L o scorso 6 agosto è stato celebrato in Giamaica il sessantesimo anniversario dell’indipendenza, ovviamente a ritmo di reggae. Già nel 1962, del resto, in sincronia con quell’evento si diffondevano nell’isola le musiche da cui il reggae stesso sarebbe derivato, riconducibili in termini simbolici alla figura di Clement Seymour Dodd, alias Sir Coxsone, così soprannominato ai tempi della scuola per via di Alexander Coxon, campione inglese di cricket. Produttore e impresario discografico, aveva deciso di espandere la propria attività in coincidenza con il passaggio storico affrontato dalla nazione caraibica e rilevò pertanto la proprietà di un fabbricato al numero civico 13 di Brentford Road, in precedenza sede di un nightclub chiamato The End, nel cuore di Cross Roads, sulla linea di confine tra il ghetto e i quartieri alti di Kingston. Una volta terminata la ristrutturazione, nell’ottobre 1963 inaugurò là il Jamaican Recording and Publishing Studio, ben presto ribattezzato Studio One: per un decennio almeno fulcro indiscusso della scena musicale giamaicana.
Si trattava della prima sala di registrazione locale gestita da un nero, il quale incanalando successivamente la sua mercanzia nel negozio di dischi Muzik City finì per comporre una filiera che inglobava l’intero ciclo di produzione, distribuzione, promozione, vendita e – attraverso la società affiliata Jamrec Publishing – amministrazione dei diritti d’autore (un vero ginepraio in Giamaica, regolamentato in maniera definitiva solo negli anni Novanta). All’apogeo Studio One arrivò ad avere sotto contratto una cinquantina di addetti, fra musicisti, tecnici, impiegati e factotum: una specie di comune in cui circolavano quotidianamente fino a 200 persone, che suonavano, mangiavano alla mensa curata dalla madre di Coxsone (“la regina delle zuppe”) o stazionavano in cortile a fumare ganja, per andare poi la sera ad ascoltare quanto realizzato di giorno nelle affollate serate del sound system Downbeat, sbirciate in gioventù – con la complicità del padre, amico del boss – da colui che sarebbe diventato Kool Herc, il pioniere dell’hip hop nel Bronx.
Studio One è considerata l’equivalente giamaicano delle statunitensi Motown e Stax, al contempo sala di registrazione, etichetta discografica e marchio rappresentativo di uno stile.
Confuso in mezzo alla varia umanità che bazzicava allora il posto c’era pure il 18enne Robert Nesta Marley, per alcuni mesi residente nel minuscolo appartamento ricavato sul retro dello studio di registrazione, dove intercettò inoltre la futura consorte Rita Anderson, ai tempi cantante nelle Soulettes. Dodd rievocava così il loro primo incontro: “Fu il percussionista Seeco Patterson a portare da noi Bob Marley e i Wailers nel 1962. Rimasi folgorato dalle armonie vocali. All’epoca si facevano chiamare Juveniles, avevano due ragazze nel gruppo e la voce principale era Junior Braithwaite, che però dovette raggiungere i genitori a Chicago, perciò suggerii io Bob come leader. Non avevamo niente di simile in Giamaica: roba alla Frankie Lymon”.
Il singolo con cui il trio – completato da Bunny Livingston e Peter Tosh – esordì per Studio One, Simmer Down, uscì alla fine del 1963 e raggiunse la vetta dell’hit parade nazionale a febbraio dell’anno seguente: presagio del successo al quale era destinata l’impresa avviata da Coxsone, per convenzione considerata dagli esegeti l’equivalente giamaicano delle statunitensi Motown e Stax avendone caratteristiche analoghe, al contempo sala di registrazione, etichetta discografica e marchio rappresentativo di uno stile. A testimoniarne il valore è il lascito perpetuato sino ai giorni nostri dall’indipendente londinese Soul Jazz, che dal 2001 in avanti si è occupata di riorganizzare e ristampare l’imponente repertorio accumulato nell’archivio dell’“università del reggae”, per usare le parole di Chris Blackwell, fondatore della Island Records e massimo divulgatore della musica giamaicana su scala planetaria. Merito anzitutto del titolare, evidentemente: “Un produttore dalle superbe qualità organizzative”, scrisse il “New York Times” nel “coccodrillo” pubblicato dopo la sua scomparsa, definendolo altresì “l’inventore dell’industria musicale in Giamaica”.
Nato il 26 gennaio 1932 a Kingston, nell’adolescenza Dodd aveva cominciato a intrattenere gli amici suonando i dischi jazz e rhythm’n’blues che il padre – caposquadra ai docks del porto – otteneva dai marinai americani barattandoli con gli alcolici smerciati dalla moglie nel negozietto di famiglia, Nanny’s Corner. Trasferitosi 19enne in Florida per lavorare da bracciante agricolo nelle piantagioni di canna da zucchero, arrivò alla fonte di quei suoni e iniziò a procurarsi personalmente i 78 giri che li contenevano, cosicché – ritornato in patria – decise di mettersi in affari, aprendo un suo spaccio di bevande (in prevalenza rum e birre chilometro zero tipo Red Stripe) dotato di un rudimentale sound system. Poiché il circuito radiofonico era controllato dalla borghesia bianca dei colonialisti britannici, i neri usavano canali alternativi per diffondere la loro musica: la pratica della discoteca ambulante detta appunto sound system si stava diffondendo a macchia d’olio nel sottobosco della capitale.
All’alba degli anni Cinquanta ne era stato precursore il mezzosangue cinese Tom Wong, che impiegando le apparecchiature assemblate dal fonico Hedley Jones e dispensando – con la denominazione The Great Sebastian – il medesimo rhythm’n’blues la cui eco raggiungeva l’isola sulle onde medie delle emittenti che trasmettevano da Miami (WINZ) o New Orleans (WNOE) aveva reso evidenti i pregi – maneggevolezza, mobilità e costi contenuti – di quella forma d’intrattenimento sociale. Il giovane Dodd entrò nell’orbita del sound system che in città aveva spodestato quello di Wong: il Trojan di Arthur “Duke” Reid, ex poliziotto con un debole per le armi da fuoco, spesso ostentate in pubblico. Coxsone la raccontava così: “Duke era un amico di famiglia, andavo alle sue serate e a volte suonavo qualche disco dei miei. La nostra era una rivalità schietta: io lo rispettavo perché era più grande di me, ma musicalmente ne sapevo più di lui, che aveva bisogno di essere imbeccato da qualcuno per capire se un pezzo poteva funzionare oppure no”.
Poiché il circuito radiofonico era controllato dalla borghesia bianca, i neri usavano canali alternativi per diffondere la loro musica: la pratica della discoteca ambulante detta sound system si stava diffondendo nella capitale.
Dodd mise in piedi un sound system tutto suo nel 1954, battezzandolo Downbeat, e ben presto insidiò il predominio del Duca, in particolare dopo aver reclutato Winston Cooper, in arte Count Machuki, che si era fatto le ossa lavorando da selector con Wong e per primo in Giamaica aveva preso a improvvisare cantilenando sui dischi al microfono, come gli era stato suggerito dallo stesso Coxsone, che durante le periodiche trasferte negli Stati Uniti aveva ascoltato le filastrocche scat dei Dj radiofonici. La competizione fra i sound system era accesa, tanto che per dissimulare le fonti si usava cancellare l’etichetta dal vinile, rendendolo anonimo, ma si trattava pure di muscoli e intimidazioni. Lo spiegava anni fa in un’intervista l’eminente produttore Lee “Scratch” Perry, a inizio carriera tuttofare di Studio One: “Duke Reid era una potenza, circondato da tipi grandi e grossi, e se nel tuo giro hai gente tosta allora sei il più forte. Fu questo a spingermi dalla parte di Coxsone”. Terzo incomodo era divenuto frattanto Prince Buster, anch’egli per un breve periodo collaboratore di Dodd, da cui si allontanò allestendo il sound system Voice Of The People. Dei tre, Coxsone fu il più lesto a immaginare il passo successivo: realizzare dischi in proprio. Cominciò a produrne nella seconda metà del decennio utilizzando gli studi della Federal Records di Ken Khouri e quelli di Real Jamaican Radio, dove si prodigava al mixer per artisti quali Bunny & Skully e il pianista Theophilus Beckford, che nel 1956 registrò Easy Snapping, brano destinato a divenire pietra angolare dello ska, nonché singolo di successo quando fu diffuso su larga scala nel 1959.
In origine le tracce venivano stampate in copia unica su acetato, o dub plate, e servivano esclusivamente ad alimentare l’attività del Downbeat. Funzionava così: “Registravamo, incidevo la musica su un dub plate, lo rodavo con il sound system e osservavo la reazione delle persone. Capitava spesso che facessimo una canzone e poi la cambiassimo in base alla risposta del pubblico”. La supremazia del Downbeat era ormai consolidata, a tal punto che nel momento di massimo fulgore arrivò a sostenere cinque/sei show in contemporanea nella stessa serata, avendo ingaggiato altri selector, fra cui il funambolico King Stitt. Negli States, intanto, con l’avvento del rock’n’roll, il rhythm’n’blues stava perdendo colpi e cresceva dunque la necessità di materiale originale: “Il rock’n’roll non era adatto alla Giamaica, perciò intensificammo la produzione di cose nostre”, affermava Coxsone. Man mano che il repertorio s’ingrandiva, l’accento autoctono diventava più marcato: ai canoni del rhythm’n’blues si amalgamava la scansione ritmica del mento, parente stretto della rumba cubana e del calypso di Trinidad.
L’ibrido risultante prese il nome di ska. Le produzioni firmate allora da Dodd, riunite nel 2015 da Soul Jazz nel triplo album antologico Coxsone’s Music, uscirono originariamente con vari marchi discografici creati per ragioni di mimetismo: non voleva sembrare troppo invadente agli occhi dei programmatori radiofonici. Primo in ordine di apparizione – nel 1959 – fu World Disc, che ebbe quale singolo apripista Shufflin’ Jug di Clue J & His Blues Blasters, cui seguirono All Stars, Supreme, Cariboo, Muzik City, Sensational, D. Darling, Port-O-Jam, Rolando & Powie e Wincox. Frattanto dall’artigianato dei dub plates si era passati alla fabbricazione in serie: “Non immaginavo che quel lavoro potesse tramutarsi nell’impresa commerciale di vendere dischi”, ammise retrospettivamente. Fra gli strumentisti da lui intercettati scandagliando la scena jazz locale spiccavano i sassofonisti Roland Alphonso e Lester Sterling, come molti musicisti di Kingston allevati all’Alpha School For Boys: istituto religioso per “ragazzi difficili” gestito da suore e diretto dalla leggendaria Sister Ignatius. Insieme all’altro sassofonista Tommy McCook, al trombonista Don Drummond, al chitarrista Jerome Haynes e alla sezione ritmica composta da Lloyd Brevett (basso) e Lloyd Knibb (batteria), i due avrebbero dato vita al nucleo costitutivo degli Skatalites, il cui long playing Ska Authentic sarebbe uscito con il marchio Studio One nel 1964, quando manager del gruppo era l’avvocato P.J. Patterson, futuro premier dal 1992 al 2006.
In quel periodo a Brentford Road vigevano ritmi da catena di montaggio, come a Detroit in casa Motown: “nine-to-five”, cinque giorni a settimana, con una media quotidiana di una dozzina di riddims. Questi ultimi erano le basi strumentali – fra le più celebri: Drum Song, Full Up, Swing Easy, Psychedelic Rock, Frozen Soul, Rougher Yet, The Answer, Jamaica Underground, Fattie Fattie, Artibella, Train Is Comin e Real Rock, impiegata da Willie Williams per il classico Armagideon Time, ripreso in seguito dai Clash – sulle quali si applicavano in voce interpreti diversi, da Delroy Wilson ai Maytals di Toots Hibbert, cui si aggiunsero via via Ken Boothe, i Gaylads, Bob Andy, Marcia Griffiths, Dawn Penn e gli Heptones. Principale forza motrice sul piano musicale furono inizialmente gli Skatalites, che però cessarono di esistere nell’agosto 1965, dopo l’arresto di Don Drummond per l’omicidio della compagna Anita “Marguerita” Mahfood. A quel punto Dodd riorganizzò la band con la denominazione Soul Brothers, mutata poi in Soul Vendors, affidandone la conduzione a Jackie Mittoo, tastierista entrato appena 16enne nella formazione, i cui unici altri membri rimastigli fedeli erano Alphonso e Sterling: a irrobustire i ranghi arrivò il fuoriclasse della chitarra Ernest Ranglin, mentre il ruolo di bassista venne assegnato a Leroy Sibbles degli Heptones. L’epopea dello ska stava già declinando per far posto alle cadenze più arrotondate del rocksteady: “Il nome uscì fuori da una chiacchiera fra musicisti: cercavamo di ottenere un ritmo contemporaneamente solido e orecchiabile. Il rocksteady ci fece capire che la linea di basso aveva la stessa importanza della melodia vocale”, diceva a proposito Coxsone. Ma il reggae era dietro l’angolo…
All’epilogo degli anni Sessanta l’evoluzione della musica giamaicana conobbe un’accelerazione vertiginosa. Partendo dalla comunità rurale imperniata sul percussionista nyabinghi Count Ossie – il quale nel 1966 accolse all’aeroporto di Kingston il negus d’Etiopia Hailè Selassiè, considerato profeta dagli adepti – aveva moltiplicato la propria capacità di proselitismo il rastafarianesimo, culto preconizzato a inizio Novecento dall’intellettuale panafricanista Marcus Garvey: influenza determinante per gli antesignani del roots reggae, fautori di un approccio “consapevole” al linguaggio musicale antitetico all’arroganza molesta dei rude boys cresciuti a suon di ska. Il cambiamento coinvolse anche Studio One, dove il gruppo residente fu rinominato Sound Dimension, diventando quindi – al principio del decennio seguente – Soul Defenders sotto la direzione di Vincent Morgan, subentrato a Jackie Mittoo, allontanatosi nel 1968 in polemica con Dodd sulla distribuzione dei diritti d’autore (rafforzandone così la nomea da “braccino corto” nei confronti dei collaboratori). Fra gli esponenti della scuola roots approdati in Brentford Road svettano i pesi massimi Alton Ellis, John Holt e Burning Spear. Studio One continuava a funzionare, insomma, benché la situazione stesse mutando, e non in meglio: al capo opposto del movimento roots saliva l’onda d’urto del reggae da dancehall, fomentata da una bellicosa generazione nuova di rude boys, tale da spingere Coxsone a chiudere l’attività del sound system, archiviando definitivamente l’esperienza Downbeat.
Il cambio di scenario divenne evidente: l’impasto fra dancehall reggae sempre più aggressivo, malavita e cocaina alimentò la degenerazione del conflitto sociale.
Gli anni Settanta non nacquero dunque sotto buoni auspici, nonostante una promettente nidiata di artisti da cui affiorarono Dennis Brown, Horace Andy, Freddie McGregor e Johnny Osbourne, talora selezionati da debuttanti durante le audizioni domenicali organizzate da Dodd a Studio One. Tra questi, ad esempio, Sugar Minott, che lo convinse a riutilizzare vecchie basi per edificarvi sopra pezzi nuovi: un’abitudine resa popolare dal successo dei deejays U-Roy e Big Youth. Da ciò derivò una serie di raccolte di versions curate da Coxsone con lo pseudonimo Dub Specialist, benché nel genere i maestri fossero altri: King Tubby, Lee Perry in modalità Black Ark e Joe Gibbs. Il cambio di scenario divenne evidente a fine decennio: l’impasto fra dancehall reggae sempre più aggressivo (“La musica del Fondo Monetario Internazionale”, nel giudizio sprezzante di Flo O’Connor del Jamaica Council Of Human Rights), malavita e cocaina alimentò la degenerazione del conflitto sociale.
Kingston era ormai zona di guerra: si contarono 800 morti nel corso della campagna elettorale del 1980, sfociata in una svolta reazionaria con l’affermazione del Jamaican Labour Party di Edward Seaga (ex impresario discografico) a spese del People National Party di Michael Manley (sostenuto in passato da Bob Marley, finito per questa ragione nel mirino di chi aveva tentato di eliminarlo quattro anni e un’elezione prima, come racconta con prosa gergale e sincopata Marlon James in Breve storia di sette omicidi, romanzo polifonico insignito nel 2015 del Booker Prize, la cui sezione iniziale ruota appunto intorno al personaggio del Cantante – mai chiamato per nome – e all’attentato al quale sfuggì il 3 dicembre 1976). Pure Studio One subì allora un assalto e fu la goccia che fece traboccare il vaso: “A causa della politica, le persone sono diventate malvagie. Ai vecchi tempi l’eco dei crimini e degli episodi di violenza durava anni prima che ne capitassero altri, mentre adesso ogni settimana è peggiore della precedente”, dichiarò Dodd dopo aver liquidato l’azienda ed essersi trasferito a Brooklyn, aprendo là Coxsone’s Music City, sala di registrazione e negozio di dischi. La prematura scomparsa di Marley, l’11 maggio 1981, aveva sancito il tramonto di un’epoca e gli assassinii di Peter Tosh (11 settembre 1987) e King Tubby (6 febbraio 1989) resero irrimediabilmente buia quella decade. Sir Coxsone si sarebbe riaffacciato in patria solo nel 1998, alla morte della madre, riaprendo la base di Brentford Road, strada destinata a essere ribattezzata in suo onore Studio One Boulevard il 30 aprile 2004. Quattro giorni più tardi, nell’ufficio al numero 13, un infarto lo avrebbe ucciso all’età di 72 anni.