta tutto; ma anche che questo fosse, in effetti, il senso del mio lavoro di scrittura. È molto appropriata la citazione di Ernaux. Esiste un’estetica del memoir che arrischiando un’etichetta definirei modernista: ha l’obiettivo di salvare ciò che altrimenti verrebbe travolto dalla deriva del Tempo. E ce n’è un’altra che riconosce l’inevitabilità della perdita – o per meglio dire la sua datità e necessità, una condizione in cui l’inevitabile e l’utile si amalgamano in questo splendido aggettivo anfibio: “necessario”; e si propone di accompagnare questa perdita, concepisce la scrittura (soprattutto la scrittura del passato) come un accompagnare nell’oblio, un riconoscere nell’esperienza la radice etimologica della morte: ex-per-iri è attraversare fino in fondo, passare al di là. Si racconta sempre qualcosa che è andato perduto, e la scrittura non solo non lo fa tornare ma lo spinge nel non-essere. Ciò che descrivo è tutto quello che non abbiamo visto perché era nascosto, ma anche perché l’ho descritto. Forse lo scrittore è come l’ultimo ebreo di Asmara di cui parlo a un certo punto, che si prende cura di una sinagoga deserta, di fatto non più tale. Raccontare un Paese che sembra cristallizzato nel passato rappresenta in queste senso una sfida; ma come immaginavo mi sono trovato a descrivere costantemente una deriva evidente da mille dettagli – la prepotente presenza dei cinesi, le grandi migrazioni, ma anche lo stesso immobilismo del regime, evidentemente una formazione reattiva. Ero certo che la Storia sarebbe sopraggiunta a cancellare ciò che scrivevo. Lo faceva già mentre scrivevo.