Q uando uscì I quindicimila passi – era il 2002 –, il suo autore, Vitaliano Trevisan (si legge Trevisàn), si trovava in Kenya a masticare foglie di qat. Con l’ansia di dover tornare a casa, prima o poi: “nel mio delirio, iniziato ben prima di partire, mi ero convinto che non sarei tornato”. Il testo di Works (2016; ed. ampliata 2022) lo esprime con la massima chiarezza: il rientro in Italia è la morte, l’Africa è la vita; casa sua una cripta in attesa del feretro, la stanza in affitto a Mombasa una promessa di felicità. E tutto ciò sebbene il rientro coincidesse, allora, dopo decenni di lavori vari ed eventuali, e faux pas, intoppi e false partenze puntualmente e magnificamente raccontati nell’autobiografico Works, con l’inizio a lungo atteso della sua “seconda vita” di scrittore e drammaturgo a pieno titolo.
Poco tempo fa – vent’anni dopo – è uscito il racconto di una sua ulteriore “fuga in Africa”, il cui manoscritto, incompiuto, è stato consegnato dall’autore alla casa editrice prima del suicidio, avvenuto il 7 gennaio dello scorso anno nella sua casa a Crespadoro, in provincia di Vicenza. È il postumo Black Tulips, resoconto di un’esperienza in Nigeria risalente al periodo in cui, poco prima del successo letterario, Trevisan lavorava come portiere di notte. Immaginando di mettere su un import-export di pezzi usati di ricambio per automobili, e forte della sua esperienza diretta delle comunità edo e igbo in Veneto, conosciute tramite la sua regolare frequentazione di prostitute nigeriane, Trevisan, come racconta nel libro, si era recato prima a Lagos e poi a Benin City (da cui proverrebbe l’85% delle prostitute nigeriane in Italia) per seguire Ade, rimpatriata perché clandestina.
Avventore dei bassifondi, antipuritano, immoralista, emarginato e dunque vicino agli emarginati cosiddetti, nel suo ultimo libro Trevisan, Céline nostrano, non fa mistero di avere in odio l’ipocrisia, la pubblica morale e un’ideologia “progressista, umanitaria e corretta”, che sulla prostituta e chi la frequenta impongono il loro stigma. Ma soprattutto Black Tulips tenta di mostrare lo scopo del viaggio: vedere con i propri occhi, questa l’espressione ripetutagli dalle ragazze frequentate. Vedere con i suoi occhi e comprendere, e mettere in discussione il suo sguardo da oyibo, da non indigeno, che è quasi inevitabilmente anche quello del lettore – “Ed era proprio questo a darmi fastidio: sentirmi bianco oltre il colore della pelle, cioè rispondere effettivamente, intimamente, a quell’inesorabile epiteto, oyibo”. Liberarsi, dunque, del proprio punto di vista imposto, che è “un occhiale eminentemente economico, di mercato”, e al contempo “lentissimissimamente re-imparare a sentire”. E idealmente rinunciare alla letteratura, già che c’è, à la Rimbaud. C’era un modo migliore per congedarsi dal mondo, e dalle lettere, che con un libro come questo?
Un destino
Idealmente, Black Tulips riempie uno dei vuoti di Works, che d’altro canto non è che un’“autobiografia selettiva”, come l’ha definita Paolo Zublena, perché incentrata sui molteplici lavori svolti da Trevisan prima dei riconoscimenti letterari. Entrambi rientrano in quella che è stata chiamata la “svolta autobiografica” della sua produzione. Non che elementi marcatamente biografici mancassero nei primi romanzi (la “pseudo-trilogia” bernhardiana di Un mondo meraviglioso, 1996, I quindicimila passi e Il ponte, 2007), anzi: li ritroviamo pressoché immutati, soltanto riscritti, nei libri successivi. (Né erano assenti anche nel personaggio da lui scritto e interpretato per Primo amore di Matteo Garrone, suo sconcertante esordio cinematografico, che fin dal titolo – beckettiano – tradisce la mano di Trevisan).
Si tratta piuttosto di un alleggerimento stilistico, uno smarcarsi dai propri modelli. Ora Trevisan, quando parla di sé, non deve più “inventare” o “affabulare”, quanto mettere insieme i ricordi, trovare una loro espressione in termini di racconto, il che costringe a un lavoro essenzialmente stilistico. E lo stile è sempre, nel senso più alto, contenuto, perché è innanzitutto espressione di sé. Si fa perfetto proprio là dove in apparenza la materia, il contenuto cosiddetto, ha meno a che fare con la poiesi, la creatività e, peggio di tutto, la fantasia, ma è solo, in senso assoluto, arte del raccontare. È proprio in questi testi che si coglie la natura più intima dello scrittore Trevisan – il suo ego scriptor, per dirla con Pound e Valéry. La vita dello scrittore è già letteratura, perché chi scrive non può fare a meno, vivendo, di pensarla in termini di letterarietà.
Addirittura, la vita dell’autore, scrive Trevisan in Black Tulips, dichiarando (per l’ennesima volta) i suoi modelli – dalla trimurti Bernhard-Beckett-Bacon ai vari Tennessee Williams, Joe Orton, Rainer Werner Fassbinder, William Burroughs –, “non è mai altro dall’opera”, anzi, “vivere o scrivere […], per chi scrive, è lo stesso”. L’uno si tramuta nell’altro, l’uno esiste solo in funzione dell’altro.
È il gioco sull’ambiguità semantica contenuto nel titolo Works, come spesso osservato: l’odissea nel “mondo del lavoro” compiuta dall’autore, sì, ma anche il primato delle opere (letterarie, e non solo). Da un lato, il mémoire si pone contro l’“ansia di realizzazione di se stessi attraverso il lavoro” – la “fede nel lavoro” assunta a religione pubblica, come se questo avesse un potere salvifico o quantomeno “valorizzante”, da tappabuchi esistenziale (quale altro senso di “realizzare se stessi”, ossia di “rendersi reali”, se la maggior parte delle persone, quando sono prive di occupazione, nutrono dubbi sulla propria esistenza?). Dall’altro, non tace la gioia del lavoro ben fatto – le “scaled invention” e “true artistry” poundiane – né il fatto che, alla fine, contano (e restano) solo le opere prodotte, di cui Works è la summa e il commento. Perché mai come in Works, e in Black Tulips, si percepisce la sua consapevolezza di essere uno scrittore.
Works è l’opera monumentale, dunque, che racconta il lungo apprendistato di uno scrittore per diventare ciò che egli è.
Domandandosi come si è salvato dall’eroina (“Inevitabile questione generazionale”, per un nato nel 1960 che, come nel suo caso, non è stato estraneo alle droghe), si risponde che forse a salvarlo fu proprio la scrittura – o meglio, siccome al tempo non scriveva nulla, l’idea di poterne, un giorno, scrivere, coltivando nell’attesa il malinconico “occhio […] del corrispondente”, dell’osservatore, che vive guardandosi vivere. Per questo, le quasi settecento pagine di Works sono attraversate dalla consapevolezza di una vocazione, o di un destino, che l’ha tenuto vivo attraverso, e nonostante, i diversi lavori, l’alienazione, i fallimenti (“Scrivo, e ho l’impressione che questo sia per sé un destino”, ammetteva già in uno degli essais di Tristissimi giardini, 2010, chiosando: “A ciascuno il suo contagocce”). Works è l’opera monumentale, dunque, che racconta il lungo apprendistato di uno scrittore per diventare ciò che egli è, quasi parafrasando Nietzsche (e non solo, come ha detto il suo autore, un tentativo di “fare soldi sul proprio fallimento”).
Anche “se non scrivevo una riga, né tenevo un diario o altro, ero pur sempre uno scrittore, e, in questo senso, niente di ciò che avevo fin lì vissuto era stato buttato via, semmai il contrario”. Un’idea in cui rifugiarsi “quando non restava altro”, di fronte a decenni di delusioni, arresti, crisi, tracolli, passi falsi, separazioni, perdite. “Certo, prima o poi avrei dovuto iniziare a scrivere, ma rimandavo. Meglio vivere un altro po’, mi dicevo, perché quando inizierò a scrivere, se dovessi fallire, allora sì che non avrò alcun posto dove rifugiarmi”. Iniziare, finalmente, a scrivere significa non avere più scuse né alibi: “una volta iniziato, non mi sarebbe stato possibile tornare indietro”. Come poi, nei fatti, è stato.
Un conto in sospeso con la morte
Se già Works, con la sua relativa linearità e la struttura tematica, costituiva un’innovazione considerevole rispetto agli esordi nel solco di Thomas Bernhard, c’è in Black Tulips un ulteriore scarto, questa volta ai limiti dello sperimentalismo (complice anche, forse, la sua natura incompiuta e preliminare). Lo compongono “frantumi e frammenti” giustapposti e inanellati, talvolta solo note e abbozzi, scarni, sincopati. Ed è fortissima l’impostazione intermediale dello scritto: il ritmo è mutuato dagli studi di batteria dell’autore; le pause drammaturgiche dei dialoghi vengono dalla sua esperienza teatrale; la necessità di ribadire che la storia è in “bianco e nero”, eccetto per selezionate note di colore puntualmente segnalate, dimostra una sviluppata sensibilità cinematografica, oltre che uno sguardo “fotografico” e sempre meno narrativo – lontanissimo, in questo senso, dalla diegesi assoluta dei romanzi bernhardiani.
Agli antipodi, oltretutto, rispetto alle complicazioni sintattiche e alla lingua “neutra” di prima, troviamo qui – come già in Works – espressioni forèste (fin dai titoli) e addirittura nel pidgin nigeriano, nonché nell’argot veneto dell’autore (solo idioma in cui dicesse di sentirsi a casa); e altresì una semplificazione della sintassi e della grammatica che va in direzione della loro rottura, anche a costo di esiti strampalati, “primitivi”: “non sono io (in negativo odiato pronome posso scrivere)”, o “umani stanco in vita, da morto lasciato in pace vorrei essere lasciato non essere. In pace”.
Sulla dipendenza dei primi lavori da Thomas Bernhard si è detto molto, il debito è talmente evidente da costringere alla domanda: è un omaggio? un plagio? un’imitazione? un apocrifo cisalpino?
Il tutto in un movimento verso il puro cuore espressivo, e selvaggio, della lingua, anche graficamente parlando, che corrisponde alla semplificazione assoluta di sé, a un alleggerimento dalle sovrastrutture psichiche e culturali: “Dovrei continuare da dove ho lasciato. Ma chi lo dice? Non Io (eco beckettiana); Io non sono; non più Io; mai più Io. Non dopo ciò che ho scritto. Per come l’ho scritto”. Il risultato è a tratti allucinato e delirante, ma niente affatto insensato, pensando al percorso letterario compiuto da Trevisan, che qui si vuole ricordare.
Sulla dipendenza dei primi lavori da Thomas Bernhard si è detto molto, anche perché, per chi conosce quest’ultimo e si avvicina a Trevisan, il debito è talmente evidente da costringere alla domanda: è un omaggio? un plagio? un’imitazione? un apocrifo cisalpino? Dal nome del protagonista, Thomas, al discorso indiretto libero “riportato” (la cosiddetta berichtete Rede), con tanto di incisi diegetici con verba dicendi e altre simili strategie enunciative, fino al personaggio alienato, incatenato al proprio soliloquio: tutto sembra un pastiche di Bernhard.
E tutto, come in Bernhard, avviene all’ombra della morte di qualcuno, annunciata o implicata fin dalle prime righe, dove il narratore, colui che rimane, deve vivere, gestire, subire e soffrire le conseguenze dell’altrui scomparsa. A dimostrazione, nell”uno come nell’altro, dell’onnipotenza del pensiero della morte, che rompe qualsiasi difesa, rende incolmabile qualsiasi vuoto, vanifica ogni speranza di sopravvivenza autonoma. Nessun pensiero altro regge contro lo straripare del pensiero dell’assenza. E la scrittura si rivela allora per ciò che è: un tentativo di colmare l’abisso. Di riempire il silenzio, il “vuoto intollerabile” in cui siamo stati lasciati, con un flusso di parole che sia altrettanto incontenibile. Ma sono sempre parole che, nascendo dal pensiero della morte e dal vuoto, possono a malapena celarli. Prima o poi anche l’amuleto della scrittura viene meno; banalmente, il testo finisce, nell’uno e nell’altro, sulla constatazione della morte. Che ha così, letteralmente, l’ultima parola. Come scrive Trevisan ne Il ponte, “la scrittura ha sempre un conto in sospeso con la morte”. Ed è questo l’aspetto che rimane certamente fino alla fine, ossia fino a Black Tulips.
Su questa dipendenza si è, appunto, scritto di tutto – chi lodando l’“epigonismo radicale” di Trevisan come “segno paradossale di libertà inventiva” (Emanuele Trevi), chi stroncandolo perché “calco […] stucchevole” e “imitazione dell’altrui nichilismo” (Franco Cordelli – il quale, anni più tardi, però, gli riconobbe di essere maturato, liberandosi da questa “ipoteca stilistica”). Zublena ha definito quella del Thomas di Trevisan come un’“esistenza mancata”, un caso di “ventriloquia” del Bernhard di cui porta il nome: il personaggio pensa, scrive e racconta come lo scrittore austriaco perché – e questo nei testi è esplicito – è da lui ossessionato ai limiti della mitomania, finendo per essere “agito dalla voce di Bernhard”.
L’attenzione a Thomas Bernhard ha spesso distolto lo sguardo da ciò che quei romanzi dicevano per concentrarsi sulla maniera in cui lo dicevano.
Trevisan è reticente, perlopiù. Da un lato, ammette, per raccontare il suo Veneto e in particolare Vicenza era richiesta una voce come quella di Bernhard, scoperta letteraria per lui tardiva e fondamentale, che gli permise di accelerare il processo che portò al fatidico inizio della scrittura. Vuoi per la vicinanza geografica e culturale del Triveneto all’Austria, vuoi per un ruolo storico di punto di contatto tra il Mediterraneo e l’Europa centrale e settentrionale. Anche Zanzotto, visto dal centro del Paese, era stato tacciato di essere un epigono, un imitatore tardivo, in ogni caso un provinciale (che, nel migliore dei casi, altro non può essere che un epigono o un imitatore, se visto dal centro), quando in realtà nei suoi testi risuonava l’eco di Hölderlin verso un Nord mitico cui, naturalmente, il Veneto tende. Dall’altro, in realtà, Trevisan se ne fregava, forte del fatto che l’opera d’arte è sempre, in qualche modo, imitativa. “Le mie letture sono finalizzate al furto”, disse in occasione del quarantesimo anniversario di Libera nos a Malo.
Mal de ła piera
Come che sia, l’attenzione a Thomas Bernhard ha spesso distolto lo sguardo da ciò che quei romanzi dicevano per concentrarsi sulla maniera in cui lo dicevano. E da altri modelli, meno palesi, ma non per questo irrilevanti. Come Le furie di Guido Piovene, che è a sua volta il resoconto di una passeggiata vicentina alla mercé dei propri fantasmi. E che nelle prime pagine contiene un’indicazione di metodo essenziale anche per Trevisan: “prendere rilievi come un geometra. È tempo di visioni, ma vere, che siano ragione. Chi non è visionario forse non si potrà salvare. I nostri incubi quotidiani appartengono al regno bruciato della verità. Dobbiamo accettare questo terreno”.
Perito geometra che per anni ha lavorato, a vario titolo, alla trasformazione industriale del suo territorio, Trevisan è stato anche uno dei più lucidi osservatori e commentatori di questa trasformazione. Ciò che rivendicava alla propria letteratura era la rappresentazione del paesaggio introiettato nella psiche dell’individuo, che riorganizza in base alla propria logica il pensiero di chi lo abita. Nel suo caso, si tratta di un paesaggio – quello del cosiddetto Nord-Est – deturpato, disfatto, inquinato, ricoperto di capannoni, fabbrichette, quartieri residenziali simili a dormitori, zone industriali abbandonate, statali, tangenziali, superstrade. Ci sarebbe molto da dire sul fatto che I quindicimila passi si apra con un esergo dalla Grundrisse: “Ma l’epoca che genera questo modo di vedere, il modo di vedere dell’individuo isolato, è proprio l”epoca dei rapporti sociali finora più sviluppati”.
Thomas, ne I quindicimila passi, percorre a piedi “in lungo e in largo il bosco di roveri – bosco che non esiste più da centinaia di anni”, trasformato prima in campagna e poi in quella che altrove Trevisan chiama “periferia diffusa”: “una campagna nebbiosa che non è altro che il confuso ricordo di una campagna, distrutta dalle zone artigianali e residenziali”. La città, oramai, “non è più che un paesaggio fantomatico, fossile di società ormai trascorse”: chi la abita spesso non ha più nulla a che vedere con chi l’ha costruita e abitata, né per sangue, né per cultura, il che crea una distanza irriducibile con la scenografia inutile e muta in cui si muove – castelli e palazzi nobiliari senza nobili, chiese senza fedeli, eccetera. Già per Piovene, all’epoca del Viaggio in Italia, gli abitanti dei cosiddetti centri storici assomigliavano a “ospiti occasionali, senza storia, su un fondale storico” che non sapevano più leggere, figuriamoci interpretare. La vera creazione dell’uomo contemporaneo, parco di monumenti, è la periferia, che è anche l’unica parte della città che può espandersi. Il destino di ogni centro, così, è quello di venire presto o tardi inglobato non già da altri centri, ma da un’immane anonima periferia, acefala o autocefala che sia. Fenomeno, questo, che nel Veneto centrale, ma nel Nord-Est in generale, è paurosamente evidente (“a un certo punto, non è più chiaro se il territorio in cui ci muoviamo sia la periferia di Vicenza, o non piuttosto la periferia di Padova, o di Treviso, o di Verona, o di Bassano”). E così un paese come quello dell’autore, Cavazzale, si ritrova tutt’a un tratto non più paese ma periferia.
Tutta questa distesa d’asfalto – è ovvio – è funzionale allo spirito del tempo, ossia la mobilità delle merci, quindi della forza lavoro, quindi dei consumatori. Una logica, scrive Trevisan, che ha asservito il territorio, rendendolo perennemente intasato, congestionato (la congestione, l’autore lo ripete continuamente, è la condizione necessaria e al tempo stesso l’effetto più tangibile della logica del consumo), senza più possibilità di riscrittura del disco fisso dalla “pattumiera urbanistico-architettonica” in cui si è trasformato, “che ci assorda e ci squilibra non appena mettiamo il naso fuori di casa”. Tutto ciò in Veneto ha un nome specifico: è il mal de ła piera, l’ossessione isterica per la costruzione, l’edificazione, la trasformazione del territorio. Una storia che leggiamo tra le righe di Works: sullo sfondo di lavori innumeri ed effimeri, la palude viene prosciugata, scompare il canneto dietro il magazzino, il pesce del fiume non si può più pescare, la sua acqua ha cambiato colore.
Quello che Trevisan, di provincia e di umili origini, rimproverava, tra le altre cose, agli intellettuali, perlopiù romanocentrici e borghesi o piccoloborghesi, era l’ossessione per una fantomatica Realtà che, a sua detta, non conoscevano affatto.
I testi raccolti in Tristissimi giardini sono introdotti da un versetto di Isaia (5, 8): “Guai a voi che aggiungete casa a casa / e poderi a poderi / fino a che c”è spazio! / Vi starete voi soltanto / sulla terra?”. A un goffo intervistatore, Trevisan, che credeva non in Dio ma “nel peccato, imperdonabile, di essere venuto al mondo”, ricordava il proseguimento del testo biblico: la collera del Signore farà pascoli di queste costruzioni, prima della venuta di popoli stranieri. Lo scrittore e drammaturgo assume i panni del profeta, la cui simpatia è tutta per i nuovi barbari.
Sarà che Goffredo Parise, in un momento panico sulle rive del Piave, aveva scritto che il “Veneto era, ed è, forte, barbaro, e dunque produttivo e dunque industriale”, tesi ripresa da Trevisan in Tristissimi giardini per affermare che i Veneti, barbari per natura e “nati […] per distruggere, distruggono costruendo”. Il vero volto dell’industrialismo e dell’operosità da barzelletta non sarebbe allora la produzione, ma la distruzione cieca. E Trevisan – benché, nella fase bernhardiana, Nestbeschmutzer (letteralmente, “uno che insozza il proprio nido”) – non nasconde, in ciò, un certo orgoglio di appartenenza (né lo nascondeva Parise), riconoscendosi barbaro a sua volta. Il fatto che egli, in quanto scrittore, “si limiti a distruggere il mondo sulla carta, battendo sui tasti di un portatile, anziché distruggerlo manovrando una macchina escavatrice o una betoniera, non fa una gran differenza”.
Rovina delle rovine, crollo nel crollo
L’idea alla base – “quella più importante, fondamentale, […] l’idea non detta, forse addirittura non pensata, ma ovvia, necessaria, presente anche in assenza” – è l’idea che il territorio sia, ancor peggio che nel versetto di Isaia, “frazionabile ed edificabile e in definitiva sfruttabile all’infinito”. È la forma della follia contemporanea, il vero volto della “legge del consumo, […] rovina delle rovine, crollo nel crollo” (Il ponte), in cui ognuno è vittima e complice. Come scriveva Zanzotto, “In questo progresso scorsoio, / non so se vengo ingoiato / o se ingoio”. Perché quel che è peggio è che tutto questo è avvenuto non per ukase ma per volere della gente. Lo scempio è stato fatto, scrive Trevisan in Tristissimi giardini, “nel modo più opportuno a soddisfare le esigenze della comunità”. Che chi ha così “dis-ordinato” il territorio lo abbia “insieme difeso dalle deturpazioni e dagli inquinamenti, su questo ho dei seri, anzi serissimi, dubbi; e se l’avesse difeso, non avrebbe probabilmente soddisfatto le esigenze della comunità”.
Quello che Trevisan, di provincia e di umili origini, rimproverava, tra le altre cose, agli intellettuali, perlopiù romanocentrici e borghesi o piccoloborghesi, era l’ossessione per una fantomatica Realtà che, a sua detta, non conoscevano affatto. Viene in mente un romanzo di Dag Solstad, Tentativo di descrivere l’impenetrabile: un architetto affermato, che da giovane ha contribuito alla costruzione di un quartiere operaio su modelli utopici e ideologici e perciò falsati e paternalistici, in piena crisi di maturità decide di lasciare la famiglia per trasferirsi nella cittadella proletaria a cui al tempo della rimpianta giovinezza aveva lavorato, pieno di teoria e buoni sentimenti. Solo per scoprire che ai suoi operai (ormai sempre meno operai) del teatro di comunità e degli spazi pubblici non importa nulla: vogliono la parete di casa più ampia per uno schermo televisivo gigante, e più spazio per parcheggiare le auto costose su cui spendono tutto. I colleghi di cui racconta Trevisan in Works non sono da meno: il sabato sera corrono in strada verso i discobar di provincia, cercano i paradisi artificiali, risparmiano per fare i turisti sessuali a Cuba o in Thailandia. Sono i figli della società dei consumi, né più né meno della borghesia minima che ha reso l’Occidente a propria immagine e somiglianza, se non che questa avanza persino pretese morali.
Ma entrambi sono vittime e responsabili al tempo stesso di quel “crollo totale di tutti i valori” di cui Trevisan parla ne Il ponte: la “sostituzione dei vecchi falsi valori con valori d’importazione, essenzialmente americana, altrettanto falsi, ma ben più potenti, perché avanzanti di pari passo a una violenta omologazione industriale che distruggeva e annientava, come ancora oggi distrugge e annienta, ogni cultura particolare”, e tutto in nome di una libertà e di diritti esportabili, perché prodotto a loro volta, che sempre più si rivelano per ciò che nascondono, o meglio sottintendono, ossia “il dovere di comprare e consumare”, che non ammette dissenso.
È ovvia, in questi discorsi di Trevisan, la presenza di Pasolini, a cui l’autore si appoggia per raccontare le conseguenze del “brusco passaggio” dalla civiltà umanistico-agraria a quella tecnico-industriale, quella, insomma, dei palazzi vuoti e degli ex-contadini uniformati, senza terra, senza cultura, senza storia – vuoto che si riempie (e si vende) con (e come) uno “spazio di mercato”. Ma Pasolini poteva dire di preferire le lucciole alla Montedison, fantasticando su un mondo rurale di cui, in definitiva, sapeva poco (in ogni caso, viveva lontano). Zanzotto poteva sperare che il progresso cosiddetto risparmiasse, dimenticandola, la sua contrada. Ferdinando Camon può raccontare la fine della millenaria civiltà contadina, fatto epocale e senza precedenti, con lo sguardo del testimone diretto, del superstite. Trevisan, invece, è totalmente “postumo”. È nato troppo tardi per conoscere una civiltà che non sia quella dei consumi. Come scrive nel suo ultimo, amarissimo testo, Dove tutto ebbe inizio, pubblicato in coda all’edizione ampliata di Works:
Il mio territorio, di cui ho vissuto la trasformazione, è ormai irriconoscibile. Non posso però dire di essere “spaesato”; al contrario: è una trasformazione che ho vissuto, a cui, vivendo e lavorando qui, ho fattivamente contribuito, cosa del resto inevitabile. Il fatto è che “il prima” è durato troppo poco per fissarsi come parametro definitivo. Così è per i nati nel periodo del cosiddetto boom economico, a prescindere dalla loro classe sociale. Il Veneto rurale è per me il ricordo di un ricordo, qualcosa che è passato attraverso i miei genitori, ma che non ho mai davvero vissuto. Credo valga per tutta la mia generazione. Grande differenza, rispetto ai nati prima e durante la guerra. Il primo carro armato americano con la stella, e poi il dopo, il lungo dopo, fino a oggi […]. Io, noi, siamo quelli del lungo dopo fino a oggi. E per tutto il dopo la betoniera non si è mai fermata. I marchi politici sono cambiati, esplosi rottamati e svenduti come tutto il resto.
From the wreckage of Europe
Cosa resta, quando tutto è un marchio, un prodotto, persino la letteratura, persino la natura, persino la qualità, persino il valore? E ci si può stupire che, per il Thomas bernhardiano di Trevisan, l’effetto psichico di siffatto territorio sia il pensiero costante del suicidio, costretto com’è a vivere “pensando di continuo alla morte” in un “raffinato esercizio di equilibrismo” tra il disgusto della vita e la paura dell’estinzione? Pensieri che non risparmiavano, né hanno di fatto risparmiato, l’autore, che temeva di essere “imbalsamato” in vita come Meneghello e Zanzotto e ammirava invece la coerenza di Carlo Michelstaedter e Stig Dagerman, pur temendo di essere in ritardo, ormai, per un suicidio all’apice del successo, e in ogni caso in Works scrive: “che nessuno mi inviti a ballare perché io non ballo. Il pensiero della morte è un bravo ballerino e sono già impegnato a vita con lui”.
Il citato – e sconsolante – Dove tutto ebbe inizio, che sembra consegnarci i pensieri dell’autore nell’ultimo periodo, non lascia margine di interpretazione:
l’unica possibile via d’uscita è prendere in mano la situazione di merda e stringere il nodo subito, senza por tempo in mezzo. O così, o rassegnarsi ad aspettare, con gli altri, che esso si stringa da sé, così che un giorno, in un bar che frequentiamo di sfuggita, […] qualcuno dirà: È morto; e qualcun altro chiederà, De cosa?; e il primo risponderà con un’altra domanda, De cosa vuto che ’l sia morto? e tutto sarà chiaro. Se fosse stato un infarto, o qualsiasi altra cosa, l”avrebbe detto. Ma da queste parti è più probabile che la fine arrivi in forma di domanda retorica.
Se mi si perdona l’impudenza, si direbbe che Trevisan avesse previsto esattamente ciò che la maggioranza dei giornali e delle testimonianze hanno effettivamente scritto e detto dopo il 7 gennaio 2022. Sottintendendo, dando per scontato. Come a dire, appunto: De cossa volío che ’l sia morto?
Ma vorrei tornare a Black Tulips, al sogno – o all’allucinazione – d’Africa. Il quale, rispetto al commiato di Dove tutto ebbe inizio, spicca ancora di più nella sua leggerezza. Certo, è un sogno antico, scontato, trito, probabilmente fallace, e in questo più un’allucinazione, di cui fu succube, fra i tanti, persino Leni Riefenstahl. Mutatis mutandis, è la stessa tentazione delle borgate di Pasolini, degli esperimenti con l’India o con le isole iperboree di Manganelli, di Michel Leiris, non per nulla qui spesso citato. La ricerca, insomma, di un mondo se non del tutto incontaminato quantomeno ancora “autentico”, violento, puro, preindustriale, premoderno, originario, non assimilato e, idealmente, non assimilabile. “Orientalismi”, appunto, lo scrive lo stesso Trevisan: “Impossibile sfuggirvi”, in quanto oyibo.
Così si possono leggere le dicotomie, tutte note, che si susseguono in Black Tulips: la spontaneità e la fluidità dell’indigeno e dei suoi movimenti, da un lato, e l’artificialità e la pesantezza dell’oyibo, dall’altro; il nostro senso del tempo cronometrato e pianificabile, fatto di attese e scadenze e votato alla funzionalità, e il loro senso del tempo dilatato, imprevedibile, ingovernato; la loro abitudine e familiarità con la violenza e con la morte e la nostra presunta e nevrotica estraneità alla violenza e alla morte. Il mito, in altre parole, dell’assenza di rimozione. E la ricerca di regressione, o di alleggerimento quantomeno.
Ma Black Tulips è anche un testo che nasce da una genuina curiosità, e vicinanza ideale, e persino sincero amore dell’autore per questa periferia globale verso cui si sposta dalla sua, ormai irrecuperabile, periferia municipale e nazionale. A un mondo in cui non c’è più niente da salvare e che, se preso seriamente, rischia di condurre all’unica conseguenza logica, ossia il rifiuto categorico dell’esistenza, Trevisan ha voluto in ultimo opporre il sogno di un viaggio, per quanto bolso e letterario, nell’Africa “più vecchia e più giovane insieme” dell’Europa alle prese con la sua autodigestione, accompagnato da una serie di vivissime beatrici – Ade, Gloria, Chika, Hellen, Isegwe. Viene in mente il Canto LXXVI di Ezra Pound: “As a lone ant from a broken ant-hill / from the wreckage of Europe, ego scriptor” (Come una formica sola da un formicaio infranto / dal relitto d’Europa, ego scriptor).
Ed è un sogno incompiuto, oltretutto, che si interrompe sul più bello. Come tutti i sogni, peraltro, e come moltissime delle opere architettoniche che Trevisan ammirava e che riempiono la periferia diffusa del suo Nord-Est. Black Tulips si interrompe poco dopo l’arrivo a Benin City. Questa volta non c’è ritorno in Italia. La parabola dello scrittore Trevisan termina là dov’era iniziata, alle porte della sua seconda vita, e però senza epilogo. Cossa volío che ’l sia capità? Consegnandoci, se vogliamo, un”estrema immagine sospesa dell’artista che sorride.