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ualcosa di strano sta accadendo alla nostra terra”. Nel 1999 l’antropologo Igor Krupnik aveva raggiunto le remote terre dell’Alaska per studiare la storia e le abitudini dei suoi abitanti, quando un indigeno della comunità Inuit lo sorprese con queste parole. “Non vedi che abbiamo qualcosa di più importante di cui occuparci, qualcosa di più urgente delle storie dei nostri antenati?”. Krupnik non era solo; già allora una folta schiera di studiosi si metteva ogni anno in viaggio alla volta dell’Artico. D’altra parte le terre ghiacciate sono da sempre meta di scienziati, politici e navigatori. Oggi molti di loro arrivano per studiare quello che la comunità Inuit aveva già all’epoca intuito: qualcosa di strano stava accadendo alla loro terra. Erano i primi effetti del clima che cambiava troppo in fretta.
La temperatura media globale, innalzandosi, mette a repentaglio la vita del ghiaccio che nel Grande Nord copre ogni cosa, d’inverno, talvolta rigido e silenzioso, talvolta frantumato dalla potenza e dal chiasso delle onde. Le due più grandi calotte glaciali al mondo, quella groenlandese e quella antartica, si stanno sciogliendo, smarrendosi nell’oceano. Ma l’Artico non è una terra solitaria come l’Antartide. Qui abitano milioni di persone; i popoli nativi da secoli esplorano ogni angolo dell’oceano e della banchisa, in un clima che, da ben prima della Rivoluzione industriale e del riscaldamento globale, ha attraversato mutamenti ciclici e trasformazioni, ma mai cambiamenti così violenti. Inuit, Yupik, Jakuti, Nenets, Aleuti, Sami, Komi: le popolazioni indigene dell’Artico sono numerose e diverse fra loro. Tutte, però, nel corso del Novecento hanno visto le proprie abitudini sconvolte dall’industrializzazione e dall’arrivo degli abitanti “del Sud”.
Quando i primi effetti della crisi climatica hanno fatto capolino fra le nevi dell’Artico, già nei primi anni Novanta, i cacciatori Inuit se ne sono subito accorti.
I popoli artici conoscono queste lande ghiacciate come nessun altro. Quando i primi effetti della crisi climatica hanno fatto capolino fra le nevi dell’Artico, già nei primi anni Novanta, i cacciatori Inuit se ne sono subito accorti. Poi il lento dissesto nel Nord più estremo ha iniziato a manifestarsi anche nel resto del pianeta, con ondate di calore, tsunami e alluvioni. L’Artico è il sismografo che ci dice che il clima sta cambiando troppo in fretta; il riscaldamento qui è arrivato più veloce, più potente, e ogni pezzo di ghiaccio che si scioglie contribuisce a una catena di eventi che porta alla scomparsa di altro ghiaccio. Ma se è su queste terre gelate che le popolazioni indigene conducono le proprie attività di sussistenza, la caccia, la pesca, la costruzione di edifici, è su queste terre gelate che hanno costruito culture secolari. E oggi gli Inuit chiedono che il sapere indigeno sia considerato accanto alla conoscenza scientifica, nella speranza di poter incidere sul destino del proprio ambiente e del pianeta.
Sta accadendo ed è già accaduto
Durante l’inverno polare, l’acqua oceanica inizia a cristallizzarsi in superficie. Dapprima si formano piccoli dischetti di acqua congelata, che crescono, si ramificano e poi si spezzano, formando un intruglio la cui densità continua ad aumentare, fino a formare un vero e proprio strato di ghiaccio. L’aumento globale delle temperature, però, ha innescato una tendenza a lungo termine che presto porterà la banchisa a ritirarsi del tutto. Non è ancora chiaro quando l’Artico vedrà la sua prima “estate senza ghiaccio” – termine che gli scienziati usano per indicare quella che sarà la prima stagione estiva con una copertura glaciale minore di un milione di chilometri quadrati. Molti ritengono che possa avvenire intorno al 2032, anche se tutto dipende da quanto aumenteranno le temperature nei prossimi anni. Ad ogni modo, quando la copertura di ghiaccio sarà del tutto scomparsa durante una data estate, l’inverno seguente il ghiaccio sarà tutto ghiaccio nuovo, del primo anno, che si scioglierà interamente l’estate successiva.
I cambiamenti climatici sono rimasti per molto tempo confinati nei discorsi di scienziati e ambientalisti prima di diventare un argomento di dominio pubblico. Come mi racconta lo stesso Krupnik, alla fine degli anni Novanta, “pareva quasi che la scienza non avesse ancora stabilito se il riscaldamento globale fosse qualcosa di cui preoccuparsi”. Se fosse cioè una tendenza a lungo termine, o una semplice anomalia che sarebbe scomparsa così com’era venuta. “Poi, nel 2000, andai a una riunione sui cambiamenti climatici e mi resi conto che improvvisamente tutto era diventato molto netto. Tutti concordavano che stava succedendo qualcosa di strano”. A quel punto le voci dei popoli indigeni si erano levate da ormai un decennio. E per troppo non erano state ascoltate. “Finché sono in pochi a parlare di un problema, nessuno ci fa caso. Gli abitanti dell’Artico avevano tentato di raccontare cosa stava succedendo, ma nessuno prestava attenzione. Poi, le voci iniziarono ad arrivare da ogni angolo dell’Artico. E allora furono ascoltate”.
Già all’inizio degli anni Novanta Krupnik e altri antropologi, come la collega Shari Fox, iniziarono a raccogliere testimonianze sul clima artico che cambia; insieme misero poi insieme il volume The earth is faster now, con le testimonianze di altri studiosi di antropologia. Chi vive circondato dal ghiaccio e dall’oceano sa bene che questi elementi sono indicatori molto sensibili dei processi che avvengono nell’aria e nel mare; per gli abitanti del Grande Nord la terra congelata è teatro di viaggi, spostamenti e, soprattutto, di battute di caccia.
Nella tradizione Inuit, la caccia alle foche avviene sul mare congelato; in primavera, gli uomini si dispongono intorno ai buchi o in zone di ghiaccio affacciate sul mare aperto, per catturare gli esemplari che risalgono in superficie per respirare. Con le pelli degli animali catturati gli Inuit costruiscono abitazioni simili a capanne; con le ossa fabbricano slitte, mentre le pellicce sono perfette per coprirsi nei mesi più freddi. Il mondo naturale è oggetto di osservazione e di venerazione religiosa: ogni cosa ha un’anima, un respiro – in Inuktitut: anirniq. Sedna, lo spirito del mare, abita il fondale dell’oceano insieme alle foche e agli altri grandi mammiferi, mentre nel cielo si inseguono la dea del sole Malina e suo fratello Anningan, la luna.
La copertura glaciale dagli anni Ottanta ad oggi non ha mai cessato di rimpicciolirsi. Il ghiaccio è sempre più sottile, la stagione estiva sempre più lunga. Già una ventina di anni fa, gli abitanti della regione canadese del Nunavut raccontavano di incontrare grandi difficoltà a costruire i tradizionali rifugi, gli igloo. Prendevano in mano la neve e la percepivano diversa. “Sembra quasi ghiaccio”, raccontava a Krupnik, nel 2001, un abitante di Baker Lake, un importante insediamento dell’Artico canadese. “Il vento soffia più forte e compatta la neve con violenza, non si può più utilizzarla per costruire le case”. Bisognava già trovare nuove abitudini. Accantonare la tradizione. Un compaesano riportava come anche i laghi e i fiumi stessero cambiando. Le loro acque erano sempre meno profonde, in alcuni punti perfino asciutte. Così, i pesci si trovavano costretti a migrare in cerca di spazio vitale, e i caribù cessarono di aspettare lì le loro prede. I fiumi non erano più abbastanza profondi per le imbarcazioni che gli Inuit usano abitualmente per andare a caccia. Poco lontano, gli abitanti di Iqaluit, Igloolik e Clyde River notavano che il sole sembrava più forte; al termine della giornata si trovavano addosso scottature ed eritemi. Descrivevano il sole come “pungente” o “affilato”.
Nel 2007, dopo un anno di caldo anomalo, il fiume Alazeya, nella Russia nordorientale, straripò. Lo scioglimento dei ghiacci immette una gran quantità di acqua nei laghi e nei fiumi; il permafrost, sgelando, contribuisce all’erosione degli argini, e così facendo aumenta la probabilità di un’alluvione. Le osservazioni delle popolazioni indigene – dagli appunti dei cacciatori e dei pescatori, ai racconti orali tramandati dalla gente – lanciavano lo stesso messaggio che sarebbe arrivato dalle analisi satellitari: quello del 2007 era un evento senza precedenti. Krupnik in quegli anni raccolse alcune testimonianze dirette: “Il mutamento è visibile. La terra e l’ambiente naturale sono diversi da com’erano nel passato” gli disse qualcuno. “Non riusciamo più a prevedere il clima con i metodi tradizionali” disse qualcun altro. “Il clima è strano. Il ghiaccio è strano. Il vento è strano. Le osservazioni degli indigeni puntano tutte all’instabilità, alla volatilità del clima”, si segnò Krupnik.
La copertura glaciale dagli anni Ottanta ad oggi non ha mai cessato di rimpicciolirsi. Il ghiaccio è sempre più sottile, la stagione estiva sempre più lunga.
Un dissesto dopo l’altro, veniamo ai nostri giorni. Nel settembre 2022 una tempesta si è schiantata sulle coste dell’Alaska, causando alluvioni, allagamenti e l’arresto della corrente elettrica. A causare la bufera è stato un potente tifone soprannominato “Merbok”, che si era originato nel Pacifico, a est del Giappone, e si è poi spostato verso il Mare di Bering, la striscia d’acqua che separa l’Alaska dalla vicina Russia. Secondo alcune ipotesi, il tifone si è formato anche grazie al riscaldamento dell’oceano. A settembre, ormai, lo stretto di Bering è del tutto privo di ghiaccio, e il mare nudo non offre alcuna protezione dalle onde. Il tifone ha investito le coste con violenza, rendendo molte case inabitabili e privando le comunità della corrente elettrica. Ora, rischiano di non riuscire a refrigerare il cibo per l’inverno. Anche dall’altro lato dell’oceano, nell’Artico scandinavo, gli animali paiono impazziti. È diventato molto difficile prevedere il comportamento di renne e caribù. Nel frattempo, il ghiaccio continua a sciogliersi e l’Artico diventa sempre più verde; gli arbusti crescono e diventano alti al punto da sbucare dalla superficie della neve. Anche d’inverno.
Elegia per l’Artico
Mentre l’intero globo terracqueo si scalda, infiammato dalle emissioni di gas serra, l’Artico diviene più caldo molto più velocemente del resto del pianeta; secondo alcune stime si scalda, e scalderà, due, tre, quattro volte più in fretta delle altre regioni del globo. Questo fenomeno si chiama amplificazione artica ed è dovuto al fatto che il riscaldamento dell’Artico e lo scioglimento dei suoi ghiacci innescano a loro volta una cascata di eventi che contribuiscono a un ulteriore riscaldamento. Come se l’aumento delle temperature nutrisse sé stesso.
Uno dei primi bersagli del riscaldamento climatico sono così le due calotte glaciali, quella groenlandese e quella antartica. Sono fatte di ghiaccio antichissimo e il loro spessore le rende simili a montagne: quella groenlandese ha un’altezza media di duemila metri. Nel corso del tempo si è accumulato sempre più ghiaccio, il cui peso comprime gli strati inferiori. Quando queste montagne congelate si sciolgono, perdono altezza. La loro superficie viene a trovarsi ad altitudini sempre meno elevate, dove fa più caldo e, così, il ghiaccio tende a sciogliersi più in fretta. “È come quando dalla cima di un monte scendi verso valle, e percepisci che l’aria intorno a te diventa più calda”, mi racconta la climatologa Ricarda Winkelmann.
L’acqua forma rivoli e cascate, che si infilano nelle crepe del ghiaccio fino a raggiungere la base della calotta. Da qui, arrivano fino al mare. Il ghiaccio che scivola dentro all’oceano non è salato. È ghiaccio terrestre; ha una densità e una conformazione diversa da quella della banchisa, che si forma quando la superficie dell’oceano salato si raffredda fino a congelare. L’acqua che dalla calotta raggiunge il mare ha anche un altro effetto. Il ghiaccio sciolto penetra nel ghiacciaio e scende fino alla superficie del mare; qui inizia ad attirare l’acqua profonda dell’oceano, calda e salata. Questa lentamente risale e inizia a consumare il ghiacciaio. Lo fa a pezzi, piano piano, formando iceberg che sciogliendosi contribuiranno ad alzare il livello del mare. Josh Willis, scienziato della NASA, è da poco rientrato da una missione in Groenlandia. Il progetto, denominato “OMG – Oceans Melting Greenland”, ha raccolto dati sulle temperature dell’acqua marina e sullo stato dei ghiacciai groenlandesi, nel tentativo di scoprire quanto è importante l’interazione fra oceano e ghiaccio per l’innalzamento del livello del mare. “Il mio interesse è capire quanto velocemente si stanno alzando gli oceani”, mi racconta Willis. “Quando sono arrivato in Groenlandia per la prima volta sono rimasto scioccato da quanto il panorama fosse dominato dal ghiaccio. È incredibile pensare che questa enorme calotta si stia sciogliendo a causa della nostra interferenza col clima”.
Il gruppo di lavoro capeggiato da Willis si è reso conto che ciascun ghiacciaio reagisce al riscaldarsi dell’oceano in maniera diversa. La massa più reattiva è quella del ghiacciaio Jakobshavn (in danese, o Ilulissat in lingua indigena); le sue dimensioni e la velocità a cui si muove dipendono molto dall’oceano. Willis e colleghi hanno persino notato che, al raffreddarsi dell’acqua marina, il ghiacciaio può ritornare a crescere. Il problema, però, è che le temperature si stanno alzando, e potrebbe mancare poco alla prima estate senza ghiacci nell’Artico.
Una cultura a rischio di estinzione
“Il ghiaccio in Groenlandia è parte di ogni cosa”, mi racconta ancora Willis. “Anche nei posti dove d’estate si usano le barche per spostarsi, d’inverno ci si converte alle motoslitte, perché tutto finisce per congelarsi”. Nell’Artico, l’acqua e il ghiaccio hanno plasmato non solo la vita geologica, ma anche la vita delle persone.
“Almeno per adesso il riscaldamento non è solo un male”, scriveva scriveva Jose A. Kusugak, un politico e attivista Inuk, nella prefazione di The earth is faster now. Era il 2002. “Molti Inuit pescano mettendo le reti sotto il ghiaccio, dunque sono felici che il suo spessore non sia quello di un tempo. I pesci sono grassi e abbondanti. Ma la vita che conoscevamo e conosciamo sta cambiando in fretta”. Kusugak raccontava che il ghiaccio permanente, il sirmik, e le macchie di neve permanente, aniuvat, erano sempre meno. “Temo che le persone possano perdere la vita” aggiungeva. “Dopo che si scioglie il ghiaccio lacustre, e la neve scompare a primavera, le persone viaggiano ancora sulla banchisa, fino a luglio. Il ghiaccio sarà ancora sicuro?”.
Quell’antico ghiaccio che già allora stava scomparendo è una parte fondamentale della cultura indigena. Krupnik me lo racconta così: “Se parli del ghiaccio con una persona del luogo, ti sa dire i nomi di tutte le sue parti, ti spiega come si forma. Ti racconta storie di viaggi sul ghiaccio, ti indica i punti di riferimento che vi si trovano”. Se togliessimo le persone, rimarrebbe solo una terra gelida, senza alcun significato umano. È la presenza delle persone, con la loro conoscenza e la loro memoria, che disegna e immagina il paesaggio dell’Artico. Ma i cacciatori più anziani, spaesati davanti al clima che cambia, spesso non sanno come comportarsi. L’ambiente naturale muta così in fretta che la cultura fa fatica a stare al passo. Anche la formazione dei più giovani, che un tempo imparavano a orientarsi fra i ghiacci e costruire rifugi utilizzando la neve, annega nell’incertezza, e sulle tavole degli Inuit la tradizionale carne di caribù lascia il posto a pietanze confezionate importate da Sud, i cui costi, tra l’altro, sono spesso proibitivi. Fra i Sami, l’allevamento delle renne è sull’orlo del collasso. “Molte famiglie che hanno ereditato questo stile di vita dai loro antenati potrebbero essere le ultime a praticare l’allevamento, perché non hanno abbastanza terreno per continuare. Ed è un bel peso sapere di essere gli ultimi della catena”, mi racconta Gunn-Britt Retter, capo dell’Arctic and Environmental Unit del Consiglio Sami.
I cacciatori più anziani, spaesati davanti al clima che cambia, spesso non sanno come comportarsi. L’ambiente naturale muta così in fretta che la cultura fa fatica a stare al passo.
Le culture indigene dell’Artico, però, non si stanno sgretolando solo a causa del cambiamento climatico. Tutto è iniziato ancora prima, con l’arrivo degli abitanti del “Sud”; la colonizzazione ha portato con sé tecnologie e innovazioni preziose, ma ha anche proiettato il Grande Nord dentro una rete di connessioni globali da cui è impossibile sfuggire. La cultura indigena ne ha sofferto molto; lo stesso vale anche per la salute psicofisica delle stesse comunità, che hanno visto salire vertiginosamente il tasso di suicidi e l’abuso di alcol. Inoltre, le nuove generazioni crescono spesso distanti dalla cultura tradizionale. In Canada, negli anni Sessanta e Settanta il governo decise di incentivare l’integrazione dei giovani Inuit facendoli trasferire nel continente per studiare. “Quasi da un giorno all’altro passammo dalle slitte coi cani al rock’n’roll e alle minigonne”, scrive Siila Watt-Cloutier, nativa della regione del Nunavik ed ex presidentessa dell’organizzazione non governativa Inuit Circumpolar Council (ICC) nella sua autobiografia The right to be cold. Gli studi la tennero lontana dal suo Artico per circa un decennio.
Il problema dell’educazione è molto sentito anche dai Sami. “Crescendo, negli anni Settanta e Ottanta, la tendenza era quella di invitare i giovani a ottenere un’istruzione superiore e di andarsene, perché non c’era futuro a Nord. Le persone non vedevano un futuro nella loro cultura e si sentivano inferiori”, mi racconta ancora Gunn-Britt Retter. “Ma non è giusto che gli studenti debbano scegliere fra l’essere parte della cultura Sami e l’andare all’università. Studiare in Finlandia, Norvegia o Svezia non dovrebbe costringere i giovani Sami ad abbandonare la loro cultura, ma favorire la loro conoscenza e considerarla un arricchimento”.
Due modi di conoscere
Oggi fra i ghiacci dell’Artico si annidano anche una moltitudine di interessi politici ed economici dagli equilibri delicati e non sempre immediatamente decodificabili. A giocare un ruolo fondamentale in questo processo è proprio il cambiamento climatico. Il riscaldamento dell’aria e delle acque e lo scioglimento della banchisa hanno reso la regione più accessibile e aperto nuove rotte transoceaniche; con la scomparsa del ghiaccio in alcune zone, è diventato anche più semplice attingere ad alcune risorse preziose, come gas, idrocarburi, minerali e terre rare. Per la commercializzazione di questi beni, la rotta più utilizzata è il passaggio a Nordest, che per il novanta percento prevede il passaggio nelle acque territoriali russe. “Però bisogna ricordare che, anche se i cambiamenti climatici aprono nuove rotte, è ancora tutto complesso e costoso”, mi spiega Marco Volpe, ricercatore all’Arctic Centre. “A volte sono le stesse condizioni climatiche a non consentire di avviare certi progetti. Ora, con la marginalizzazione della Russia, tanti progetti sono cancellati o fermi”. È fermo anche il Consiglio Artico, il forum internazionale per discutere dei problemi della regione. “Con questa situazione le popolazioni indigene della Russia, il Raipon, vivranno una situazione difficile, e in generale le popolazioni indigene stanno perdendo l’occasione di presentare alcuni problemi”.
Gli Stati che vogliono affacciarsi alla regione artica generalmente partecipano anche a molte iniziative di ricerca scientifica, fondamentali per lo sviluppo di alleanze e rapporti internazionali; ma, per tempo immemore, i popoli indigeni dell’Artico sono stati considerati soggetti o spettatori della ricerca. “Alcuni scienziati hanno rifiutato le osservazioni degli Inuit in quanto aneddotiche e poco affidabili”, racconta Siila Watt Cloutier. La scienza talvolta è percepita come qualcosa che le popolazioni indigene devono subire: “Ci vedevano guidare un aereo e lanciare sonde nell’oceano, è naturale che si chiedessero cosa stavamo facendo”, mi racconta invece Josh Willis. “Ma una volta che scoprivano perché eravamo lì e cosa stavamo cercando di scoprire, allora erano più accoglienti”. In effetti, i rapporti fra nativi e ricercatori stanno migliorando e negli ultimi anni hanno visto la luce progetti collaborativi per la ricerca e il monitoraggio ambientale. Inoltre, organizzazioni indigene e governi locali danno il via a progetti di ricerca propri.
La conoscenza indigena può dare alla ricerca nuovi spunti e direzioni; da generazioni il sapere è trasmesso ai più giovani e, grazie alle nozioni sulle condizioni ambientali, sugli animali e sulle piante, i popoli nativi dell’Artico qui sono riusciti a sopravvivere e prosperare. L’importanza di questa forma di sapere oggi è riconosciuta come un elemento prezioso non solo per la scienza, ma anche per la politica.
Nuovo coinvolgimento
A giugno 2022 l’Inuit Circumpolar Council ha rilasciato i Protocolli per il coinvolgimento equo ed etico; il lavoro di anni, con almeno un’ottantina di antichi documenti, con laboratori e chiamate video, è confluito in otto linee guida. Il progetto ha portato insieme Inuit da tutti gli angoli dell’Artico. Insieme, hanno identificato i valori fondanti di tutta la cultura Inuit, quelli che accomunano l’intero popolo, dai villaggi siberiani a quelli groenlandesi. Messi su carta, i protocolli saranno occasione di tenere viva la propria cultura e di continuare a interagire fra loro sulla base di principi come la condivisione: la prima preda di un giovane cacciatore Inuk è sempre condivisa coi più anziani. Ma, soprattutto, i protocolli vogliono fungere da guida per coloro che vengono dal Sud e che si apprestano a interagire con le popolazioni indigene. A loro, ai ricercatori e ai decisori politici, gli Inuit dell’ICC chiedono informarsi su cosa sia la conoscenza Inuit, e di includerla e rispettarla come farebbero con il sapere scientifico. Un esempio: le navi attraversano le acque artiche ogni giorno di più, e l’International Maritime Organization, che si occupa di regolamentare l’industria marittima, ha stabilito che la conoscenza degli Inuit può servire a proteggere i mammiferi marini, le acque, il ghiaccio.
Scienza e conoscenza indigena devono imparare a convivere armoniosamente; possono esistere insieme e insegnarsi cose a vicenda. “Ma non sono destinate a fondersi”, mi dice Krupnik. “Sono frutto di esperienze diverse, che devono imparare a dialogare”. Ma se la figura dello scienziato incarna la curiosità dell’Ulisse dantesco, la sete di conoscenza, allora la scienza non è una prerogativa del mondo a Sud dell’Artico, e anche un cacciatore Inuit è, in qualche modo, un ricercatore. Come scrisse Siila Watt Cloutier: “In fin dei conti la questione è cosa intendiamo per ‘scienza’. La scienza è un nucleo di conoscenza, un modo di conoscere basato sull’osservazione rigorosa. Secondo questa definizione, i cacciatori che girano in lungo e in largo per i ghiacci e la neve, i cacciatori che incarnano secoli di osservazione, sono scienziati”.
Certo, non si può ignorare il fatto che tra sapere scientifico e conoscenza indigena esista una radicale differenza epistemologica e ontologica. La parola “scienziato” porta con sé l’immaginario di un tipo di conoscenza; la scienza dei canadesi, dei danesi e dei cinesi che studiano l’Artico ha caratteristiche proprie, radicate nella storia. E in questo senso la scienza è cosa del tutto separata dalla conoscenza indigena. Sono modi diversi di interpretare il mondo. “Io non sono un cacciatore indigeno. Vado in ufficio e, anche dopo anni di allenamento accanto ai cacciatori, non ho mai ucciso un tricheco. Le conoscenze che loro accumulano da quando hanno dieci anni, io non le ho. E non dovrebbe nemmeno essere così. Io devo rispettare quello che sanno loro, e viceversa”, riassume Krupnik.
La visione del mondo degli Inuit e di altri popoli indigeni ha una dimensione spirituale che non è compatibile con l’attuale paradigma scientifico. Le connessioni delle persone al loro ambiente sono ampie, trascendono gli elementi fisici della caccia, della pesca e dell’edilizia, per sfumare in un mondo del tutto astratto, fatto di storie, nomi, percezioni. Ma questo universo spirituale gioca un ruolo vitale nel determinare come le persone interagiscono col loro ambiente – e quindi va considerato.
Scienza e conoscenza indigena devono imparare a convivere armoniosamente; possono esistere insieme e insegnarsi cose a vicenda.
Qualche anno fa, Krupnik ha fatto ritorno ai ghiacci artici. Quando è sceso dall’aereo, davanti agli occhi gli si parava la cittadina di Savoonga, completamente cambiata rispetto a com’era solo una ventina di anni prima, alla fine del secolo scorso. Il traffico, una nuova scuola, una sfilza di case moderne e di uffici amministrativi. Savoonga è un luogo affollato e amichevole; le interazioni qui avvengono per la strada e questa atmosfera familiare è una delle poche cose che non sono cambiate. Le quattro stagioni, invece, sono stravolte dal riscaldamento globale. “Dei cacciatori hanno ucciso due trichechi proprio qua davanti al villaggio, e non hanno potuto macellarli sul ghiaccio come fanno di solito, perché il ghiaccio continuava a rompersi. Hanno dovuto trascinarli fino alla costa e macellarli là, che è un po’ strano per noi, nel mezzo dell’inverno”, ha riferito a Krupnik uno dei locali. Oggi i cambiamenti climatici sono diventati parte della vita quotidiana di tutti. La “stranezza” del clima che Krupnik registrò nelle parole degli Inuit negli anni Novanta è diventata la normalità.
Jose Kusugak ha scritto: “Ascoltate e guardate i grandi spazi aperti come se fossero una magnifica sinfonia, come se la terra e il ghiaccio fossero una cosa sola”. Proprio l’esperienza indigena ci insegna che ogni società umana possiede una sfera intangibile di cultura, immaginari e valori, dove il sapere incontra le idee. Qui possiamo trovare un senso e, magari, qualche risposta per combattere la crisi climatica.