G li storici del pensiero antico si sono esercitati con grande impegno, e continuano a farlo senza tregua, alla ricerca di fatti su Pitagora, rovistando in un mondo in cui il concetto di “fatto” – e dunque la stessa parola – non era ancora stato inventato. Come è ben noto, non esiste nulla di scritto che possa essere attribuito a Pitagora né si ha notizia di resoconti dettagliati prodotti da suoi contemporanei. Curiosamente, però, quanto più ci si allontana dall’epoca in cui è vissuto, tanto più aumentano le testimonianze e i racconti che lo riguardano. La storia della sua vita e del suo pensiero sono stati perciò a lungo il paradiso della letteratura apocrifa e l’immagine di Pitagora che ancora ha chi non studia la storia o è storico di professione è quella costruita sugli artefatti e sulle false attribuzioni (teorema compreso).
Il filosofo di Samo però, come molti altri miti del resto, ha sempre giocato il ruolo dell’icona culturale, quella che può essere continuamente contaminata e reinventata per diventare altro, anche se non si sa bene altro da cosa. Può diventare, ad esempio, il protagonista di un’intervista impossibile, come quella immaginata da Umberto Eco e andata in onda sulla Rai il 22 luglio del 1974 (“Ti prego, uomo ingenuo!”, dice Pitagora a Eco, “Tu stai parlando con Pitagora. Tu sai che la mia anima ha trasmigrato in molti corpi”). Oppure il maestro scomodo, il sapiente straniero che affascina e impaurisce, che Marcello Walter Bruno, che di Eco è stato allievo, evocherà qualche anno più tardi in un testo teatrale che è “un sofferto canto – anzi, un canto tragico – di amore per la conoscenza e di dolore per la furia di chi odia”, come scrive Paolo Jedlowski nella prefazione del volume che lo raccoglie: La Fuga di Pitagora lungo il percorso del sole (Edizioni Erranti, Cosenza, 2021).
Di questo e d’altro ho parlato con chi il testo lo ha ispirato e portato in scena: l’attore, autore e regista Ernesto Orrico e il musicista e compositore Massimo Garritano. Ci incontriamo in uno dei bar del piccolo paese in cui io e Massimo abitiamo. È strano ma non ci eravamo mai parlati prima. Anche Ernesto lo conosco da poco. Scegliamo un tavolino sistemato all’esterno, circondati da un telo di plastica che ci protegge da eventuali intemperie ma non dal freddo. Sopra di noi, fissato alla parete, uno schermo snocciola i numeri di un gioco che non so identificare. La voce che li recita (“settanta, quarantacinque, ventidue, …”) non ci dà grande fastidio, anzi, pare stia lì a ricordarci di cosa e di chi stiamo parlando. Il suono prodotto da due piatti orchestrali, che annuncia periodicamente l’uscita di chissà quale risultato, sembra scandire il tempo delle risposte e sottolinearne l’importanza o l’inutilità.
Com’è nata l’idea de La fuga di Pitagora lungo il percorso del sole?
Ernesto Orrico: Alla figura storico/mitica di Pitagora pensavo da anni cercando una chiave per raccontarlo in maniera inedita attraverso il teatro. Sapevo che era stato oggetto di interesse di Marcello Walter Bruno che, negli anni Ottanta, aveva scritto dei testi per una trasmissione Rai e una drammaturgia per la compagnia Krypton di Firenze diretta da Giancarlo Cauteruccio. Lo interrogavo di continuo, a più riprese tornavo a chiedergli di poterli leggere, ma questi testi non son mai venuti fuori. All’ennesima sollecitazione mi dice: “ti scrivo un testo nuovo!”
Come lo hai conosciuto? Me ne parli come di un amico e la sua recente, improvvisa, scomparsa, assieme a quella pressoché contemporanea di altre due figure importantissime della vita culturale di Cosenza – Franco Dionesalvi, poeta e drammaturgo, e Antonello Antonante, regista e sceneggiatore – ha colpito la città.
EO: Marcello era allievo di Umberto Eco a Bologna, programmista e regista televisivo in Rai, drammaturgo, poeta, saggista, docente di cinema e fotografia al DAMS dell’Università della Calabria e molto altro. È stato il relatore della mia tesi di laurea negli anni Novanta, nel frattempo e dopo, amico e mentore. Era un catalizzatore, poteva anche non piacerti, ma non potevi ignorarlo, ti spingeva a rimetterti in questione, ti metteva in crisi. Non era il docente che impartiva la lezione e poi spariva, la porta del suo ufficio era veramente sempre aperta, per tutti. Nei primi anni 2000 ha scritto per me Hamlet Cuts. Poesie per attori scespiriani (il libro del 2006 delle Edizioni Abramo è ormai introvabile, nda) e il nostro rapporto è proseguito diventando frequentazione familiare. La sua morte non è facile da metabolizzare.
Il testo dello spettacolo ti è arrivato così come lo conosciamo o hai partecipato alla sua costruzione?
EO: Mi inviava i frammenti mentre li scriveva e sostanzialmente approvavo con entusiasmo tutto ciò che arrivava, nel frattempo ne parlavo con Massimo. Nella messa in scena ho deciso di fare una variazione al testo, anzi un’inversione, sul finale. Marcello non era molto d’accordo, ma dopo un serrato confronto assecondò la mia scelta con generosità.
L’avevate quindi già pensato con la presenza di un musicista?
EO: Sì, assolutamente. Il percorso con Massimo era bene avviato, avevamo già portato in scena La mia idea, memoria di Joe Zangara e Talknoise, due performance molto diverse tra loro, sia da un punto di vista teatrale che musicale, diverse anche da La fuga di Pitagora.
Massimo Garritano: Il tentativo di non volermi ripetere, sia da un punto di vista timbrico sia nell’uso degli strumenti, è un po’ la mia inclinazione, perseguita in maniera naturale e senza necessariamente censurare eventuali episodi derivativi. Lo è anche nella scrittura e quando Ernesto mi espose l’idea decidemmo di muoverci nell’ottica del continuum musicale. Pitagora è il primo spettacolo nel quale suono sempre, dall’inizio alla fine. Quindi sono anche attore e spettatore, anche se non intervengo con la parola.
l’universo una coreografia
la nostra vita un insieme di passi
osservati dagli dèi.
Con la musica vengono subito in mente le solite questioni che tendono a far risalire a Pitagora concetti che in realtà Pitagora non ha mai formulato, forse neanche solo ipotizzato, e che invece erano ben noti a tutti i costruttori di strumenti dell’epoca.
MG: Credo che questo sia abbastanza comune, anche le rivoluzioni musicali hanno sempre una sorta di faro, di guida, un’icona a cui far riferimento e attribuire anche più del lecito ma sono il frutto di un humus di persone. Se affronti Pitagora è inevitabile che ti si apra tutto quel mondo, quello delle consonanze (e delle dissonanze), degli intervalli e dei rapporti matematici che li regolano. Io ho provato a giocare con i numeri, con la matematica vera e propria che è all’interno della musica, nel tentativo di scrivere qualcosa che provasse a evocare quegli elementi “primordiali”. Anche per questa ragione ho cercato di evitare delle soluzioni che potessero risultare decodificabili o riconducibili a un certo genere musicale. Ho invece utilizzato degli elementi melodici tipici del mondo greco – le scale modali per intenderci – costruendo delle tessiture che mi hanno permesso di mantenere ampi margini di improvvisazione. Questa è l’unica caratteristica che mi sono portato dietro dagli altri lavori.
Aggiungo una nota per i lettori: alcuni dei brani dello spettacolo, si trovano in Freefolk, l’ultimo lavoro pubblicato da Garritano, e così si trova su Bandcamp gran parte della sua produzione, compresi i suoi sorpendenti “haiku musicali”, improvvisazioni estemporenee di brevissima durata, frutto di una sola take di incisione e privi di rimaneggiamenti postumi. Ma tu, Ernesto, lo segui quando suona? Il suo improvvisare ti distrae?
EO: Lo sento e mi influenza. La memoria del testo è quella, non posso sfuggire, però il discorso emotivo, la tensione fisica, le figure che porto in scena, cambiano. Nello spettacolo incarno diverse figure di allievi: Philtys (la scuola pitagorica era aperta alle donne della comunità), Euphemos e Aigon (l’allievo devoto e quello che a un certo punto gli si scaglia contro), le attraverso col corpo e con la voce; e c’è anche Pitagora, mai nominato nel testo, che ha una sua parlata, una cadenza “straniera”, una timbrica specifica per citare Massimo. L’ambiente sonoro che mi avvolge rende più decodificabili gli “attraversamenti”, il dialogo continuo con la musica aiuta lo scivolare performativo da una figura all’altra e nutre il rapporto osmotico con lo spettatore.
Dunque il vostro è il dialogo che possono avere due musicisti, al di là dei confini che impone la parola, tu ci metti dentro il tuo corpo e le tue emozioni, quella è la tua improvvisazione.
EO: Esattamente. Questo mi interessa molto dal punto di vista della qualità della performance perché la musica, il suono, costringono l’attore a cambiare sempre, nella partitura drammaturgica definita si impone un continuo rinnovamento espressivo.
Musica che comunque, anche quando è scritta, viene suonata in maniera diversa ogni volta…
EO: È il motivo fondamentale che ci porta a teatro e ai concerti: ci interessa quella specifica, singolare, vibrazione che magari poi proviamo a raccontare su carta, proviamo a spiegarla ai nostri amici, ma che si genera nell’hic et nunc, nel qui e ora dell’esserci.
MG: A proposito di ciò che può cambiare, quello che suono non è stato scritto pensando a uno specifico strumento. Ho ragionato in termini di linee musicali sovrapposte, fino a 4-5, tentando di coprire la più ampia gamma possibile di frequenze. Io propongo il tutto con la chitarra e con l’elettronica in tempo reale, ultimamente anche col sintetizzatore ma la partitura si presta a venir riletta da quartetto d’archi o ottoni. Inoltre, nel mio caso l’uso dell’elettronica, soprattutto lavorando al buio, a volte fornisce risposte differenti che bisogna saper assecondare, reagendo all’imprevisto con una buona dose di intraprendenza.
Perché la musica – la musica c’insegna
che nessun suono è straniero
e ogni nota partecipa del Tutto
lungo il percorso del Sole.
Tornando al testo, è evidente il richiamo all’attualità: si parla molto di migrazioni.
EO: Non abbiamo usato Pitagora per raccontare un passato mitologico. Il suo lascito, per quanto apocrifo, ha a che fare con matematica, musica, pacifismo, vegetarianismo, metempsicosi e altri argomenti e discipline, indicazioni e stimoli a indagare le ricadute sul presente. Una delle questioni che ci interessa di più è proprio quella della migrazione, delle anime e dei corpi. Pitagora arriva da emigrato a Kroton, poi a Metaponto, fonda una scuola, si scontra con gli autoctoni, viene perseguitato. C’è un forte richiamo alle migrazioni della nostra contemporaneità, al rapporto che abbiamo con l’altro, chi arriva è sempre portatore di un’alterità che ci mette in crisi. In molti, in troppi, anche oggi, c’è il rifiuto dell’incontro che può cambiarti. E la leggenda narra pure di un Pitagora cultore del minestrone… insomma è lui l’inventore del melting pot. Il testo è pieno di riferimenti filosofici, ma pure di richiami alla cronaca contemporanea. Tra le varie citazioni risalta la frase “io è un altro, io è uno straniero”, omaggio a Rimbaud e al pensiero di Jacques Lacan. Il finale, dove si affronta la questione della trasmigrazione delle anime, dell’avere memoria delle storie e delle esistenze precedenti e quindi del continuare a raccontarle, è un piccolo testamento poetico di Marcello.
E dal punto di vista musicale, invece, a cosa vi siete ispirati?
MG: È inevitabile pensare al minimalismo – ci sono delle parti in cui la reiterazione ritmica di uno stesso elemento con micro-sfasature può far pensare a Steve Reich e ad altri come lui. La rumoristica, l’utilizzo degli oggetti nella chitarra, ricordano, se proprio vogliamo andare a caccia di un riferimento, tutta una letteratura di manipolazione del suono acustico, pensiamo a Henry Cowell, John Cage, Glenn Branca. Ho comunque cercato di evitare il “mio” già sentito ed è una cosa che provo a fare sempre quando scrivo nuove musiche.
E alla fine di ogni vita scrivete
riassumete raccontate trasmettete
tutti i fatti e tutta la saggezza,
unite tutti i punti come fossero stelle
che non vi rispondono finché non le chiamate
per nome – e all’improvviso vi apparirà lo zodiaco
di tutte le vostre vite precedenti.
Voi debuttate il 23 gennaio 2020 all’Accademia Popolare dell’antimafia e dei diritti di Roma, lo stesso giorno in cui a Wuhan inizia il primo lockdown di massa della storia. A febbraio siete a Crotone e Reggio Calabria. Lì si chiude: l’11 marzo si ferma tutto e dovete aspettare fino al 10 dicembre del 2021 per tornare in scena (al Teatro dell’Acquario di Cosenza, che purtroppo non c’è più). Come ricordate quel periodo?
EO: Durante il primo lockdown abbiamo provato a mettere in gioco quello che sapevamo fare, sperimentando dirette sui social e provando nuove forme di scrittura, poi, almeno per quanto mi riguarda, è subentrata una fase di angoscia e crisi. Successivamente è affiorata una risposta collettiva, abbiamo provato a reagire politicamente insieme ad altri colleghi, con un’attivismo per certi versi inedito, ci siamo impegnati nel creare reti di confronto. I webinar sono diventati il luogo in cui raccontarci le nostre storie e progettare possibilità di resistenza. Poi sono arrivate le interlocuzioni con le istituzioni nazionali e locali che lentamente hanno risposto alle nostre sollecitazioni con sussidi e bonus, di fatto interventi “tampone” che si sono rivelati insufficienti e in alcuni casi scriteriati.
Lo spettacolo ne ha risentito, ci avete lavorato ancora o è rimasto congelato?
EO: A dicembre 2021 abbiamo riassaporato il palcoscenico con il reading/concerto al Teatro dell’Acquario, poi nello scorso autunno lo abbiamo riproposto nell’ambito del Calabria ShowCase a Catanzaro, arricchito dai video-fondali con le immagini disegnate da Raffaele Cimino, più di recente, nell’ambito del Ragazzi MedFest al Waterfront di Reggio Calabria, è andata in scena una versione con la presenza del sassofonista Alberto La Neve, un’opzione molto stimolante che ha aperto nuovi scenari sonori. Adesso torniamo alle origini, ma senza escludere di coinvolgere in futuro di nuovo La Neve e altri musicisti.
Citazioni dal testo di Marcello Walter Bruno.
Lo spettacolo La fuga di Pitagora lungo il percorso del sole sarà in scena il 2 febbraio al Teatro Auditorium dell’Università della Calabria (TAU), al mattino per le scuole e la sera per chiunque. Lo spettacolo è parte di una serie di eventi dedicati al ricordo di Marcello Walter Bruno. Ideazione e organizzazione degli eventi sono curati dal Dipartimento di Fisica dell’Università della Calabria, dall’Infrastruttura di ricerca STAR (Southern Europe Thomson Back-Scattering Source for Applied Research) e dal Progetto NoMaH (Novel Materials for Hydrogen Storage).