E cco alcune riflessioni su utopia e distopia. Tutte le antiche versioni del Posto Migliore erano semplici visioni compensative che dipingevano un luogo in cui controllare ciò che non si poteva controllare e avere ciò che non si poteva avere qui e ora: un Eden ordinato e pacifico, un paradiso incantato, un castello in aria. Il modo per arrivarci era molto chiaro, ma drastico. Bisognava morire.
Anche il costrutto secolare e intellettuale di Tommaso Moro, Utopia, esprimeva il desiderio di qualcosa che era assente nel qui e ora – il controllo umano razionale sulla vita umana – ma dichiaratamente il suo Posto Migliore non è situato in nessun luogo. Solo nella testa. Un progetto architettonico senza un cantiere. Da quel momento in poi l’utopia non è più stata collocata nella vita dopo la morte, ma semplicemente fuori dalla mappa, oltre i monti, nel futuro, su un altro pianeta, in un altrove vivibile, seppure irraggiungibile.
Dopo Utopia – in modo chiaro o ambiguo, effettivo o potenziale, nel giudizio degli scrittori o in quello dei lettori – ogni utopia è stata allo stesso tempo un posto bello e un posto brutto. Ogni eutopia contiene una distopia, e ogni distopia contiene un’eutopia. Nel simbolo dello yin e dello yang ogni metà contiene in sé una porzione dell’altra, il che implica la loro totale interdipendenza e perpetua intermutevolezza. La figura è statica, ma ciascuna delle due metà contiene il seme della trasformazione. Il simbolo non rappresenta la stasi, bensì un processo.
Potrebbe rivelarsi utile pensare all’utopia nei termini di questo imperituro simbolo cinese, soprattutto se si è disposti a superare il solito presupposto maschilista che vuole lo yang superiore allo yin e considerare invece come caratteristica fondamentale del simbolo l’interdipendenza e intermutevolezza delle sue parti. Lo yang è maschile, luminoso, secco, duro, attivo, penetrante. Lo yin è femminile, scuro, umido, semplice, ricettivo, contenente. Lo yang è controllo, lo yin accettazione. Si tratta di forze potenti e uguali; nessuna delle due può esistere per conto proprio, ed entrambe vivono sempre nel processo di divenire l’altra.
Spesso sia l’utopia che la distopia sono delle enclave di controllo totale circondate da un ambiente selvaggio, la wilderness, come in Erewhon di Samuel Butler, La macchina si ferma di E.M. Forster, e Noi di Yevgeny Zamyatin. I bravi cittadini dell’utopia considerano la wilderness pericolosa, ostile, inabitabile; per i ribelli o gli avventurieri di una distopia, essa rappresenta invece il cambiamento e la libertà. In questo io vedo degli esempi dell’intermutevolezza tra yang e yin: il posto brutto, la wilderness oscura e misteriosa che circonda un posto luminoso e sicuro, che poi diventa bello, il futuro splendente e aperto che circonda una chiusa e cupa prigione… o viceversa.
Negli ultimi cinquant’anni questo modello è stato replicato quasi fino all’esaurimento, infinite variazioni sul tema che si facevano sempre più prevedibili o semplicemente arbitrarie. Ci sono eccezioni di rilievo a tale modello. Una è Il mondo nuovo di Huxley, un’eudistopia in cui la wilderness è stata ridotta a un’enclave completamente dominata da uno stato-mondo controllato dallo yang, al punto da rendere illusoria qualsiasi speranza di libertà o cambiamento essa possa offrire; l’altra è 1984 di Orwell, una distopia pura in cui l’elemento yin è stato completamente estirpato dallo yang, e fa la sua apparizione soltanto nell’obbedienza ricettiva delle masse sorvegliate o sotto forma di illusioni manipolate di wilderness e libertà.
L’utopia yin è forse una contraddizione in termini, dato che tutte le utopie note si basano sul controllo per poter funzionare, e lo yin per definizione non controlla? Eppure è un potere enorme. Quindi come si fa?
Lo yang, il dominatore, cerca sempre di rinnegare la propria dipendenza dallo yin. Huxley e Orwell mostrano in maniera inequivocabile cosa succede quando questa negazione va a buon fine. Tramite il controllo psicologico e politico, queste distopie hanno raggiunto una stasi non-dinamica che non consente il cambiamento. L’equilibrio è inamovibile: una metà ha trionfato, l’altra è stata cancellata. Tutto sarà per sempre yang. Dov’è la distopia yin? Forse nelle storie postapocalittiche e nelle orde di zombie barcollanti della narrativa horror, nelle visioni sempre più popolari di un tracollo sociale, di una totale perdita di controllo, il trionfo del caos e delle vecchie tenebre?
Lo yang considera lo yin solo in senso negativo, come inferiore; e allo yang è sempre spettata l’ultima parola. Ma non esiste l’ultima parola. Al momento sembriamo in grado di scrivere soltanto distopie. Magari per essere in grado di scrivere utopie dovremmo pensare yin. Io ho provato a farlo con Always Coming Home. Ci sono riuscita? L’utopia yin è forse una contraddizione in termini, dato che tutte le utopie note si basano sul controllo per poter funzionare, e lo yin per definizione non controlla? Eppure è un potere enorme. Quindi come si fa?
Posso solo fare un’ipotesi. La mia ipotesi è che la riflessione finalmente avviata sulla necessità di trasformare gli obiettivi umani – smettendo di inseguire la dominazione e la crescita illimitata in favore dell’adattabilità e della sopravvivenza a lungo termine – costituisca un passaggio dallo yang allo yin, e comporti quindi un sentimento di accettazione verso l’impermanenza e l’imperfezione, di pazienza verso l’incertezza e l’imprevisto e di amicizia verso l’acqua, l’oscurità e la terra.
Traduzione di Veronica Raimo.
Estratto da Utopia di Tommaso Moro, con testi di China Miéville e Ursula K. Le Guin (Timeo, 2023).