I
n Contro la sinistra neoliberale, ultimo libro della ex vice-presidentessa del partito tedesco die Linke Sahra Wagenknecht, il termine “valori” compare ben 139 volte. Si tratta pur sempre di un pamphlet politico (per quanto ponderoso), quindi il fatto che la questione valoriale assuma tanta importanza potrebbe non stupire. Se non fosse per il profilo peculiare dell’autrice, che invita da subito a domandarsi “quali” valori: Wagenknecht è una figura molto controversa in Germania per le sue opinioni sul tema dell’immigrazione, e il suo volume si presenta come un’occasione buona per tentare di mettere ordine nel compasso politico, strumento che sembra ormai poco utile in tempi quanto mai confusi – tra improbabili teorie del ferro di cavallo e figure chimeriche come rossobruni e anarcocapitalisti. L’accusa di rossobrunismo, come si direbbe nel contesto italiano, è stata rivolta anche a Wagenknecht da parte del suo partito: decisa a riportare al centro del discorso della sinistra gli interessi delle classi subalterne, ormai abbandonate in favore della tutela delle minoranze e dei diritti civili, le sue soluzioni ricordano quelle della destra sociale, più che della sinistra internazionalista.
Gli oppressi che le stanno a cuore non sono minoritari, rappresentano invece la maggioranza, composta dai lavoratori e dalla classe media impoveritasi e indebitatasi (“Ad avere la peggio, per colpa di un capitalismo globalizzato e senza regole, è soprattutto la cosiddetta gente comune”, scrive infatti). Proletariato e piccola borghesia, un tempo nemici nelle letture di classe, possono curiosamente incontrarsi nel suo appello elettorale grazie a due espedienti ideologici. Il primo, il più ovvio perché tipico del discorso sovranista, è l’interesse nazionale. Wagenknecht, con un qual certo rassegnato “realismo capitalista”, non vede alternative contro i mali del mercato e del flusso indiscriminato di capitale se non lo Stato-nazione, capace di fornire su semplice base “territoriale” (e quindi non etnica né religiosa o linguistica, almeno secondo lei) una comunanza di intenti e di cultura che permette una fiducia reciproca ben riposta. “Senza una certa dose di vincoli e valori condivisi non esiste alcuna res publica”, scrive infatti, Fidarsi dei membri di una qualche comunità, in qualunque modo essa sia definita, più che di chi non le appartiene non è una maniera di agire irrazionale, ma un atteggiamento preservatosi per secoli e secoli. L’identità comune poggia su narrazioni condivise, che determinano valori, norme e regole di comportamento. Il valore di molti costumi e di molte tradizioni consiste proprio nel fatto di trasmettere un senso di comunità e appartenenza e di creare sentimenti di lealtà reciproca. Tanto più ci sentiamo legati gli uni agli altri, tanto più alta è la soglia di inibizione nel truffare il nostro prossimo. E proprio questo crea una buona base per la fiducia reciproca.
Sono dunque i valori condivisi a suo avviso il fondamento su cui si può sviluppare quella solidarietà tipica di comunità prospere, eque e operose. In questo elenco di virtù, la più importante è proprio quest’ultima, l’operosità. Perché il secondo espediente capace di accomunare borghesia e proletariato nella retorica di Wagenknecht è l’utilità sociale, l’essere necessari alla riproduzione dello status quo. Wagenknecht la chiama in molti modi: meritocrazia, obblighi, fatica, disciplina… è un discorso che si fonda su quello che era stato un grande collante per la lotta di classe quando l’occidente era in fase di industrializzazione: l’orgoglio della classe operaia nasceva dalla convinzione di essere il motore di un sistema che non le corrispondeva quanto dovuto. Lo sfruttamento di classe si esprimeva sotto forma di lavoro non retribuito, da cui derivava il profitto del capitalista. I proletari lavoravano, mentre i padroni erano dei parassiti che vivevano sulle loro spalle.
Nel panorama tratteggiato da Wagenknecht i parassiti sono oggi invece gli immigrati, ma anche e soprattutto una nuova categoria, quella dei “presuntuosi” del titolo originale tedesco (Die Selbstgerechten): i laureati dei centri urbani, privilegiati o aspiranti tali, che rappresentano l’elettorato di quella che chiama “sinistra alla moda”. Il suo elettore tipo “è cosmopolita e ovviamente a favore dell’Europa (…). Si preoccupa per il clima e si impegna in favore dell’emancipazione, dell’immigrazione e delle minoranze sessuali”. Preoccupazioni che può concedersi, secondo Wagenknecht, soltanto chi è privilegiato e si è comprato i nuovi (dis)valori neoliberali: Di solito la sinistra alla moda apprezza l’autonomia e l’autorealizzazione del singolo più che la tradizione e la comunità. Valori tramandati come l’impegno, la diligenza e la fatica vengono invece vissuti come qualcosa di superato. Ciò vale soprattutto per la generazione più recente, che viene accompagnata nella vita dai cosiddetti “genitori elicottero”, di solito abbienti e premurosi, con tale dolcezza da ignorare le paure sociali ed esistenziali e la pressione che ne deriva. Il piccolo gruzzoletto di papà e le relazioni di mamma danno quantomeno la sicurezza sufficiente per poter affrontare tirocini gratuiti di lunga durata e fiaschi professionali.
Quella che era un tempo una cesura di classe, che tagliava verticalmente la società, si spalma orizzontalmente nella lettura di Wagenknecht, diventa una differenza principalmente geografica: la distinzione non è più tra sopra e sotto, ma tra dentro e fuori, tra vicino e lontano. Il nemico è “spaziale” e non più “temporale” come poteva esserlo nella lettura marxiana dello sfruttamento: il nemico viene da “dentro” (il cuore delle città, il centro storico, dove peraltro però vivono sempre più spesso migranti interni benestanti, spingendo in periferia gli abitanti precedenti nella tipica dinamica della gentrificazione) o da “fuori” (leggi: fuori dai confini patri). È una mossa un po’ postmoderna, a livello concettuale, e a prima vista questo spostamento è abbastanza sorprendente, visto che Wagenknecht tiene a presentarsi come “una forza del passato”, per dirla con Pasolini: al progressismo ipocrita e vanesio della sinistra liberale oppone un “conservatorismo illuminato”, e, oltre a invocare la chiusura delle frontiere, auspica una re-industrializzazione della Germania che punti a fondare il suo benessere sull’obiettivo dell’autarchia, piuttosto che sulle esportazioni come avviene ora. Se l’unico modo per pretendere reddito, tutele sociali e dignità è quella di essere necessari al funzionamento del sistema, del resto, bisogna ripristinare le condizioni di produzione nelle quali la classe operaia aveva ancora il coltello dalla parte del manico.
Sono i valori condivisi a suo avviso il fondamento su cui si può sviluppare quella solidarietà tipica di comunità prospere, eque e operose. In questo elenco di virtù, la più importante è proprio quest’ultima, l’operosità.
Eppure a ben guardare, se la Storia prosegue, anche chi si presenta come intenzionato a resistere al cambiamento e possibilmente a riportare indietro le lancette, non può che essere un prodotto del mondo in trasformazione da cui comunque proviene. Ed è così che, tra le righe, si svela un’affinità (nascosta proprio perché intima e profonda) tra il discorso di Wagenknecht (ma forse di tutti i sovranismi) e il modello neoliberale (o turbocapitalista, globalista che dir si voglia) a cui sostiene di opporsi. I punti che evidenziano questa affinità sono numerosi. Il primo è lo strumento retorico del vittimismo. Wagenknecht sostiene che la sinistra liberale sia moralista e pietista, e che fondi il suo privilegio sulla superiorità morale dicendosi molto empatica con le minoranze che sostiene di tutelare. Tuttavia anche l’autrice usa gli stessi argomenti per difendere le richieste dei lavoratori tedeschi, abbandonati dallo Stato che sembra preoccupato solo di accogliere migranti con i noti effetti di dumping salariale. Sarebbe questo fondato timore, sostiene, a spingere l’elettorato popolare verso destra, e non un presunto “razzismo”, che non è un peccato originale delle persone quanto l’effetto della perdita di sicurezze sociali. Quest’ultimo argomento potrebbe essere condivisibile e andare nella direzione di una critica radicale all’impostazione liberale della teoria dell’intersezionalità, incapace di rintracciare la comune radice sistemica dei famosi tre assi della discriminazione (razzismo, sessismo e classismo). Se non fosse che Wagenknecht stessa non riesce a unirli realmente sotto la lente dello scontro di classe, e prende sul serio uno dei tre assi dell’intersezionalità, quello del classismo, nello stesso modo in cui i suoi teorici criticano razzismo e sessismo: facendone cioè una questione di identità e di discriminazione. Il classismo diventa allora per lei, questo sì, il peccato originale spontaneo e connaturato alla sinistra neoliberale oggetto dei suoi strali. Porgendo interamente il fianco alla critica che i movimenti (in particolare quello femminista) facevano al “riduzionismo di classe” dei partiti comunisti del dopoguerra, Wagenknecht critica l’impostazione identitaria della sinistra neoliberale, ma a sua volta essenzializza e omogenizza l’identità di classe, che riappare nelle sue vesti classiche (principalmente maschile, bianca, e ormai inevitabilmente attempata). In questo non appare diversa dalle destre, ossessionate quanto la sinistra liberale dalla questione identitaria, come scrive Giorgia Serughetti in Il vento conservatore: La nuova politica dell’identità (…) rappresenta le istanze di gruppi maggioritari, che non chiedono di essere inclusi, ma di essere riconosciuti come l’unico “vero” popolo o nazione, e di escludere altri gruppi dal godimento di pari diritti civili, politici e sociali.
Un altro elemento che accomuna il discorso di Wagenknecht a quello neoliberale, soprattutto nelle sue vesti più autoritarie, è l’ossessione per i temi della sicurezza e della protezione: Le narrazioni hanno successo se rivestono i loro messaggi di parole positive. Se un paese permette agli investitori internazionali di acquisire le imprese locali e fare speculazione immobiliare, si può dire di essere aperti al mondo. Ci si potrebbe però anche definire indifesi. Il primo concetto è positivo e riflette il punto di vista dei vincitori, mentre il secondo rispecchia probabilmente lo stato d’animo dei vintiafferma. Da qui consegue secondo Wagenknecht non solo la necessità di impedire l’immigrazione, ma anche quella di istituire un welfare, come dicevamo sopra, meritocratico e di organizzare la società secondo un sistema prescrittivo e conservatore: Una società senza regole di appartenenza non può essere un rifugio. Laddove tutti possono entrare, non ci saranno nessuna coesione e nessun aiuto reciproco. E questo per un motivo molto pratico: ogni vero sistema di solidarietà deve necessariamente mantenere in un certo equilibrio il numero di quelli che pagano e il numero di quelli che ricevono, per non crollare. Di norma, tutto ciò si ottiene aprendo il sistema solo a una determinata cerchia di persone. Chi vi include potenzialmente l’umanità intera mette in conto la scomparsa dei sistemi di solidarietà che, nel mondo, offrono prestazioni sopra la media.Uno Stato sociale basato sulla prestazione effettiva dei lavoratori, scrive ostacola la povertà in maniera molto più efficace di quello odierno, ma non serve
soltanto per i poveri. È uno Stato sociale per la maggioranza e si collega anche ai suoi valori: in questo Stato sociale i diritti sono basati sul merito e non solo sui bisogni, e il suo compito non è solo ridurre la povertà, ma anche dare sicurezza sociale al ceto medio.Un tempo, scrive, lo stato sociale “corrispondeva ai diritti tradizionali della correttezza e della reciprocità, profondamente radicati in larghe fasce di popolazione. L’idea di Stato sociale dei liberali di sinistra (…) è poco popolare anche perché rompe con questi valori. Ci sono soltanto diritti e nessun dovere”, conclude, spingendo a domandarsi se viviamo nel medesimo sistema neoliberale, che nelle sue parole sembra un Bengodi di assistenzialismo. In ogni caso, il suo “antidoto” risponde a un calcolo economicista decisamente distante dal motto marxista “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. E sembra invece molto più simile alla logica del debito su cui si fondano gli equilibri europei, nei quali, anche grazie alla sovrapponibilità dei termini “debito” e “colpa” in lingua tedesca, “qualsiasi tipo di remissione del debito rappresenta un cattivo esempio morale”, come osservava l’economista Paul Krugman.
Come afferma ancora Serughetti, i partiti di destra ottengono consensi grazie alla promessa di proteggere le “maggioranze silenziose” dei loro paesi – ovvero la classe media e le classi lavoratrici – dai sentimenti di insicurezza, spaesamento e perdita indotti dalle dinamiche della globalizzazione. Non elaborano però, a questo fine, letture di classe né offrono ricette redistributive contro la crescita delle disuguaglianze. Piuttosto, fanno appello a status ascritti dalla nascita, capaci di provocare sentimenti larghi di appartenenza, come la nazionalità, la “razza”, la cultura o la religione. Si ergono a difesa dei “nativi” contro gli stranieri, e della famiglia eterosessuale contro nuovi modelli di vita affettiva. Si fanno interpreti, più che di programmi, di valori (…) spinge(ndo) sull’individualismo competitivo, sul mantra dell’efficienza, e spesso su politiche a vantaggio dei più ricchi, mentre rafforza le gerarchie di classe, genere, razza, religione”.
Concentrarsi su quest’ultimo punto, indignarsi e gridare al fascismo latente, in virtù di valori altri potrebbe però fare solo il suo gioco: Wagenknecht sa applicare il materialismo per decostruire i valori altrui in modo molto efficace (glissiamo sul fatto che non sappia farlo con i suoi). Si può invece criticare Wagenknecht sul piano molto prosaico della strategia, e constatare come la sua sia una proposta troppo modesta, un riformismo fuori tempo massimo, nel caso migliore. In quello peggiore, un’ennesima riprova del fatto che, come scrive Marco Spagnuolo, “l’opposizione tra sovranismo e neoliberismo non è che una tensione interna al secondo che è, al contrario della sua concezione ordinaria come ideologia monolitica, un campo plurale e ha differenti declinazioni, tra cui lo stesso sovranismo contemporaneo.”
È il “mantra dell’efficienza” a dimostrare come il discorso sovranista di Wagenknecht sia ancora tutto interno al sistema che pretende di criticare.
È proprio il “mantra dell’efficienza” di cui parla Serughetti, allora, a dimostrare come il discorso sovranista di Wagenknecht sia ancora tutto interno al sistema che pretende di criticare: la sua invocazione di un eroico sforzo sacrificale (degli operai un tempo, degli Onesti Cittadini Tedeschi oggi) ricorda troppo da vicino le (fallimentari) politiche di austerity che hanno piagato l’Europa negli ultimi vent’anni. Se è vero che il lavoro, e soprattutto il suo sfruttamento, è ancora il perno della questione, va compresa la sua trasformazione, e accusare di essere degli ”sbruffoncelli pigri” quella fascia di popolazione che si è semplicemente adeguata alla terziarizzazione occidentale postfordista magari anche con delle legittime aspettative di migliorare la propria condizione non farà riguadagnare voti alla sinistra radicale (come scrive proprio lei, “chi lotta per ritagliare dal suo scarso stipendio quanto basta per concedersi una vacanza all’anno, o deve vivere di una misera pensione dopo aver lavorato una vita intera, non apprezza molto che qualcuno a cui non è mai mancato nulla predichi la rinuncia.”) Le conquiste civili (in termini di libertà personali) che sono derivate dalla deindustrializzazione vanno comunque lette nella loro dialettica come qualcosa che pur essendo stato cooptato dalla logica neoliberista non ne era la causa diretta (senza contare che la delocalizzazione ha penalizzato i lavoratori di altri paesi, rendendo ancora più necessaria la creazione di un fronte di classe internazionalista).
Liquidare le richieste di libertà, autonomia e autodeterminazione come “lussi per privilegiati” (come erano quei laureati cosmopoliti che diedero origine alla New Left) e soprattutto come causa dello smantellamento delle tutele sul lavoro, è un ribaltamento della logica materialista. Per quanto accusi di idealismo e culturalismo la sinistra neoliberale, non si può non osservare come sia proprio Wagenknecht a cadere nell’errore prospettico che siano i valori e le ideologie (come quelli “individualistici e cosmopoliti” del suo obiettivo polemico), e non i rapporti sociali materiali a plasmare la storia: il problema dunque non sarebbe il restringersi degli spazi di autodeterminazione delle persone causato dallo smantellamento dei diritti e dei salari dei lavoratori, quanto la “narrazione” spocchiosa della sinistra neoliberale sulle classi popolari, i cui esponenti, per tutta risposta, “si sentono feriti quando la loro idea di felicità, ossia quella di vivere a lungo in un luogo familiare, di creare una famiglia tradizionale e di essere per i propri figli soprattutto un padre su cui fare affidamento o una buona madre, viene derisa perché superata e provinciale”. Se fosse vero che a determinare lo spostamento a destra dell’elettorato è stata la percezione di umiliazione di queste classi quando sono stati messi in discussione i suoi valori, verrebbe comunque da rispondere che la soluzione non può essere un aumento ma al massimo un’alleggerimento della norma sociale in termini di stili di vita e scelte personali. Che allora si tratta di promuovere semmai un progressismo illuminato (vale a dire non ottuso, normativo e impositivo nei confronti degli altri) piuttosto che un conservatorismo illuminato come quello da lei auspicato.
Come mi ha detto Emiliano Brancaccio, con cui ho discusso del libro e che ha approfondito queste questioni nel suo saggio Catastrofe o rivoluzione, Wagenknecht sembra fissata con l’idea che la classe lavoratrice tedesca si sentirebbe umiliata e offesa dai timidi venti di emancipazione sessuale e affettiva di questi anni. L’operoso lavoratore tedesco, in quest’ottica, soffrirebbe a causa del diffondersi di nuovi usi dei corpi e di nuove pratiche di vita relazionale, liberate dai canoni valoriali della famiglia tradizionale. Sarebbe questo il grande cruccio dell’operaio massa medio, da situare almeno sullo stesso piano della caduta della quota salari, del restringimento del welfare e degli ormai inarrivabili modelli di consumo delle classi dominanti. Se di questa ossessione visionaria di Wagenknecht si vuol proprio salvare qualcosa, vi è forse soltanto il banale legame causale materialista, che in tempi di crisi effettivamente costringe le classi subalterne a rifugiarsi negli schemi di sostentamento tipici delle vecchie relazioni familiari. Da qui, come è ovvio, deve venire anche qualche cenno di riflusso ideologico verso i vecchi valori della famiglia, che in effetti attraversa di tanto in tanto la classe operaia. Senza peraltro mai attecchire del tutto, per un motivo semplice: la crisi capitalista è anche crisi di quelle stesse relazioni familiari, che vengono scompaginate e continuamente riformulate proprio dal variare delle traiettorie dell’accumulazione e dai connessi movimenti della forza lavoro. Ma Wagenknecht sembra del tutto incapace di cogliere queste basi materiali del problema. Nella sua visione, maniacalmente idealistica, i valori non possono mai dipendere dalla realtà materiale, possono solo forgiarla.
Wagenknecht punta ai conservatori per dire che la vera forza conservatrice è la sinistra: anche in questo senso la posizione di Wagenknecht (come quella di tanti sovranisti “di sinistra”) incappa nell’errore individuato dal collettivo Rojo del Arcoiris: sebbene queste posizioni si sentano orgogliose di essere contrarie all’ideologia borghese, stanno costantemente giudicando se stesse “in base ai concetti di decenza o serietà costruiti proprio sulla base di valori promossi dal capitalismo”. Proprio per questo il collettivo dichiara nel suo manifesto di rifiutare la corrente “mitizzante” (…) del lavoro retribuito come “nobilitatore”, dal momento che non è altro che l’ennesima trappola del capitale. Si richiama al supposto orgoglio di classe quando, in realtà, cerca solo di riprodurre l’egemonia capitalista al tempo stesso in cui ostacola l’impeto rivoluzionario della classe operaia, facendoci pensare che possiamo trarre beneficio dal semplice fatto di lavorare. Questo equivale a dover ringraziare i nostri capi e padroni per “lasciarci” lavorare.
Allo stato attuale, il discorso del merito e dell’utilità su cui tenta di fare leva Wagenknecht non basta più, e per fortuna si potrebbe aggiungere. Il sistema ha eroso quell’orgoglio proletario: diritti fondati solo sulla necessità di una classe al mantenimento del sistema (e del profitto) si sono rivelati presto revocabili, un esercito di riserva è sempre a disposizione e lo sarà proprio fino a che non ci saranno norme e accordi sovranazionali. Wagenknecht, come tanta della sinistra che critica, cerca di fare leva sul senso di colpa, e in questo si rivela sempre un passo indietro rispetto al capitale che avanza e promette di poter fare a meno del lavoro. In questo orizzonte di colpevolizzazione, persino quando lo si critica, il capitale continua ad apparire come “un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa e debito”, nelle parole di Walter Benjamin.
Per quanto accusi di idealismo e culturalismo la sinistra neoliberale, è proprio Wagenknecht a cadere nell’errore prospettico che siano i valori e le ideologie, e non i rapporti sociali materiali, a plasmare la storia.
Avviandosi a conclusione, resta una questione. La stessa Wagenknecht osserva che la classe a cui aspira a rivolgersi tende a votare contro i propri interessi: “La maggiore tendenza a votare a destra da parte dei meno privilegiati rispetto ai benestanti resiste anche quando le stesse destre portano avanti una politica economicamente improntata al liberismo e orientata alle privatizzazioni e allo smantellamento dello Stato sociale”. Essere consapevoli di questo punto e cercare di inseguire l’elettorato offrendo rassicurazioni piuttosto che proporsi come guida capace di offrire un’alternativa autentica è a ben vedere una forma di classismo molto più profonda di quella messa alla berlina da Wagenknecht, una posizione pietista e controproducente che suppone che la vittima abbia sempre ragione in quanto tale, e soprattutto che la inchioda a questa identità, senza darle la possibilità di diventare nient’altro. Scriveva Althusser: “bisogna pur prendere le masse come sono anche e soprattutto quando le si vuole portare più avanti”. Il problema dei “conservatori di sinistra” è esattamente questo: non prendono le masse per come realmente sono e non intendono affatto portarle più avanti. Perché le masse non sono più (solo) quelle che vuole proteggere e soprattutto cooptare Wagenknecht, i cambiamenti reali e materiali del sistema produttivo hanno portato sulla scena nuove soggettività. La loro ricomposizione all’interno della lotta dovrebbe essere l’obiettivo di una sinistra all’altezza dei tempi. Ma questo non sarà possibile finché si continuerà a fare una gerarchia tra i poveri.
Wagenknecht cita un articolo dal titolo “E se Bannon avesse ragione?” del 2017, in cui sul New York Times si dice che quando i lavoratori bianchi sentono la parola “diversity”, “ci sentono dentro i privilegi concessi alle minoranze, tutti privilegi pagati da loro”. Uscendo dalla propaganda servirebbe chiedersi: pagati in che senso? Se la retorica “progressista” e liberale del capitalismo ha attecchito è anche perché dice qualcosa di vero, ovvero che ci sono diritti e libertà che effettivamente non ledono quelli altrui. È proprio questo a dimostrare il primato logico della questione di classe: è solo nella lotta tra capitale e lavoro che vale la legge della scarsità, perché le risorse non sono infinite e chi prende di più toglie a qualcun altro. Ma le questioni di riconoscimento sono, almeno potenzialmente, esentate da questo problema, e chi crede il contrario si è evidentemente comprato la tesi secondo cui la “visibilità” è una moneta con cui si compra il pane. La circolazione libera degli esseri umani, la libertà di scelta e l’autodeterminazione delle persone non minacciano il privilegio e la libertà di circolazione e di scelta degli altri esseri umani, diversamente da quanto non faccia quella del capitale finanziario e delle merci. Non sta scritto da nessuna parte che la sinistra debba scegliere tra il voto dei moderati progressisti e quello delle classi popolari che votano contro il loro stesso interesse. Non c’è bisogno di decidere, men che meno stabilire dei “valori” che orientino la nostra azione politica. Possiamo puntare a un programma che accolga entrambe le posizioni appena accennate, lavorando su contraddizioni reali da dialettizzare, da mettere in movimento. Ne cito due molto banali: il fatto che mentre si promuove il merito e il duro lavoro, i lavori scarseggino, o il fatto che mentre siamo tutti costantemente bombardati di pubblicità, non abbiamo soldi per permetterci questi beni di cui ci saremmo pure convinti della necessità o desiderabilità.
Sono circostanze che non hanno nulla a che fare con i presumibilmente immutabili “valori” di cui parla Wagenknecht, anche perché come scrive Giacomo Croci è proprio l’ossessione per essi a distinguere la destra dalla sinistra. Non sono equipollenti e simmetriche le due opzioni: fissare una forma, una batteria di proprietà e identità, indifferente ai processi materiali; o indagare le contraddizioni che si esprimono in un movimento e cercare di risolverle collettivamente e praticamente in luce dei problemi che esse stesse pongono. Marx parlerebbe, credo, di movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, le cui condizioni sono proprio le contraddizioni dello stato di cose presente. Questo è un pensiero storico-politico che in luogo di un sapere della forma, assoluta o assolutamente dissolta, pone un sapere della trasformazione. Al contrario, a postulare una buona forma – il libero mercato, un dio, un tipo umano, una nazione – si finisce, ancora ed oggi come sempre, a non capire niente e a non saper rispondere per nulla, se non con lo scatafascio, alla realtà.