P erdita e meraviglia alla Fine del Mondo è un testo ibrido, frammentato e sorprendente che cerca indizi e storie sommerse che illuminino le relazioni contraddittorie che gli esseri umani intessono con l’ambiente che li circonda. La sua autrice, Laura A. Ogden, professoressa di antropologia al Dartmouth College, nel New Hempshire, racconta la vita umana e animale nell’arcipelago delle isole a sud della Patagonia, la Terra del Fuoco, la Fine del Mondo. Territori che in questi anni stanno subendo duramente la crisi climatica, che hanno già nel recente passato attraversato stravolgimenti ambientali dovuti all’esplosione di alcune specie invasive e che, prima ancora, hanno assistito al dipanarsi del più efficiente e cieco colonialismo, e di lì a un intenso sfruttamento delle risorse – oltre che a una violenta e totale emarginazione delle popolazioni indigene. Come sono collegate tutte queste cose?
Perdita e meraviglia alla Fine del Mondo (add editore, traduzione di Sara Reggiani) è un libro indisciplinato dal punto di vista narrativo, non è un canonico saggio. È un testo ricco di suggestioni che si affida a una scrittura poetica e a un pensiero erratico e che progredisce per accumulo, affiancando frammenti: storie, foto, documenti, racconti autobiografici e sezioni di ricerca etnografica. Scrive l’autrice nell’introduzione:
Il luogo di questo libro è l’arcipelago fuegino della punta meridionale del Sud America. Il tempo di questo libro è l’eterogeneo tempo perduto prodotto dagli effetti in corso del colonialismo nella regione. La forma di questo libro è un archivio di perdita e meraviglia.
Ogden chiama in causa il fantasma dell’esploratore coloniale – e pittore – Charles Wellington Furlong, il cui lavoro di ricerca, le fotografie e i quadri, cristallizzarono lo sguardo distorto dell’uomo occidentale su quelle terre e calcificarono le discriminazioni contro gli indigeni. Gli contrappone lo spirito della riottosa etnologa Anne Chapman, che invece si oppose con rabbia allle distorsioni accademiche del “Nord del mondo”. Aggiunge poi ai capitoli le storie naturali di quelle isole, la “piccola” distruzione ambientale avvenuta per mano delle specie invasive, portate lì dall’uomo, come presagio della più grande distruzione climatica.
“Ho cominciato a scrivere il libro pensandolo come una meditazione sulla vita in un’epoca di perdita ambientale”, mi racconta Ogden durante l’intervista, “con la speranza di ricordare che tutte le perdite dimostrano di essere legate: perdite di territorio, di modi di vivere, perdite di comunità e di biodiversità”.
Partiamo da una nota personale: lei è un’antropologa ambientale che scrive libri sul modo in cui le persone danno un senso a ciò che chiamiamo natura. I suoi genitori lavoravano in un parco nazionale, quello delle Everglades, una vasta palude nel sud della Florida. Crescere in un ambiente del genere ha contribuito alla costruzione dei suoi interessi?
Innanzitutto dal loro lavoro ho imparato ad apprezzare quei lunghi tempi morti in cui sembra che non stia accadendo nulla. Quando ero molto piccola, pensavo che il lavoro dei miei fosse la cosa più noiosa che si potesse immaginare: mio padre stava letteralmente seduto su una barca tutto il giorno a contare gli uccelli. Mia madre era ossessionata dalla tassonomia delle piante. Il lavoro sul campo, nelle scienze naturali, è interessante per tanti motivi, ma è un tipo di studio che richiede l’apprendimento di infinite conoscenze su piante, animali e processi ecologici. Oggi ho capito che anche gli antropologi danno il meglio quando si mettono in sintonia con la loro stessa noia: perché in fondo la noia può essere un segnale importante, una spia che si accende quando l’istinto non è abbastanza per comprendere i mondi che stiamo analizzando, mondi che invece possono avere significati profondi per altre persone o culture.
In secondo luogo, passare l’infanzia tra i turisti, in un parco nazionale, in particolare un parco con alligatori e grandi serpenti, è stato come un corso accelerato in differenze culturali sulle visioni della natura. In più devo ammettere che mio fratello ed io ci divertivamo a vedere i visitatori affannati, impantanati nel guado fangoso delle paludi. Ultima, e forse più importante lezione: mi sono resa conto che ovunque io vada nel mondo, le Everglades sono in qualche modo inscritte nel modo in cui vivo e persino conosco altri posti. E vedere questo processo in me stessa mi ha insegnato ad ascoltare e apprezzare i legami profondi che tutte le persone possono avere con la propria terra e il territorio da cui provengono, e quindi a capire meglio, almeno in parte, la violenza che può esserci nell’emigrazione, nell’eradicazione o nella perdita del proprio territorio.
Perdita e meraviglia alla Fine del Mondo è il suo primo libro che viene tradotto in Italia, ma si inserisce nel quadro più ampio del suo lavoro di ricerca degli ultimi decenni e che riguarda la storia naturale e le storie nascoste dietro quella “accademica”, “ufficiale”.
Perdita e meraviglia alla Fine del Mondo segna questo passaggio alla comprensione politica della natura, ed è costruito come una sorta di “tentativo di esaurire un luogo”, per citare Perec, e quel luogo è l’arcipelago fuegino, la Terra del Fuoco, appunto, tra Cile e Argentina. Il libro è un catalogo di foto, storie, viaggi, materiale d’archivio che fa venire a galla le interazioni nascoste tra la natura, gli animali, la storia delle persone e delle società.
In questo caso ho provato a scrivere una sorta di “archivio alternativo del presente”, come lo chiamo io per spiegare la struttura del libro e i suoi temi principali. Mi spiego meglio. Siamo abituati a raccontare l’età contemporanea, giustamente, come il prodotto o il risultato di storie piuttosto astratte di cambiamento ambientale globale, o di vari progetti imperiali (come il colonialismo, lo sviluppo industriale, il capitalismo, ecc.). Come molti altri antropologi, io però sono interessata a capire come questi grandi progetti globali e questi grandi processi di cambiamento modellino poi la vita e la morte in un particolare territorio, per quanto riguarda le singole persone che lo abitano e i loro “mondi ecologici”. In Perdita e meraviglia alla Fine del Mondo esploro dove e come il colonialismo e il cambiamento ambientale hanno toccato l’arcipelago. Così il libro archivia luoghi specifici, momenti, artefatti in cui avviene questo “tocco”, permettendomi di vedere come le strutture astratte e le storie del cambiamento globale si intreccino per creare il presente.
Come le è venuta l’idea del libro, di andare alla ricerca di questi nodi tra storia coloniale e storia naturale?
Quando ho finito di scrivere Swamplife, i giornali negli Stati Uniti erano pieni di storie di pitoni che invadevano le Everglades: i pitoni sono specie aliene invasive per quelle paludi, sono serpenti che lì sono stati introdotti, e stavano in pochissimo tempo sostanzialmente decimando le popolazioni di mammiferi e di uccelli di quell’ecosistema. Questo acceso dibattito sulla biologia della conservazione mi ha portato a voler comprendere meglio la complicata etica della gestione degli animali considerati alieni, invasivi, non autoctoni. E mi sembrava quasi impossibile pensare al di fuori del binario che considera senza sfumature le specie invasive “cattive” e le specie autoctone “buone”.
Ma le Everglades erano troppo vicine a me, per capire meglio il problema dovevo cercare di analizzarlo da qualche altra prospettiva. Fortunatamente, ho incontrato alcuni ecologi cileni, a una conferenza, che mi hanno invitato a unirmi alla loro ricerca sui castori invasivi dell’arcipelago della Terra del Fuoco. I castori canadesi furono importati nella regione dell’arcipelago alla fine degli anni Quaranta, trapiantati lì dagli esseri umani nella speranza di avviare un nuovo commercio di pellicce. Un progetto di sviluppo che è stato un fallimento assoluto dal punto di vista economico. E che ha lasciato sulle isole centinaia di castori che si sono rapidamente diffusi, e che sono ora considerati uno dei casi più problematici di specie invasiva al mondo.
Poco dopo aver conosciuto questa storia ho iniziato il lavoro sul campo nella Terra del Fuoco. E ho subito notato altre due incongruenze. Innanzitutto, ho iniziato a notare come i popoli indigeni della regione fossero usati retoricamente in contesti di conservazione per evocare sentimenti di fragilità e precarietà della natura, senza che però venisse mai davvero riconosciuta l’espropriazione delle terre che subirono negli anni del colonialismo. La seconda grande contraddizione è il fatto che gli scienziati naturali, così come i turisti, apprezzino l’arcipelago per la sua “epica natura selvaggia”. Ma come gran parte della Patagonia, la Terra del Fuoco è in realtà dominata da allevamenti di pecore su larga scala. In altre parole, la Terra del Fuoco è sia natura selvaggia che paesaggio agricolo. In ogni istante, milioni di pecore vagano per la regione, creando ogni tipo di cambiamento nell’ambiente. Tuttavia, le pecore non sono mai incluse nelle discussioni sulle specie invasive. Questo è stato il punto di partenza di tutto.
E poi c’è la storia coloniale.
Nella mia ricerca e nello scrivere questo libro, è diventato molto chiaro che diverse serie di fotografie molto famose, scattate alle popolazioni indigene di Fuegian nei primi decenni del Ventesimo secolo, hanno sovradeterminato i modi in cui gli studiosi e il pubblico in generale percepiscono ancora oggi la storia della regione. Alcune di queste fotografie sono state scattate da antropologi, altre da esploratori europei e nordamericani. Uno di questi esploratori era uno statunitense di nome Charles Wellington Furlong, il cui archivio è stato fondamentale per il mio libro. Sono fotografie scattate durante il culmine dell’insediamento coloniale nella regione, che ha portato molte comunità indigene quasi al genocidio. Queste immagini sono diventate parte di un canone. Ma sono foto che nascondono il genocidio e che raccontano invece la storia indigena della regione come una storia di scoperta antropologica e storica delle “tribù perdute dell’arcipelago”. Queste foto – molte delle quali di popoli Selk’nam e Yagán a cui veniva chiesto di rievocare cerimonie che all’epoca erano già poco praticate – sono diventate una rappresentazione pervicace di quelle terre, che si trova ancora ovunque, dalle copertine di costosi libri fotografici ai murales sulle case. È stato costruito a tavolino l’immaginario di queste tribù perdute, e questo ha aiutato a storicizzare i popoli indigeni della regione come fossero “reliquie del passato”, a estrometterli dalla vita e dalla politica dell’arcipelago. E invece gli indigeni fuegiani continuano a vivere anche oggi nella regione, così come in aree al di fuori delle isole. Ma la narrazione delle tribù perdute è stata conveniente per i coloni, per le rivendicazioni di terre e di risorse cilene e argentine, per progetti economici dannosi per lambiente, come l’allevamento intensivo del salmone, la raccolta del legname, la produzione di petrolio e gas.
L’Archivio Furlong, che si trova al Dartmouth College, dove lavoro, contiene centinaia di fotografie scattate nel primo decennio del Ventesimo secolo a persone e luoghi dell’arcipelago, così come i suoi diari e migliaia di documenti correlati. L’obiettivo di Furlong era quello di documentare le culture indigene durante il culmine dell’insediamento coloniale nella regione (documentare quindi la vita di persone che secondo lui stavano per “estinguersi”). Come la maggior parte di noi, Furlong era cieco ai suoi pregiudizi. Credeva di essere uno scienziato che produceva un resoconto obiettivo, anche se la sua narrazione oggi sembra un catalogo di razzismo vittoriano. Ma sono stati i lavori di Charles Darwin, anche in questo caso pieni di pregiudizi, a segnare più profondamente l’interpretazione di Furlong della vita nell’arcipelago: fu Darwin prima di lui infatti a descrivere i fuegini come le persone più selvagge sulla terra.
Per quanto mi riguarda, mi ci è voluto molto tempo per andare oltre il puro desiderio di critica contro l’esperienza e la visione di Furlong. Ma, dopo aver scritto molto, sono riuscita a elaborare quella rabbia, e ho capito che le domande che dovevo porre all’archivio esulavano dalle intenzioni con cui Furlong lo aveva costituito. Ad esempio, mentre l’obiettivo di Furlong era quello di documentare a modo suo le popolazioni indigene dell’arcipelago, io ho invece utilizzato l’archivio per conoscere le dinamiche e la costruzione degli insediamenti coloniali e lo sfruttamento del lavoro indigeno. E questo mi ha aiutato a capire meglio come le “tribù perdute” non sparirono sul serio ma vennero invece più che altro incorporate nell’apparato dell’insediamento coloniale.
Quando è che ha capito di poter intrecciare le storie dell’arcipelago, umane e naturali, usando questi due fuochi, lo smarrimento e lo stupore, la perdita e la meraviglia?
La perdita e la meraviglia sono emozioni, ma nel mio libro le tratto come registri affettivi. Tendiamo a pensare alle emozioni come risposte individuali, personalizzate e psicologiche al mondo esterno o a un insieme di circostanze. Gli affetti invece sono categorie un po’ diverse, sono sentimenti che emergono da una data situazione e che danno forma al modo in cui diamo un senso al mondo, al modo in cui decidiamo qual è il nostro posto nel mondo. Kathleen Stewart, brillante antropologa e teorica culturale, ha mostrato come gli affetti siano un sentimento profondamente politico. Trattare la perdita e lo stupore come registri affettivi, piuttosto che come pure emozioni, mi ha aiutato a prestare attenzione alla politica di questa creazione di senso. La perdita pervade le preoccupazioni per il cambiamento ambientale e il colonialismo, così come la meraviglia, che ho definito come “la curiosità per mondi diversi e futuri alternativi”. Piuttosto che essere emozioni universali, la perdita e la meraviglia sono costituite da contesti politici e storici specifici: l’esperienza di meraviglia di Charles Darwin nell’arcipelago è specifica del suo privilegio e del momento storico che viveva. La meraviglia di Darwin non è la stessa di chi si sforza oggi per salvare le specie in via di estinzione in un’epoca di estinzioni di massa. Rintracciare la perdita e lo stupore come modi divergenti e simili di sperimentare il mondo mi ha permesso di evidenziare gli intrecci politici legati ai momenti ordinari e sublimi dell’arcipelago.
Parlando di natura, penso che una delle sfide più impegnative sia capire cosa significhi davvero conservazione, cos’è che dobbiamo preservare, dove tracciare la linea. Perché, come disse William Cronon: persino la natura selvaggia non esiste, è una costruzione culturale; e, in generale, al di là della retorica non è mai esistito un vero equilibrio in natura, la natura è in continua trasformazione, cambia sempre.
Il messaggio principale di Cronon non è però quello di rinunciare alla natura solo perché la natura selvaggia è un costrutto culturale, ma invece di riconoscere e valorizzare la natura quotidiana che incontriamo nelle nostre città e periferie. La natura è in continua evoluzione, è vero, così come le società, ma penso che possiamo concordare sul fatto che alcune attività umane legate all’agricoltura intensiva, al capitalismo estrattivo e alle economie dei combustibili fossili stiano radicalmente alterando il ritmo e la forma del cambiamento naturale. Dopotutto, ora ci sono strati della Terra composti da plastica, cemento e altri materiali artificiali… E ogni giorno apprendiamo di un’altra specie estinta. Quindi, forse abbiamo già superato quella linea. La mia sensazione è che dobbiamo imparare dai tentativi di ripristino degli ecosistemi, anche quando sono irregolari, parziali e disordinati. Sto pensando, qui negli Stati Uniti, ai tentativi di recupero delle specie, come il condor della California, o il foraggiamento urbano e ai vari movimenti ambientalisti anticoloniali che cercano di riconoscere i diritti della natura.
Mi sembra che una delle questioni che ricorre sottotraccia nel libro sia la differenza tra il modo in cui gli antropologi e gli storici analizzano i fatti, gli eventi, i documenti. Perché è chiaro che si parte da un terreno comune, da un dato di realtà, ma poi gli obiettivi, i metodi e gli approcci a un certo punto divergono.
Non sono sicura di saperne abbastanza su come gli storici trattano fatti e archivi per poter fare un confronto tra le discipline. In fondo non sono una storica e non ho una formazione metodologica da storica. Per questo motivo, ero davvero scoraggiata dalla vastità dell’archivio di Furlong (da dove potevo cominciare?) e sentivo di non avere l’abilità di esaminarlo per estrarne dei “fatti” (e ancora non sono sicura che sia possibile farlo). Così ho deciso di trattare l’archivio come una raccolta di oggetti etnografici piuttosto che come una fonte di fatti storici. Questa differenza mi ha permesso di porre domande diverse. Quindi, invece di chiedermi cosa potrebbero dirci quelle fotografie sulla vita indigena e coloniale nell’arcipelago, ho cercato di capire come quelle fotografie continuino a risuonare, oggi, nella realtà come oggetti che definiscono e vincolano il modo in cui l’arcipelago è conosciuto e rappresentato. Perché, come dicevamo, i materiali di Furlong, in particolare le fotografie, hanno danneggiato il modo in cui sono state ritratte le popolazioni indigene (selvagge, ingenue, primitive, marginali).
La maggior parte degli antropologi è ben consapevole oggi delle eredità dell’approccio “estrattivo” che ha caratterizzato la ricerca etnografica agli albori, e l’obiettivo è ormai quello di essere più trasparenti possibile, e di chiarire subito per esempio i rapporti di ricerca. Così per questo libro ho ritenuto importante collaborare strettamente con i membri della comunità cilena Yagán al processo di lettura, interpretazione e utilizzo dell’archivio, ho condiviso e discusso con loro ogni materiale che mi sembrava rilevante. Poi, lungo un periodo di sei anni, ho trascorso circa venti mesi nell’arcipelago conducendo ricerche.
Quando lavoro sul campo, tendo ad avere un’idea generale delle domande o delle contraddizioni che voglio esplorare, ma so anche che queste possono cambiare nel corso della ricerca. Di solito non so cosa ho imparato fino a quando non scrivo, riscrivo e riscrivo. Per questo motivo tendo a includere ogni piccola informazione potenzialmente interessante nei miei appunti, come una sorta di gazza etnografica, e solo dopo vedo cosa ne viene fuori scuotendo tutto con la scrittura.