A rthur Jafa è un artista visivo, regista e direttore della fotografia statunitense afrodiscendente, vincitore del Leone d’oro alla 58. Biennale di Venezia e attualmente in mostra alle OGR di Torino con la personale RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON. È l’artista stesso a spiegare come leggerne il titolo, in un momento di bizzarra ma quanto mai funzionale comunicazione museale: in forma di tutorial. Il titolo della mostra, una congerie macchinica e impappinante, combina il suo nome alternato a quello di tre chitarristi elettrici afroamericani scomparsi. Arthur Rhames (1957–1989), Pete Cosey (1943–2012) e Ronny Drayton (1953–2020) sono stati eccellenti turnisti che hanno emesso scariche elettriche lungo la spina dorsale del canone afroamericano più radicale. Da session musicians professionisti, la loro discografia ha pochissimi titoli a proprio nome, ma considerata nell’insieme dei dischi ai quali hanno prestato il proprio talento costituisce un corpus che corre parallelo alla storia della musica popolare sperimentale (afro)americana, e necessiterebbe un articolo a sé. Ma sullo sfondo di queste tre “storie minori” ne emerge un’altra, a cui Jafa solo accenna, com’è tipico della sua pratica: quella, al contrario ipervisibile e bigger than life, di Jimi Hendrix, del quale spirito, secondo l’artista, i musicisti citati avrebbero espresso il potenziale irrealizzato. Che in RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON l’artista illustri queste storie con le immagini, lo si deve alla sua formazione: Jafa nasce come direttore della fotografia, e per anni colleziona frammenti nel suo Picture Book, dal quale ha attinto per quasi ogni suo lavoro. E così pure in questa mostra, che si apre con fotografie di Jean-Michel Basquiat, Charlie Parker e Jimi Hendrix stampate a riempire le pareti di una galleria. Percorrendola attraversiamo la luminosa, tragica storia di “giovani, talentuosi, neri” – e sovraesposti alla violenza, aggiungerei a Nina Simone. Ma cosa ci fa qui una foto di scena da Flash Gordon del 1936? Quale logica oscura connette questi “spooky entanglements”, legami spettrali, come li chiama l’artista? Come si legge RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON?
Possiamo situare la sua pratica all’interno della cassetta degli attrezzi estetico-politica nera e chiamarla controarchivio, il modo di fare genealogia di un popolo sradicato.
Arthur Jafa mette in campo una rete di riferimenti – raramente espliciti, molto più spesso impliciti – in ogni suo lavoro. Possiamo situare questa pratica all’interno della cassetta degli attrezzi estetico-politica nera e chiamarla controarchivio, il modo di fare genealogia di un popolo sradicato, privato dei rapporti di filiazione diretta con la propria origine, che getta radici dal fondo del mare fino a Saturno. In video come APEX (2013) o l’ormai iconico Love Is the Message, the Message Is Death (2016), realizzato all’apice delle proteste di Black Lives Matter e accompagnato da “Ultralight Beam” di Kanye West, Jafa monta immagini in rapidissima sequenza, contrappuntando o assecondando il ritmo della musica. La sua è una manipolazione ingannevolmente “elementare” dei materiali, un’arte combinatoria (anagraficamente) figlia del sampling hip-hop e dell’ipertesto, ma che, andando più indietro nel tempo, trova radici nelle più disparate arti “nere”, dal jazz a forme di cinema e letteratura, decolonizzando la matrice bianca del modernismo. Ma l’operazione di Jafa è anche da interpretare internamente all’economia del senso messa a punto nel suo lavoro.
Proviamo a leggere tutto d’un fiato “RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON”. L’artista dissemina segni scagliati alla velocità del suono o, come si vedrà, rallentati fino a insinuarsi nelle pieghe del senso, ma senza mai spiegare, contro quello che chiama “remedial reading”, la lettura conciliante del “significato” della sua opera. (Per essere contrario alla spiegazione, Jafa è un fine teorizzatore del suo lavoro, e non attingere al suo vocabolario sarebbe un errore). Troppo lenti o troppo veloci, siamo in differita rispetto al senso, sempre spostato un passo a lato, messo tra parentesi. Rhames, (Jafa), Cosey, (Jafa) Drayton: (Hendrix), e dei punti di sospensione da riempire. Una vertigine referenziale che – indicando indirettamente il potenziale latente, inespresso, di frammenti di vite – si apre su un fondo oscuro. Dove cerchiamo significato troviamo il buco nero della fine ingiusta e prematura che affligge tropp3 giovan3 afroamerican3, strutturalmente sovraespost3 alla violenza. L’eccesso di presenza (di segni, di storie, di immagini, di suoni) in Jafa, può essere il desiderio non di riempire, ma di sostare sull’orlo di un’assenza troppo grande, troppo indicibile. Come dire l’indicibile? Se chiedessimo a Rhames, Cosey, Drayton (e Hendrix, Parker, probabilmente anche Basquiat e Jafa stesso), credo che ci risponderebbero che la musica è fatta apposta per questo. Ci sono immagini nel lavoro di Jafa, certo, e questa mostra ne ha di indimenticabili. Eppure anch’esse riflettono un pensiero musicale, un discorso sviluppato in forme d’onda. Attraverso la vibrazione mettere in mostra l’indicibile, che leggere esige un lavoro critico “su misura”.
Per lo schiavo, negato del diritto di leggere e scrivere (o di imparare a farlo), la musica, la danza, le arti gesturali sono tecniche di sopravvivenza di trasmissione di conoscenza rese necessarie dalla schiavitù.
Black Secret Technology
Nel suo saggio Dear Angel of Death, la poeta Simone White si chiede qual è il destino della poesia afroamericana, se essa è, per statuto, relegata a un ruolo “secondario” come (nella migliore delle ipotesi) “rimediazione” della musica, trascrizione di pratiche orali. Che la musica abbia un ruolo centrale nelle “tecniche di performance nera” (Stefano Harney e Fred Moten, The Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero), tanto da coincidergli, è un topos talmente diffuso, avvalorato dalle tesi dei più autorevoli pensatori afroamericani, che Simone White si chiede se non sia venuto il momento di chiedersi se sia davvero così, e di quale vita nera si parli. Quello di White è un rapporto con la musica ostinatamente irrisolto, che oscilla tra la critica alla sua (forse troppo aprioristicamente) presunta radicalità, alla capitolazione totale del pensiero di fronte alla capacità della musica di scuotere il senso da capo a piedi. Il rapporto tra testo e suono costituisce un nodo critico fondamentale per un qualsiasi ragionamento sul ruolo politico della musica (specialmente da una prospettiva afroamericana, come Simone White stessa nota) e del suo uso strategico. Come quello che ne fa Jafa, consapevole di agire in un campo discorsivo egemonicamente occidentale, bianco e (nonostante tutto ancora) profondamente segnato da un paradigma “ottico” e testuale come quello in cui si muove: le arti visive. Si tratta allora di sostituire l’ordine del discorso con una logica dei sensi, elaborare una politica delle vibrazioni attraverso la musica come affetto.
Sotto la sottile fascia occupata dal cielo si estende qualcosa di per niente rassicurante, in preda a convulsioni ondulatorie, che dà qualcosa di sinistro alla natura già crepuscolare dell’immagine.
Il problema di questa prospettiva – che da W.E.B. DuBois a Kodwo Eshun passando per Amiri Baraka, Paul Gilroy, Greg Tate e Fred Moten (quello che, con malcelata stima, Simone White chiama “l’ordine mascolino della scrittura nera”) attraversa il pensiero radicale afroamericano – è che, assumendo (seppur strategicamente) la musica come locus dell’essenza nera, opponendola al testo (paradigma illuminista occidentale per definizione) come modo di produzione di conoscenza privilegiato nel tentativo di costruire un’identità autonoma basata su una differenza affermativa, rischia invece di tornare al mittente come la solita, distorta immagine di sé riprodotta dai peggiori stereotipi razzisti. Le ragioni di questo doppio legame sono storiche, e hanno a che fare con la natura stessa del dominio e dei suoi effetti. Per lo schiavo, negato del diritto di leggere e scrivere (o di imparare a farlo), la musica, la danza, le arti gesturali sono tecniche di sopravvivenza e modi di trasmissione di conoscenza rese necessarie dalle condizioni della schiavitù, appena tollerate dai padroni ma esclusivamente come espressione di (s)oggetti “primitivi” a cui era imposto il silenzio e vietate le urla, sopportata la musica ma non il discorso.
Per questi motivi, già Paul Gilroy nel suo classico The Black Atlantic: L’identità nera tra modernità e doppia coscienza si chiede se adottare una prospettiva che privilegi la musica come “metacomunicazione pre- e antidiscorsiva nera” emersa da queste lotte, se “accettare questa relazione mediata e tattica con l’irrappresentabile, il prerazionale” non “equivalga” politicamente “a un suicidio”. Ma è Gilroy stesso a indicarci il punto di fuga. Non tanto un modo diverso di pensare la musica, quanto la musica come modo di pensare, è il metodo richiesto al critico di fronte alle espressioni “frattali” dell’identità afrodiasporica. Secondo Gilroy la musica invita a un ascolto aperto alla complessità, impossibile da leggere con le lenti dell’essenzialismo. È una “forma non rappresentazionale e non concettuale, solleva aspetti di soggettività che non sono riducibili al cognitivo e all’etico”. Così Gilroy allarga il campo del discorso senza liquidare la dimensione politica della musica, fa appello ad un ascolto differente, sintonizzato su espressioni di radicalità non discorsive. Prendere in parola la musica, cioè ascoltarla alle sue condizioni, significa anche riconciliarsi con il fatto che, come Simone White, posso trovare agghiacciante il testo misogino di un pezzo trap mentre emozioni che non ho parole per descrivere si registrano sul mio corpo, e le vibrazioni che lo attraversano fanno muovere il mio irragionevole culo. “In ballo” c’è il nostro corpo, ma anche la nostra capacità di leggere oltre il discorso, la capacità di ascoltare oltre la linea del colore – riprendendo un’espressione del sociologo W.E.B. DuBois –, aprire lo spazio della critica entrando in risonanza con gli affetti che la musica e la sua dimensione materiale intensificano.
Dark Optics
“È possibile leggere ciò che non riposa mai?” Qualcosa di inquieto perseguita Simone White: come catturarlo con le parole, senza fermarlo? “Com’è possibile mettersi in mezzo alle parole e restarci?” Come stare in ballo col testo, si chiede la poeta riflettendo sul suo compito paradossale, edificando il proprio ragionamento (come Gilroy) sulla dialettica tra testo e musica. White lo fa polverizzando le barriere che separano questo binario pretestuoso, sovvertendone l’ordine e ricostruendolo solo per abbatterlo di nuovo: per tenerlo sempre in moto, far sì che non riposi mai. Jafa non è un poeta, ma da (ex) fotografo – che cos’è la fotografia se non l’apparato di cattura per eccellenza del flusso a infiniti FPS del Reale? – incontra un simile problema. Si deve allora sperimentare un atto di creazione ex novo, emanciparsi dalla rappresentazione di una vita comunque indicibile. Come White, si tratta di mettersi in mezzo alle parole e restarci, aprire uno spazio dell’espressione su “ciò che non riposa mai”: cioè la musica (nera) o la vita (nera), forse indissolubili. È quindi ancora nella musica che Jafa trova la soluzione al suo problema. Occorre sottoporre l’immagine alle figure proprie della musica, assoggettare la rappresentazione a un modo di pensare musicale, che liberi un flusso piuttosto di incorniciare il Reale. AGHDRA, un video in loop di 85 minuti montato su LED wall, è il risultato di questa operazione, il cuore emotivo e concettuale della mostra.
Superato il breve preludio della galleria di fotografie, siamo travolt3 dallo sconcerto di una visione nuova, che non trova posto nel Picture Book dell’artista: AGHDRA è un’immagine di pura fantasia 3D, realizzata in collaborazione con lo studio di CGI francese BUF (che conta nel suo curriculum progetti come Matrix). L’immagine esplode la bidimensionalità della fotografia introducendo profondità in tutte le direzioni, e all’estensione dello spazio e del tempo si accompagna una distensione dello stato d’animo tanto automatica quanto allarmante. Siamo sedott3 dalla vista quasi oleografica di un mare al tramonto, ma la risposta dei nostri sensi è fuorviante: sotto la sottile fascia occupata dal cielo si estende qualcosa di per niente rassicurante, in preda a convulsioni ondulatorie, che dà qualcosa di sinistro alla natura già crepuscolare dell’immagine.
È possibile tracciare analogie tra immagine e musica a partire dal genere stesso di composizione che Jafa adopera. L’immagine è un paesaggio, il più musicale dei generi pittorici, e musicalmente lo si potrebbe chiamare un ambiente. La distesa oceanica che si estende in ogni senso occupa e crea spazio attraverso la ripetizione ciclica delle onde, delle sequenze interne, e del video stesso, in loop. L’effetto è quello di un “moto statico” tipico della musica basata sui bordoni, come la classica indiana, e della ambient, appunto. C’è effettivamente un elemento contemplativo in AGHDRA, ma siamo lontani dal nirvana. Forse allora il paragone da fare è con il paesaggio romantico, per come l’immagine si fa campo esistenziale di uno stato d’animo inquieto, dove la calma apparente a malapena nasconde una corrente sotterranea di angoscia, pronta ad emergere da un momento all’altro. Capovolgiamo il bianco paesaggio innevato del Winterreise di Schubert, ciclo di lieder romantico per eccellenza, e può darsi che troveremo qualcosa come AGHDRA: un mare nero illuminato da un tramonto senza fine.
Immergendosi nel fondale di AGHDRA non si aprono viste idilliache, ma Drexciya, la civiltà fondata dalla progenie sopravvissuta delle schiave incinte gettate a mare nel middle passage.
Figura musicale per eccellenza, il mare condivide con il suono una certa indeterminatezza di confini, la forma d’onda, e l’immersione come modo di abitare il proprio spazio. Immergendosi nel fondale di AGHDRA non si aprono viste idilliache, ma Drexciya, la civiltà fondata dalla progenie sopravvissuta delle schiave incinte gettate a mare nel middle passage: un’Atlantide nera tornata a galla sotto forma di fantasma fossile, il rimosso riemerso di un’intera civiltà colpevole di aver fondato la propria idea di progresso sulla violenza. È un’altra figura musicale, ispirata all’idropoetica cosmologia dell’omonimo collettivo techno di Detroit. Se il mare invita una lettura metaforica conciliante, per quanto disturbante, altri elementi riaprono la rete semantica di spooky entanglements intessuta da Jafa, tenendo sempre in moto il senso senza mai farlo sedimentare sul fondo. Più che fluido, il mare di AGHDRA è geologico: si presenta come un magma caotico di corpuscoli carbonici, un iperoggetto nero dalla qualità ctonia che, ci dice l’artista, è modellato sulla pelle di Miles Davis, come a estenderla per coprire tutto il campo del visibile. Un mare, come il senso nell’opera di Jafa, opaco e impenetrabile, oppure avvolgente ed aperto, ma sull’orlo di un abisso. Lasciare inondare il proprio campo visivo da AGHDRA significa galleggiare insieme su una voragine.
Jafa fa tutto questo con una singola immagine di una potenza abbacinante, in grado di estendere il suo senso in molteplici direzioni, e orientando i sensi verso un sentimento complicato, dove speranza e malinconia, quiete e agitazione si mescolano come per effetto del blending del motore grafico. Un’immagine, tra stasi e ripetizione, che senza rappresentare la realtà riesce a evocare lo stato di irrequietudine della vita vissuta di un popolo che rivendica il suo diritto di sfuggire alla cattura, di essere libero come il flusso della propria musica. Il dominio dell’irrapresentabile, che è quello proprio della musica, è la struttura ambigua su cui fonda la sua architettura magmatica.
Post-soul Nation
Limitato a riportare attraverso le testimonianze di altr3 i frammenti di vite e culture di cui non ho esperienza diretta e sulle quali non ho alcuna autorità di giudizio, mi trovo coinvolto nel compito paradossale di scrivere di forme di arte e di vita che forzano i limiti del discorso. La musica, in questo senso, è allo stesso tempo l’es-pressione su questa soglia e il rimedio al silenzio oltre di essa. Più di ogni altra forma d’arte riempie silenzi fra individui e culture mobilitando “strutture del sentimento” situate e iperspecifiche, ma che diventano temporaneamente universali grazie al potere evocativo della musica, tanto più forte quanto più esercitato attraverso i corpi. Quella scelta da Jafa entra in risonanza con i nostri facendoli vibrare, connette sinapsi alla velocità del suono per mezzo del solito eccesso di significato.
Un’Atlantide nera tornata a galla sotto forma di fantasma fossile, il rimosso riemerso di un’intera civiltà colpevole di aver fondato la propria idea di progresso sulla violenza.
Se nella gerarchia dei sensi di Jafa è l’immagine a visualizzare il suono (piuttosto che l’inverso), la musica di AGHDRA non può che assomigliare ad un magma nero, un flusso torbido e denso che si trascina senza soluzione di continuità, restituendo persino la qualità geologica delle immagini, resa sonoramente da una timbralità granulare e cavernosa, e discorsivamente dalla stratificazione dei significati. Jafa attinge particolarmente dall’età dell’oro del soul (anni ‘60, inizio ‘70) per evocare strutture del sentimento precise, cogliendo la musica popolare afroamericana nel momento della sua massima trasversalità commerciale e di pubblico, e allo stesso tempo di piena presa di coscienza politica, spesso in dialogo aperto con i movimenti per i diritti civili più radicali. Questa congiuntura storica caratterizzata dalle lotte plurali contro la violenza razziale riunite sotto la bandiera (pretestuosa quanto politicamente efficace) di un’“identità nera” comune, coincide a tal punto con la musica come sua elaborazione che talvolta viene indicata come “soul era”, dimostrando la contiguità estetico-politica del movimento.“Un giuramento di fede [testifyin’] funky e profano”: così descrive il soul uno dei suoi massimi interpreti (Otis Redding), catturando la sua dimensione indissolubilmente sacra ed erotica, in cui Dio, intermediario tra cantante e amante, è invocato in preghiere indistinguibili dall’amplesso. Ma la fede del soul è anche la fede in una società più libera e giusta, evocata in absentia dalla malinconia e dalla rabbia di radice blues, o rivendicata appellandosi alla partecipazione rapita del pubblico, mutuando dal call and response della musica di chiesa il proprio modello di organizzazione sociale. Estasi e malinconia sono le figure affettive centrali mobilitate da Jafa, che fa scorrere le tracce per la loro intera durata senza tagliarle, lasciando esprimere la grandeur dei sentimenti del soul attraverso l’opulenza dei suoi arrangiamenti orchestrali. Ma una manomissione strategica del corpo sonoro squarcia di nuovo il senso, aprendolo su un baratro.
Downpressure
Le tracce sono rallentate – come per le immagini, create ad hoc per questo nuovo lavoro (in maniera opposta alle abitudini dell’artista fino a ora), si tratta di un intervento diretto sul materiale. Sospeso nel tempo, anche il pezzo più propulsivo diventa una ballad, e la speranza del soul in un futuro più equo lascia il posto a un profondo senso di pessimismo. Una depressione della componente malinconica del soul ma che ora, in primo piano, è data a esprimersi in tutta la sua potenza ipnotica. “Creo opere per reagire al vostro eterno razzismo”, dice l’artista del suo lavoro, e se il tramonto senza fine del suo video può essere un indizio, mi trovo a pensare che quella che Simone White chiama “la fine della supremazia bianca, che è la libertà, che è la fine dei tempi” secondo Jafa, come per i pensatori afropessimisti, non sia affatto vicina. Dilatare il tempo nostalgico del passato significa poi velare la musica di un’aura spettrale, gettare un’ombra lunga sulle sue passioni, ora vissute nell’amarezza di un presente in cui nulla è andato come doveva. In questo senso, leggere AGHDRA come una meditazione hauntologica sui “futuri perduti” dell’era del soul non appare forzato, ma non risulta nemmeno sufficiente. Più efficace e in linea con la filosofia di Jafa, l’approccio genealogico ci avvicina alla dimensione antidiscorsiva centrale nel suo lavoro, molto di più di quanto un metodo di analisi metatestuale possa fare immaginare. Situare la pratica del rallentamento all’interno del continuum afrodiasporico ci avvicina ai sensi di AGHDRA.
Il rallentamento ha l’effetto di sprigionare ‘l’inconscio sonoro’ della musica. Quelli che a ritmo naturale sono percepiti come silenzi, spazi vuoti di significato, sono riempiti dal basso, ora ancora più profondo e dominante nella già basso-centrica musica afroamericana.
Rallentata, la musica è screwed, fottuta, rovinata, come in un mixtape di DJ Screw, pioniere di questa tecnica in ambito hip-hop. Le tapes che Screw vendeva a migliaia direttamente da casa sua erano la colonna sonora ufficiale delle principali attività dei giovani afroamericani dei quartieri di Houston: swangin’ e lean’ sippin’. Ma la musica in slo-motion di Screw non aveva solo una funzione ricreativa: “uno spazio di morte emerge all’orizzonte estatico del rallentamento”, scrive Marcus Boon in The Politics of Vibration: Music as a Cosmopolitical Practice, notando la contiguità fra la catarsi sedativa del lean e il ruolo auto-terapeautico della musica di Screw. La decelerazione del tempo in questo senso servirebbe a prolungare il poco tempo concesso ai giovani afroamericani come lui per elaborare il lutto di morti ingiuste, sublimato in musica.
Bass Materialism
Ma soprattutto, il rallentamento ha l’effetto di sprigionare quello che Boon chiama “l’inconscio sonoro” della musica. Quelli che a ritmo naturale sono percepiti come silenzi, spazi vuoti di significato, sono riempiti dal basso, ora ancora più profondo e dominante nella già basso-centrica musica afroamericana. Giunta a Jafa attraverso il continuum afrodiasporico, la tecnologia del rallentamento elaborata nei sound system giamaicani emerge dalla necessità di distendere il ritmo della danza ipercinetica provocata dallo ska, ispirandosi proprio alle ballate soul americane. Questo intervento diretto sul materiale sonoro ha l’effetto, inizialmente secondario ma successivamente determinante nell’elaborazione del reggae e del dub, di enfatizzare il ruolo del basso, che diventerà di lì a poco strumento protagonista, emancipato dalla sua funzione strettamente ritmica e istituito a pilastro di un’intera estetica, tecnologia, filosofia e religione delle basse frequenze. Jafa sottopone il soul alla decodificazione apocrifa giamaicana per connetterlo a un’eredità trasversale e diasporica che dall’Africa passa per la Giamaica, Londra, la New York di Larry Levan e Afrika Bambaataa, la Houston di Screw, arriva fino al footwork per poi tornare in Africa.
Il piacere del suono come onda che ci attraversa e scuote le viscere materializza quello stato di estasi evocato da AGHDRA come immanente a una profonda malinconia, riaprendo il cerchio mai chiuso da quest’opera dalla natura ciclica, in cui senso e sensi si implicano l’un l’altro senza soluzione di continuità.
Il “materialismo delle basse frequenze” – termine coniato da Steve Goodman in Sonic Warfare: Sound, Affect and the Ecology of Fear e più recentemente ripreso da Brian D’Aquino nel suo Black Noise: Tecnologie della diaspora sonora– di AGHDRA afferma che al fondo oscuro di tutti i possibili significati c’è il “nonsenso profondo del corpo” (Gilles Deleuze, Logica del senso), che registra sensazioni e affetti al di là del linguaggio, e che la musica fa risuonare sulle sue lunghezza d’onda. Jafa trasforma il Binario 1 in un’enorme cassa di risonanza: l’esoscheletro industriale delle OGR vibra ininterrottamente. Lamiere e tombini diventano generatori di ronzii e sovratoni acuti che fanno da contrappunto ai bassi profondissimi. E poi siamo noi spettatric3 a vibrare. L’economia affettiva messa in circolo da AGHDRA attraverso la componente materica del suono opera direttamente sul corpo, e lascia me e l3 mi3 amic3 con la sensazione di un coinvolgimento erotico con lo spazio che abbiamo condiviso. È una riattivazione libidinale che riaccende la speranza attraverso il godimento propriocettivo. Il piacere del suono come onda che ci attraversa e scuote le viscere materializza quello stato di estasi evocato da AGHDRA come immanente a una profonda malinconia, riaprendo il cerchio mai chiuso da quest’opera dalla natura ciclica, in cui senso e sensi si implicano l’un l’altro senza soluzione di continuità. Partecipare alla visione di Arthur Jafa significa lasciarsi trascinare “in una complicata danza con l’idea che l’espressione nera tende all’indicibile” (Simone White), una sublime ballata afropessimista trasmessa sulle frequenze del corpo.