I l primo hamburger realizzato attraverso la coltivazione venne presentato al pubblico nel 2013 da Mark Post, ingegnere dell’Università di Maastricht. Nei Paesi Bassi già da tempo era nata un’intera regione dedicata alla ricerca nel settore alimentare, la Food Valley, un ecosistema unico e ben finanziato, con centinaia di soggetti tra università, start up, aziende locali e multinazionali. Nel luglio di quell’anno, dopo un decennio di studi, Post fece cucinare quel primo burger da uno chef, e lo fece assaggiare ad alcuni giornalisti ed esperti di nutrizione.
Quella polpa, che era costata circa 250.000 dollari (considerando i costi degli esperimenti e dell’uso delle strumentazioni), era costituita da cellule muscolari di bovino, ottenute da cellule staminali fatte crescere e differenziare con terreni di coltura simili a quelli utilizzati in tutti i laboratori di biologia, e con l’aiuto delle sollecitazioni meccaniche di cui le cellule muscolari hanno bisogno per svilupparsi al meglio.
Il risultato era stato un burger non ancora perfetto, un po’ stopposo, e ottenuto anche con l’impiego di un componente fino a poco tempo fa in effetti cruciale per la coltivazione delle cellule: il siero fetale bovino, che favorisce la coltura perché ricchissimo di fattori di crescita. Ma che non è ideale, né se si pensa alla carne coltivata come alternativa alle sofferenze animali, né per la sostenibilità economica, essendo una sostanza molto costosa. Nei dieci anni passati da quell’assaggio, la situazione è radicalmente cambiata, da tutti i punti di vista. Si sono fatti enormi passi avanti in laboratorio per escludere la presenza di siero animale, ma i progressi più impressionanti sono stati quelli ottenuti nella composizione delle carni e nel loro aspetto, nella palatabilità, nel sapore e nella duttilità in cucina, elemento cruciale per avere successo una volta raggiunto il grande pubblico. Progressi decisivi, tanto che oggi i maggiori ostacoli alla definitiva commercializzazione della carne coltivata sembrano essere soprattutto di carattere burocratico.
Negli ultimi anni di esperimenti sulle carni coltivate, i progressi più impressionanti sono stati quelli ottenuti nella composizione delle carni e nel loro aspetto, nella palatabilità, nel sapore e nella duttilità in cucina.
“Plausibilmente, entro un decennio milioni di persone preferiranno la consistenza e il gusto della carne che non arriva da un animale, perché sapranno che cosa comprano”, ha scritto il giornalista Derek Thompson sull’Atlantic, qualche mese fa, commentando la decisione della Food and Drug Administration di concedere il primo, cruciale via libera alla carne di pollo coltivata di Upside Foods, una start up californiana fondata da Uma Valeti e Nicholas Genovese nel 2014 (una delle prime in assoluto). Non siamo davanti all’approvazione definitiva, ma l’agenzia ha deciso di trattare la carne coltivata sotto l’etichetta di “sostanza considerata sicura salvo prove del contrario”, o GRAS (generally recognized as safe), una categoria che evita ai produttori di dover eseguire diversi test specifici, e che accorcia dunque i tempi, pur comportando analisi su tutti i passaggi della produzione. In questo caso: come vengono prelevate le cellule dai polli, in che tipo di ambiente – bioreattori di acciaio – e con quali soluzioni vengono fatte crescere, come vengono raccolte e conservate e così via.
Per il via libera definitivo occorrerà un’autorizzazione ulteriore, proveniente dal Dipartimento dell’agricoltura statunitense, che deve ispezionare gli impianti di produzione. Ma il traguardo sembra ormai molto vicino. Dopo Singapore, che ha autorizzato lo stesso tipo di carne già nel 2020, e dopo Israele, che ne vende un tipo in un ristorante pilota, gli Stati Uniti potrebbero quindi essere il prossimo Paese ad autorizzare la vendita dei prodotti dell’agricoltura cellulare. E questo, naturalmente, potrebbe cambiare tutto, in tutto il mondo, per i numerosi paesi che stanno sostenendo attivamente la ricerca e lo sviluppo di queste fonti di proteine e poi, a cascata, per tutti gli altri.
In Europa, per il momento, l’Agenzia per la sicurezza alimentare (EFSA), con sede a Parma, non ha emesso alcun pronunciamento. Il motivo è burocratico (l’agenzia non ha ancora ricevuto alcuna richiesta di autorizzazione da parte di aziende e start up perché l’agenzia stessa non ha ancora specificato che cosa bisogna inserire, esattamente, nei dossier di approvazione). È uno stallo dal quale tutti sperano che si esca al più presto, perché la comunità scientifica sembra avere pochi dubbi sul fatto che, nei prossimi anni, una parte del fabbisogno proteico indispensabile per sfamare otto miliardi di esseri umani, e gli animali da compagnia e da allevamento, dovrà necessariamente arrivare dall’agricoltura cellulare, in tutte le sue declinazioni.
Per capire appieno di che cosa si sta parlando – al di là della sgangherata propaganda scatenata in Italia da alcuni politici, dalle associazioni di produttori di carni e di coltivatori –, è opportuno ricordare, a grandi linee, cosa è successo in questi anni, che cosa sia la carne coltivata, perché venga chiamata proprio coltivata (e non sintetica, o artificiale o simili) e perché si ritenga che sia una soluzione ineludibile.
Da uno a molti
Torniamo a quel primo hamburger del 2013. Sin dai primi mesi dopo quell’estate, le start up nate nella Silicon Valley, tra le quali Upside Foods (all’inizio sotto il nome di Memphis Meat), si sono poste il problema dei mezzi di coltura: dovevano necessariamente essere del tutto vegetali, o comunque escludere l’impiego di siero prelevato da animali. E così è stato: oggi quasi tutte le decine di aziende e start up nate nel frattempo, pur non esplicitando sempre la composizione dei terreni con i quali riescono a far crescere le cellule muscolari, escludono la presenza di siero animale: in alcuni casi hanno trovato molecole vegetali, in altri hanno fatto produrre ai lieviti le proteine di cui hanno bisogno per la coltivazione dei tessuti.
La stopposità che caratterizzava il primo burger è stata presto superata con l’aggiunta di grassi vegetali nel momento della coltura o in quello della lavorazione, prestando grande attenzione alla loro qualità per evitare di ottenere una carne poco sana e poco indicata per tutti coloro che devono limitare i trigliceridi, il colesterolo e stare attenti alla pressione. Si è cioè evitato di optare per i grassi più economici, come l’olio di palma o di cocco, solitamente utilizzati nei sostituti vegetali della carne. In questo modo, oltretutto, le carni coltivate possono vantare un’elevatissima sostenibilità, perché non ricorrono a prodotti responsabili di deforestazione e perdita di biodiversità.
L’aggiunta di piccole percentuali di grasso è stata però solo la prima tappa verso carni al palato sempre meno distinguibili da quelle tradizionali. Se, inizialmente, il massimo che si era ottenuto era appunto una carne simil-macinata, buona per realizzare polpette e burger, dopo pochi anni l’israeliana Aleph Farms ha realizzato il primo filetto di pollo; SuperMeat è stata la prima a ricevere l’autorizzazione a vendere carne nel suo locale, The Chicken; altre start up statunitensi e giapponesi hanno iniziato a lavorare sulla carne di pesce e di mollusco, o puntato su prodotti ancora diversi. In Francia, per esempio, la Gourmey vuole conquistare il mercato globale con il suo foie gras coltivato, e per produrlo ha appena ultimato la costruzione di un grande stabilimento vicino a Parigi.
Nuove sperimentazioni
Realizzare bistecche coltivate e altri prodotti, tuttavia, era e rimane ancora oggi un processo che richiede notevoli quantità di energia, mezzi di coltura e tempi lunghi. Ancora una volta, un soccorso per migliorare la produzione arriva dall’ingegneria tissutale, che lavora su tessuti e organi per impieghi medici. Da tempo, infatti, in quel settore, si sperimentano bioscheletri vegetali, o comunque del tutto biodegradabili e innocui per l’organismo umano, che possano però conferire ai tessuti, fin dal primo istante, una struttura tridimensionale. Il bioscheletro è di grande aiuto, nelle ricerche sulla carne coltivata, perché guida nella crescita le cellule a sviluppare naturalmente la loro struttura tridimensionale e la loro distribuzione tipica. Così, se i primi strati di cellule muscolari di Mark Post erano molto essenziali, striscette di pochi millimetri, grazie ai bioscheletri oggi si riescono a ottenere filetti e bistecche dall’apparenza più familiare, come le bistecche di suino realizzate dalla britannica 3D-BioTissues. E i Paesi Bassi hanno lanciato un programma quinquennale esclusivamente dedicato ai bioscheletri per agricoltura cellulare.
La stopposità che caratterizzava il primo burger è stata presto superata con l’aggiunta di grassi vegetali nel momento della coltura o in quello della lavorazione, prestando grande attenzione alla loro qualità.
Inoltre, secondo alcuni esperti del settore, le carni ottenute con l’aiuto di bioscheletri potrebbero presentare altri vantaggi. Il primo, evidente, di tipo organolettico, perché si possono ottenere direttamente dei filetti senza bisogno di ulteriori aggiunte di insaporitori o di lavorazioni. Il secondo, altrettanto chiaro, è il costo per il consumatore, perché una carne che contiene solo una certa percentuale di cellule animali e il resto di bioscheletri vegetali potrebbe essere decisamente più economica, e associata a impatti ambientali ulteriormente compressi. Infine, carni ibride di questo tipo potrebbero andare incontro alle esigenze nutrizionali specifiche, perché potrebbero essere formulate per persone con allergie, intolleranze o limitazioni di diverso tipo, e alle esigenze nutrizionali generali, perché in moltissimi paesi il consumo di carne è troppo elevato e associato ad aumenti significativi del rischio di sviluppare patologie, quali quelle cardio e cerebro-vascolari e tumorali.
Ma c’è di più. L’evoluzione osservata con maggiore interesse è probabilmente quella che mette insieme la carne coltivata con il micelio. Il micelio è la parte dei fughi che normalmente non si vede, perché è sotterranea, ma cresce molto in fretta, con pochissime risorse, ed è costituita da una sorta di polpa che imita alla perfezione proprio la consistenza della carne. È poi ricca, di per sé, di componenti pregiate dal punto di vista nutrizionale, come le fibre e i sali minerali. Una bistecca o un petto di pollo ottenuti facendo crescere le cellule muscolari in un micelio, cioè usando un micelio come bioscheletro, assicurerebbe così un gusto e una consistenza straordinariamente realistici, con un impatto ambientali quasi inarrivabile per altri alimenti di pari intensità nutrizionale.
Impatto ambientale e costi
I progressi degli ultimi anni hanno poi riguardato anche le valutazioni di tipo ambientale, inizialmente basate più che altro su stime fornite dalle aziende, ma oggi certificate da studi e analisi di alcuni dei più importanti gruppi di ricerca del mondo. Nel 2022 ne sono state pubblicate diverse, e aggiornate continuamente sul sito Our World in Data, curato per questa sessione da due tra i ricercatori più impegnati sul fronte, e cioè Joseph Poore, dell’Università di Oxford, e Thomas Nemecek, dell’organizzazione svizzera Agroscope, autori anche di uno studio appena pubblicato su Science.
In generale, la diminuzione degli impatti di acqua, consumo di suolo ed emissioni è compresa tra l’80 e il 98% rispetto a quanto consuma la carne da allevamento di ruminanti (per i polli e i maiali le emissioni sono inferiori), e attorno al 50% per quanto riguarda l’energia elettrica, perché i bioreattori devono essere alimentati dall’elettricità. Ma, come si legge anche in una delle analisi più complete, pubblicata nel 2020 su Frontiers in Sustainable Food Systems, cento grammi di proteine vegetali “emettono” 1,9 kg di CO2e (CO2 equivalente, unità di misura usata per potere confrontare e sommare i contributi di diversi gas serra che agiscono negativamente sul clima). Cento di carne coltivata, 5,5 CO2e. Cento di manzo allevato, 25,6. La differenza tra i vegetali e la carne coltivata è data proprio dall’energia elettrica necessaria per tutti i processi tecnologici che rendono possibile la crescita dei tessuti.
Infine, i costi: per capire quanta strada sia stata fatta dal quel primo burger di Mark Post, si può usare un valore reale: se solo qualche hanno fa i prezzi erano, per forza di cose, inavvicinabili per qualsiasi consumatore, oggi, a Singapore, un tris di nugget di pollo costa attorno ai 25 dollari. E la parità con la carne di allevamento, secondo diverse analisi finanziarie, sarà raggiunta non appena la produzione diventerà su larga scala. In base a numerose indagini e sondaggi effettuati in paesi con culture alimentari anche molto diverse, tra coloro che decideranno di consumare le carni coltivate ci sono le fasce di popolazione più giovani, e quelle con livelli di scolarizzazione più elevati, più sensibili all’impatto ambientale di ciò che acquistano. Ci saranno anche molti di coloro che sono diventati vegetariani per motivi etici, non volendo essere responsabili dell’uccisione di altri animali, ma favorevolmente disposti a consumare proteine animali, e parte di coloro che temono gli effetti degli antibiotici, degli ormoni e dei fitofarmaci inevitabilmente presenti nelle carni di animali allevati.
Per il futuro, uno degli ostacoli più insidiosi sarà l’enorme sforzo comunicativo delle lobby dei produttori di carne, che cercheranno di far passare l’idea che queste carni coltivate siano qualcosa di oscuro e alchemico, e quindi certamente non sano.
A costoro faranno da contraltare gli scettici, su cui farà certamente presa l’enorme sforzo comunicativo delle lobby dei produttori di carne (già molto attive da qualche anno nel tentare di delegittimare i sostituti vegetali della carne). Oltre a cercare di far passare l’idea che queste carni coltivate siano qualcosa di oscuro e alchemico, e quindi certamente non sano, gli allevatori cercheranno (lo fanno già oggi) di puntare la comunicazione sulla salvaguardia dei piccoli allevamenti: come se non fossero, quasi ovunque, fornitori di grandi aziende nazionali e multinazionali, che rispondono alle logiche della globalizzazione e del mercato. E poi ci sono e ci saranno le battaglie di bandiera, come quella sulla denominazione. Ci avevano già provato, in Europa, con la campagna Ceci n’est pas une steak, che mirava a introdurre il divieto di chiamare burger anche i composti vegetali e simili, come già accaduto per il latte vegetale, che oggi va infatti denominato bevanda. Nel caso dei burger vegetali le lobby dei produttori di carne hanno perso, ma sulla denominazione e sulla collocazione nei supermarket (accanto alla altre carni? Separatamente?) si giocheranno nuove battaglie.
Per fortuna, il successo della commercializzazione di queste carni a Singapore e in Israele, e il fatto che diverse aziende stiano facendo di tutto anche qui per ottenere l’autorizzazione a produrre, la dice lunga sull’orientamento dei consumatori, soprattutto dei più giovani, che hanno capito che cosa devono modificare nelle proprie abitudini alimentari anche per il bene del pianeta.