“S econdo il mio orologio eravamo queer prima ancora di essere lesbiche e gay” scrive José Esteban Muñoz in Cruising Utopia (2022), raccontando pratiche, affettività e desideri non normati prima dei moti di Stonewall del 1969, dell’epidemia dell’HIV, della sigla LGBTQI+, del lento processo di assimilazione di determinate soggettività gay e lesbiche all’interno del sistema dell’eteronormatività, con i matrimoni egalitari e l’orgoglio omonormato e capitalizzato che oggi riempie le piazze dell’occidente. Il termine queer racchiudeva e raccoglieva tutto ciò che era indicibilmente deviante, mostruoso, fuori norma, era ed è qualcosa dai bordi indefiniti, frastagliati e osceni. Nel suo libro Muñoz utilizza questa nozione per rileggere il passato e offrire “pratiche critiche e politiche queer che supereranno l’impasse del presente queer, aprendo un portale per un futuro queer che era, potrebbe essere e dovrebbe essere” e per farlo guarda a quelle collettività che, come ha scritto Enrico Gullo in una lucida analisi di Cruising Utopia, “spostano il momento riproduttivo dalla biologia alla società, rimescolano le carte dei ruoli di genere, reinventano la riproduzione sociale entro comunità basate sulla resistenza e sulla sopravvivenza” vis-à-vis l’alienante macchina capitalista, l’esclusione e la violenza eterocispatriarcale e in molti casi razzista e coloniale.
Ed è così che appaiono le locas di Pedro Lemebel (1952-2015) in Folle affanno. Cronache del contagio, raccolta di cronache del Cile tra gli anni Settanta e i primi anni Novanta dello scrittore e artista cileno pubblicata nel 2022 in Italia da Edicola Ediciones e tradotta dallo spagnolo da Silvia Falorni. Come spiega la nota dell’editore:
Il concetto di loca racchiude il significato di omosessuale, transessuale, travesti; ma in spagnolo vuol dire anche pazza, matta. E se l’uso tende a essere comunemente dispregiativo, Lemebel lo trasforma come solo lui sa fare: la loca, qui, diventa una diva, una regina proletaria, una star di Hollywood in pelliccia di visone.
Folle affanno racconta di loro, le locas: figure ai margini che con i loro corpi e le loro movenze sfrontatamente oscene e meravigliose hanno vissuto in Cile attraverso gli anni della dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990) – ma che sono anche quelli delle riforme neoliberiste e neocoloniali – che portarono con sé violenza militare, diseguaglianze economiche e sociali, la repressione di ogni forma di resistenza, l’oppressione di soggettività minoritarie, dalla popolazione indigena mapuche alle locas, l’arrivo di grandi capitali internazionali e con quelli del turismo occidentale (statunitense soprattutto) e dell’epidemia dell’HIV, che devastò anche la comunità trans, travesti e omosessuale del Cile. Folle affanno parla della Palma, della Pilola Alessandri, della Chumilou, della Madonna di San Camilo e delle loro feste, tra alcol economico e pellicce di visone, delle regine che abitavano il palazzo di Aluminios El Mono e accoglievano a tutte le ore i militari e gli uomini dell’ipocrita borghesia cilena. Racconta di una rivoluzione di una comunità queer e loca contro le norme di genere, sessuali e sociali buttata all’aria da quella che l’autore definisce “la mano sieropositiva”, svelando “quel folle affanno di rivendicazione di un movimento politico che non è mai esistito, che è rimasto intrappolato tra le garze della precauzione e l’economia dei gesti dedicati ai malati”.
Le cronache di Lemebel non sono solo il ritratto di un’epoca e di una collettività, ma anche un testo politico: la scrittura diventa un atto di rivendicazione di una loca nei confronti di una società eteropatriarcale, borghese, capitalista, omofoba e transfobica; un atto sovversivo contro la dittatura neoliberista di Pinochet e l’ipocrisia della sinistra cilena, che si dimostra a sua volta altrettanto machista e omofoba. Pedro Lemebel era questo, non semplicemente scrittore e artista, ma anche una soggettività queer in lotta. Con le sue opere e le sue performance ha messo in luce la necessità di un discorso politico intersezionale, queer e antisistema.
Come racconta l’autore stesso nel documentario Lemebel (2019), diretto da Joanna Reposi, nel 1987 fonda insieme all’artista Francisco Casas il collettivo Las Yeguas del Apocalipsis [le cavalle dell’apocalissi ndr] in risposta al contesto brutale e alla violenza sistemica a cui erano soggette le persone queer in Cile. Sotto la dittatura di Pinochet, ma anche successivamente, durante la cosiddetta transizione democratica, i due artisti portarono avanti e presentarono azioni e performance provocatorie e allo stesso tempo intime in spazi pubblici e gallerie. Al centro c’erano sempre i loro corpi: queer, disumanizzati dall’autoritarismo di Pinochet e dell’eterocispatriarcato; corpi colonizzati terzomondisti – come li definisce Lemebel stesso – che reclamavano la loro presenza nel dibattito politico, nella lotta per il riconoscimento dei diritti di esistenza, salute, felicità e libertà. In Folle affanno Lemebel inserisce spesso storie e descrizioni della sua vita e di alcune delle azioni del collettivo:
In quei giorni, a un certo punto degli anni Ottanta, l’arte del corpo era il boom della cultura cilena e la sua esposizione poteva rappresentare e denunciare i crimini della dittatura… l’azione artistica metteva in scena un omaggio, una notte stellata cosparsa sul cemento sporco. Una parodia di Broadway nel fango della sodomia latinoamericana.
In uno dei testi, forse il più noto della raccolta, Manifesto (Parlo in nome della mia differenza), Pedro Lemebel prende le distanze dalla transizione democratica e dalla sinistra cilena. Scritto sotto forma di poesia, il manifesto dello scrittore può apparire come una rinuncia alla lotta politica, ma in realtà rappresenta una forte presa di posizione critica e una rivendicazione della propria militanza frocia e intersezionale; un invito a una vera rivoluzione comunista in cui vengano sovvertite le norme sociali e partitiche. Manifesto è il rifiuto di Lemebel nei confronti del virilismo della sinistra, accecata dal desiderio di potere, e di un certo tipo di politica, istituzionale e parlamentare. È il grido di una loca contro il sistema:
La mia virilità è stata sopportare le beffe
Ingoiare la rabbia per non ammazzare tutti
La mia virilità è accettarmi diverso
Essere codardo è molto più difficile
Io non porgo l’altra guancia
Porgo il culo, compagni
E quella lì è la mia vendetta
La mia virilità aspetta paziente
Che i machos diventino vecchi
Perché a questo punto
La sinistra svende il suo culo flaccido
Nel parlamento
La mia virilità è stata difficile
Perciò su quel treno non ci salgo
Senza sapere dove va
Io non cambierò per il marxismo
Che mi ha rifiutato tante volte
Non ho bisogno di cambiare
Sono più sovversivo di voi
Nel suo essere sovversivo Lemebel diventa un lucido osservatore della realtà, della trasformazione del suo paese e della svolta dalla dittatura di Pinochet al neoliberismo democratico, che manterrà intatte le diseguaglianze sociali e l’oppressione neo-coloniale nei confronti della popolazione indigena mapuche. In Folle affanno lo scrittore mette in luce il tempo queer, non normato in cui le locas vivono dove sogni, utopie, tragedie del passato convivono in un folle desiderio di cambiamento, di rivoluzione dei desideri, dei corpi, dello stare insieme e costruire comunità. In questo si scorge un collegamento con la definizione di queer di Muñoz, come “qualcosa di più della mera sessualità. È il gran rifiuto di un principio della performance che permette all’umano di sentire e conoscere non solo il nostro lavoro e il nostro piacere, ma anche noi stess* e l’altr*”.
Inoltre, in maniera simile a Muñoz, Pedro Lemebel apre una riflessione critica sul pragmatismo riformista neoliberale che dagli anni Novanta contraddistingue i primi movimenti gay in Cile: uomini omosessuali rispettabili che reclamano il loro posto nel sistema politico ed economico della società cilena. Folle affanno mostra infatti come la separazione in classi sociali tra gay abbienti, locas e froce proletar* abbia prodotto ulteriori emarginazioni e ferite, portando al fallimento il desiderio comune di cambiamento alla fine della dittatura:
L’essenza gay si unisce al potere, non lo confronta, non lo trasgredisce. Propone la categoria omosessuale come regressione al genere. Essere gay conia la propria emancipazione all’ombra del capitalismo vittorioso.
Allo stesso tempo, le locas con la loro presenza sovversiva sono la prova della violenza che una società capitalista ed eterocispatriarcale impone sui corpi considerati osceni e devianti.
Pedro Lemebel racconta l’esistenza delle locas che con le loro soggettività ibride, meticce, razzializzate e devianti dalle norme di genere resistono, risignificando il concetto stesso di identità e sovvertendone le dinamiche coercitive di potere. La loro resistenza è messa a confronto e opposta al “modello importato dello status gay, così di moda, così penetrante nella negoziazione del potere della nuova mascolinità omosessuale”, come scrive l’autore nel testo La notte dei visoni. Proprio in questo viene raccontato il capodanno del 1973 prima del colpo di stato di Pinochet. Le locas si ritrovano a celebrarlo tutte insieme e l’unica testimonianza che rimane di quell’ultima festa prima della dittatura è una foto sbiadita che raccoglie il ricordo della vita delle locas spazzata via dalla violenza militare e dal virus dell’HIV:
Prima che la barca del millennio attracchi nel 2000, addirittura prima della legalizzazione dell’omosessualità cilena, prima della militanza gay che negli anni Novanta unirà gli omosessuali, prima che quella moda maschile si imponga come l’uniforme dell’esercito della salvezza, prima che il neoliberalismo in democrazia conceda il permesso di accoppiarsi, molto prima di tutti questi privilegi, la foto delle locas in quell’ultimo dell’anno è un registro del passato che brilla in un mondo sommerso. È ancora sovversiva l’oscenità delle loro cristalline risate che buttano all’aria i precetti di genere. In quella vecchia immagine si può ancora percepire l’immensa distanza, gli anni della dittatura che educarono virilmente i modi di fare, si può ancora constatare la metamorfosi delle omosessualità di fine secolo; la morte della loca sarcomizzata dall’AIDS […] La foto dice addio a un secolo con il piumaggio logoro delle locas ancora depravate, ancora folcloristiche con i loro costumi illegali.
Il virus dell’HIV diventa per Lemebel il simbolo di quella che lui vede come una ricolonizzazione, attuata attraverso le riforme neoliberiste importate dagli Stati Uniti dai Chicago Boys – un gruppo di economisti cileni, formatisi all’Università di Chicago, che influenzò le politiche economiche di Pinochet – e con loro l’ingresso di capitali e turisti statunitensi, che portarono con sé anche il morbo. L’America Latina appare attraverso le pagine dello scrittore come una terra sfruttata, ferita e frammentata dalla violenza coloniale, e così l’epidemia di AIDS, che colpì in particolar modo la comunità queer, trans e omosessuale, diventa un’ulteriore cicatrice e trauma sul corpo latinoamericano colonizzato.
Le locas diventano i corpi e le soggettività immolati per il progresso, per la modernità e l’identitarismo occidentali. Folle affanno è testimonianza di questa colonizzazione, capitalizzazione e sfruttamento, ma allo stesso tempo è anche memoria e archivio di “una militanza corporea che enfatizza, dai margini della voce, un discorso proprio e frammentato”, perché crea uno spazio e un tempo vitali in cui emergono le relazioni di cura e intimità tra locas, la possibilità di costruire comunità affettive di fronte alla violenza quotidiana, la riumanizzazione del corpo di fronte alla morte. Infine, come ci ricorda Muñoz, “La rimessa in scena queer del passato ci aiuta a immaginare nuove temporalità”, nuovi legami e futuri possibili.