P rimavera ambientale, l’ultimo libro del giornalista Ferdinando Cotugno, racconta i movimenti per il clima che da qualche anno a questa parte prendono voce e danno voce al Pianeta, giovani e apparentemente innocui, arrabbiati e consapevoli. Consapevoli del fatto che per uscire dalla crisi climatica bisogna scardinare il sistema economico e di valori in cui viviamo, che la giustizia climatica è la chiave, che il tempo per girare questa chiave è pochissimo. Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022) attraversa questo momento così spaesante della storia umana – in cui è la scienza e non la superstizione a dire che il mondo come lo conosciamo potrebbe finire presto. Il libro è stato lo spunto per questa lunga conversazione con Cotugno sul ruolo del giornalismo scientifico e ambientale in tempo di crisi climatica e di attivismi globali.
Caterina Orsenigo: Veniamo da un’estate e un autunno di eventi incisivi e destabilizzanti, la settimana prima che cominciasse la COP27 sono usciti almeno sette report enormi di istituzioni mondiali e nel frattempo faceva un caldo inquietante, poi c’è stata appunto questa densissima conferenza sul clima. Nella bolla di giornalisti di settore e attivisti non si parlava d’altro: le newsletter, i podcast e i giornali che leggevo non parlavano che di crisi climatica, e pure il papa. Ma sulla stampa generalista la crisi climatica in Italia è ancora un argomento fra tanti altri. Come se l’ecologia fosse uno dei problemi, in mezzo ad altri più importanti, l’energia e la politica internazionale, come se questi problemi fossero slegati fra loro. La sensazione è che ce la raccontiamo solo fra di noi la crisi climatica, ci formiamo come bolla aggiornatissima che sa a memoria i numeri, le date, i termini, gli eventi, i report, gli interventi dei politici e degli attivisti. Ma fuori di lì non si riesce ad andare, o non abbastanza. La prima domanda allora è: come si esce dalla bolla? C’è qualcosa che non sta funzionando nel nostro lavoro?
Ferdinando Cotugno: L’inconsapevolezza di cui parli è una forma di cecità selettiva molto incoraggiata dal blocco centrale dell’informazione italiana, che di problemi ne ha tanti. Per cominciare, c’è una questione anagrafica. Questo ovviamente non vale in assoluto, ci sono eminenti climatologi che hanno un’età molto avanzata, però il fatto che l’età media del giornalismo italiano sia così alta è parte del problema.
Un’altra parte del problema secondo me è che è un giornalismo molto complesso da fare. È un argomento trasversale mentre il giornalismo tradizionale italiano è molto verticale. Quando entri in una redazione di solito o sei un giornalista che si occupa di esteri oppure di politica, o di economia, o di scienza, o di cultura. Mentre un giornalista che si occupa di clima si deve occupare di tutte queste cose insieme. Il giornalismo italiano tende a essere organizzato per silos e non coltiva questo tipo di giornalisti.
Poi c’è una questione politica. Tutto il giornalismo mainstream italiano ha come suo fondamento la protezione dell’esistente, che è poi il problema anche dei partiti italiani, soprattutto quelli di “sinistra”. Occuparsi di clima vuol dire partire dal presupposto che invece l’esistente va scardinato, che tutto il funzionamento della società va cambiato: questa è un’idea che nessun organo di informazione italiano è in grado di sposare. È l’idea che la società che vai a raccontare è una società che non funziona, una società rotta e pericolosa per il proseguimento della vita umana sulla Terra, quindi tutto il tuo lavoro deve essere votato alla missione generale di trovare strumenti, spunti e notizie che presuppongano e incoraggino lo scardinamento della società. Nessun giornale, talk show, organo di informazione, niente che sia sopra la soglia del visibile si porrebbe mai lo scopo di scardinare la società e di riformarla in modo radicale. È una cosa che culturalmente non entra in nessuna redazione.
E poi c’è un altro problema e lo vedo anche nel mio percorso: è la neutralità del giornalista. Sul clima non puoi fare un giornalismo neutrale e quindi tutti i giornalisti di clima in Italia vengono anche percepiti come degli attivisti, come se ci fosse sempre una quota di attivismo nel nostro giornalismo. Per me è sbagliato, io non mi percepisco così e non voglio essere percepito così. Però sicuramente è un giornalismo che ha una quota di militanza al suo interno e non puoi non averla perché, se ti confronti con la scala e la pericolosità di questo problema, ti devi porre il problema della tua posizione rispetto al cambiamento drastico e radicale della società. A volte trattiamo le informazioni in modo asettico ma quando dici che le emissioni di CO2 devono dimezzarsi in sette anni stai dicendo un’enormità. Io mi rendo conto dell’enormità che sto dicendo, e la dico perché tutta la migliore scienza che abbiamo a disposizione dice che è così che va fatto. Ciò non toglie che sia un’enormità: le conseguenze sulla società in cui viviamo sono immense e io come giornalista ne porto il peso e non posso non avere una posizione. Questo fa sì che ci sia in effetti una dose di militanza ed è una caratteristica molto lontana dal giornalismo italiano.
Poi anche il giornalismo italiano è in sé una bolla, una bolla piccola, come quella di un piccolo partito. È una bolla di lettori anziani, ad alto reddito, d’élite ed è il profilo esatto di chi ha tutto da perdere da un cambiamento radicale della nostra società, perché questo cambiamento radicale implica scardinare le gerarchie, attaccare il privilegio perché c’è un’enorme quota di privilegio che si riflette sul cambiamento climatico. Ma siccome l’informazione italiana è fatta da privilegiati per privilegiati è chiaro che in quella bolla lì questi concetti non passeranno mai.
Nessun giornale, talk show, organo di informazione, niente che sia sopra la soglia del visibile si porrebbe mai lo scopo di scardinare la società e di riformarla in modo radicale. È una cosa che culturalmente non entra in nessuna redazione.
CO: Il giornalismo anglosassone ha effettivamente più impatto?
FC: Sicuramente è un giornalismo più consapevoli del suo ruolo e più in grado di accettare la missione di cambiamento della società. Noi tendiamo ad avere un’idea retrò del giornalismo anglosassone come più neutrale di quello italiano ma non è così. Il Guardian su questo ha davvero sposato una linea ma anche un giornale più conservatore come il New York Times si fa portatore di questa istanza di cambiamento, e persino il Washington Post che è ancora più conservatore e nonostante la proprietà che ha, di Bezos, che è ben problematica. Anche Bloomberg è molto interessante: è la voce corporate della finanza ma le cose che scrive sull’ambiente sono allo stesso tempo estremamente sobrie, appunto anglosassoni, ma estremamente radicali nella critica all’esistente. Ed è una cosa che il giornalismo italiano mainstream non è in grado di fare.
CO: Ma questo ha poi un riverbero effettivo sulla società, almeno all’estero? Fatico a vedere anche questo.
FC: La mia sensazione è che quelli lì siano media internazionali che tendono a parlare a un’élite globale più che a un mercato politico interno. Il New York Times su certi argomenti è più capace di influenzare te e me in Italia che un elettore lower-middle class americano. Quei giornali formano un’opinione pubblica globale molto informata e molto avanzata e in grado di avere un impatto, quindi non è una cosa irrilevante. Però non agiscono sulla politica americana. C’è lo stesso problema di bolla che abbiamo in Italia. Forse allora dobbiamo porci il problema di che impatto può avere il giornalismo in generale nella società contemporanea. Se non è più nel potere dei giornalisti cambiare la società, possono solo sperare di parlare a una piccola fetta di popolazione molto informata?
CO: Il mio lato un po’ ingenuo mi fa pensare che paradossalmente in futuro potrà essere più facile accedere anche al resto della popolazione, perché starà peggio, e avrà ancora meno da perdere. Ci ritroveremo tutti costretti a interessarci a questi temi. C’è un modo, allora, attraverso la politica dal basso, di coinvolgere politicamente le persone, magari a partire dalla piazza e non dai giornali? In attesa di rispondere a questa domanda dobbiamo comunque capire come uscire dalla bolla e comunicare fuori, per riuscire ad avere un barlume di effetto sulla società.
FC: Ci sono due strumenti di comunicazione in grado di cambiare l’opinione della società. Uno è controllabile, la televisione, e l’altro no, i social, quindi non è nemmeno utile parlarne. La televisione è l’unico spazio in cui puoi cambiare l’opinione delle persone al di fuori dei quartieri ad alto tasso di librerie delle città. L’unica informazione climatica che può davvero avere un impatto è quella che va in televisione, che è il posto dove non si parla mai di clima. Ed è il posto dove i negazionisti hanno ancora spazio e possono portare a milioni di persone tesi completamente screditate dalla comunità scientifica. I giornali in termini di impatto hanno solo la funzione di formare determinate voci che poi possano andare a parlare in televisione, è una sorta di processo di selezione. E quando arrivi in televisione hai davvero la platea più ampia che ci sia.
Ma in TV il discorso pubblico sul clima è a un livello bassissimo proprio perché il discorso sulla scienza è a un livello bassissimo. E se la sfera politica è allergica alla scienza, abbiamo visto con la pandemia quanto la scienza sia incapace di stare nel discorso pubblico. La divulgazione scientifica è un’emergenza democratica in Italia anche perché l’Accademia è molto in ritardo nel porsi questo problema.
Mi capita di parlare con scienziati che non sono in grado di comunicare con i giornalisti. Non sono attrezzati, nessuno gli ha insegnato ad andare in televisione, a spiegare un tema in due minuti. E se anche questo lo sanno fare, però non hanno idea di come trattare con la redazione, porre le proprie condizioni, scegliersi le proprie regole di ingaggio. Ci sono delle regole e un politico le conosce perfettamente mentre uno scienziato si trova buttato in mezzo a un mondo ostile senza che nessuno gli abbia mai spiegato come relazionarcisi. Invece è fondamentale formare una classe di scienziati che sappiano stare nel dibattito. Devono evolversi nella propria partecipazione pubblica.
È fondamentale formare una classe di scienziati che sappiano stare nel dibattito. Devono evolversi nella propria partecipazione pubblica.
CO: Ma siamo sicuri che siano gli scienziati a doversi far carico di questo? Non dovrebbe essere proprio il ruolo dei giornalisti scientifici e dei divulgatori, saper leggere e raccontare? Uno dei problemi della pandemia non è stato proprio intervistare i virologi invece dei divulgatori?
FC: Penso che ognuno abbia un proprio ruolo, ce l’hanno i giornalisti, ce l’hanno i divulgatori, ma l’accademia non può tirarsi fuori. Poi aggiungo un’opinione magari non troppo popolare, ma i virologi in TV hanno fatto anche cose buone. È facile vedere la parte sgradevole, che c’è ed evidente, scienziati diventati personaggi, afflitti da vanità tossica, iper presenzialisti. Ma se ci ricordiamo come stavamo messi a marzo 2020, abbiamo dovuto fare come nazione un corso accelerato in meccanica e funzionamento di una pandemia partendo sostanzialmente da zero, e tanti concetti base sono passati, ed erano concetti vitali. Tanto si può migliorare da quella base, che fu messa in piedi in modo disordinato e improvvisato, dato il contesto. Ma non credo che la lettura sana del rapporto tra media e scienziati durante la pandemia sia togliere gli scienziati dal dibattito. Anzi, quella storia ci insegna quanto sono importanti e quanto è delicato quello che fanno. Non devono comunicare di meno, devono comunicare meglio.
CO: Torniamo alla questione della militanza. Qualche giorno fa parlavo con Michele Argenta, fra i fondatori di Ci sarà un bel clima (collettivo di divulgazione di temi relativi all’emergenza climatica). Loro essenzialmente fanno informazione, in parte tramite i social, in parte tramite il podcast. Michele mi raccontava che non si sente un attivista perché essere attivisti vuol dire fare qualcosa di concreto. Di questo parli anche tu nel libro in termini simili. Ma non sono d’accordo. Il giornalismo climatico per me è attivismo: per come si costituisce la lotta alla crisi climatica, perché è una lotta contro il tempo; perché è una lotta che ha senso solo se è politica e se parte dalla giustizia climatica e dunque, come dicevi, ha senso solo se parte dall’idea di scardinare la società in cui viviamo. Per come la vedo io ci sono diverse voci e diversi modi, alcuni mi piacciono di più e altri meno, e ognuno ha la propria, di voce: c’è chi blocca il raccordo anulare, chi lancia la zuppa di pomodoro, chi racconta quello che succede, chi studia e cerca soluzioni, chi fa inchieste, chi fa pensiero, chi prova a immaginare un mondo nuovo. C’è bisogno di tutte queste cose, sono tutte modalità di spingere di fronte a una impellenza e ognuno lo fa con le proprie armi e secondo le proprie capacità. E aggiungo che trattandosi di una impellenza non ce ne si tira mai fuori, è completamente pervasiva.
FC: Sì ma un conto è il tipo di coinvolgimento che hai rispetto alle cose di cui racconti – per cui un giornalista che scrive di clima o di ambiente è tendenzialmente un ambientalista ed è una persona consapevole della propria posizione nella società e non è neutrale – un conto è essere attivisti. È vero che quasi tutti i giornalisti di clima tendono a sentirsi un po’ in missione e in qualche modo è così, ma essere attivisti vuol dire fare delle azioni all’interno della società per cambiarne il corso politico.
Quello che differenzia il giornalista dall’attivista sono la postura e la funzione e sono funzioni diverse anche per il bene dell’attivista, il quale ha bisogno di poter interloquire con giornalisti che non siano attivisti. Quindi io non voglio essere percepito come attivista e non posso essere organico ai movimenti che racconto. Per quanto riguarda la postura, prendiamo l’esempio della COP27: è giusto che non ci vada un attivista, per ribellarsi davanti alla mancanza di uno spazio democratico di confronto, ma un giornalista ci deve andare, se no chi lo racconta? Un attivista ci va per fare un’azione politica, io ci vado per raccogliere informazioni. Mi pongo in una posizione inevitabilmente terza per esempio fra Eni e il gruppo che manifesta fuori, se no non potrei chiedere a Eni delle informazioni su un suo progetto per raccontarlo al pubblico. Anche se fai un giornalismo politico e militante hai una funzione di intermediazione e se ti schiacci solo su una parte di società diventi inutile. Non è una questione di neutralità ma di postura.
Anche se fai un giornalismo politico e militante hai una funzione di intermediazione e se ti schiacci solo su una parte di società diventi inutile.
CO: Però in un lavoro come questo la differenza fra la persona che si è e il lavoro che si fa è sottilissima. In contesti diversi puoi avere posture diverse. Ci sono casi come Giovanni Mori che è un attivista di Fridays e allo stesso tempo tiene un podcast di informazione su LifeGate, ed è un podcast molto più da giornalista che da attivista.
FC: Sono due percorsi diversi: il passaggio dall’attivismo all’informazione è qualcosa a cui stiamo assistendo, è interessante e arricchisce la biodiversità dell’informazione; un’altra cosa è il giornalismo che va verso l’attivismo e secondo me è molto meno fluido per un giornalista, che ha giustamente una sua rigidità di prerogative. Il giornalismo aggiunge una cosa che l’attivista non ha, ed è il privilegio dell’osservazione. Non è neutralità, però quel privilegio ti permette di essere a lato della manifestazione e osservarla, ed è utile anche all’attivismo vedersi da fuori.
Mi sento alleato, mi sento vicino a tante delle istanze, ma non mi sento parte del movimento per il clima. In Italia ci saranno 30 giornalisti che si occupano di clima. E sono estremamente preziosi. Da lettore so che l’informazione che mi viene data, anche sullo stesso giornale, da un attivista e da un giornalista, ha due funzioni diverse. Nessuno dei prodotti che faccio, né il libro, né la newsletter Areale, né il podcast Ecotoni hanno il desiderio di essere percepiti come prodotti di un attivista. Mi rendo conto che ogni tanto lo sono, e in quel caso penso di aver superato un confine e di essere in un territorio che non è sano come giornalista. Se voglio uscire dalla bolla, parlare a persone che non hanno già un’opinione formata, è meglio, è più efficace se la mia postura è la postura di un giornalista e non di un attivista.
CO: Una delle parti che mi è piaciuta di più del tuo libro è quando citi un articolo scritto per il Guardian dalla scrittrice e giornalista statunitense Rebecca Solnit e parli del fatto che il movimento per il clima lotta anche e anzi soprattutto per la bellezza.
Questa per me è una questione chiave: si usano spesso termini negativi o peggiorativi per parlare degli sforzi che bisogna fare per “salvare il pianeta”. Si parla di rinuncia, di sacrificio. Sono parole sbagliate. In realtà, è adesso che rinunciamo a tantissime cose, è adesso che viviamo in un mondo infinitamente ingiusto. È ingiusto perché da secoli, diciamo dalla nascita del capitalismo, ci sono territori e gruppi di persone che vengono trattati come residuali, sacrificabili e sacrificati per estrarre risorse ed espellere rifiuti. È ingiusto anche perché rende infelici in realtà quasi tutti, perché respiriamo un’aria irrespirabile, perché trattiamo il nostro stesso tempo e i nostri stessi corpi in modo estrattivista. È un sistema che ci svuota e ci ammala, e minaccia di diventarlo sempre di più. E i laghi si stanno già seccando, e i ghiacciai già cominciano a crollare e le alluvioni già arrivano e hanno conseguenze più violente dove il consumo di suolo è maggiore. La lotta alla crisi climatica invece parla di una società molto più giusta, dove non ci sono territori e persone considerati sacrificabili. Si lotta per stare meglio, non peggio. Per respirare un’aria migliore, perché ci siano meno macchine, meno asfalto, perché si mangino cose più sane e quindi più buone e non esistano allevamenti intensivi, non esista spreco alimentare, perché le altre specie e la nostra stiano meglio, per avere più aria, più spazio, più tempo. Appunto: più bellezza. E anche se per troppe cose è già troppo tardi, come dice Rebecca Solnit, ci sarà ancora la luna che si rispecchia nel mare, e ci sarà anche se le coste saranno diverse da quelle che conosciamo oggi. Sono pochi quelli che ci perderebbero davvero, se il movimento per il clima riuscisse almeno un pochino a vincere: si tratta di costruire alleanze con tutti gli altri, attivisti o meno.
Andando oltre la paura, bisogna andare anche oltre le soluzioni solamente proattive, strettamente tecnologiche ed energetiche e parlare di una cosa di cui non si parla mai: la felicità.
FC: Tutto il discorso sul clima tende a essere molto cupo, e lo capisco e questa cupezza ha anche una sua funzione. Ma la paura ha esaurito la sua missione storica. È ancora un’emozione fondamentale per chi si occupa di clima e di comunicazione sul clima, ma va maneggiata con cura e va ridotto il dosaggio di paura all’interno di questi discorsi. È un’emozione utile ma c’è un limitato quantitativo di paura che possiamo avere nella vita e ora ci sono paure sociali, sanitarie, economiche: è un mercato con una fortissima concorrenza, quindi sta esaurendo la sua funzione politica. Per questo credo che sia importante, come dice Rebecca Solnit, ricordarci anche perché facciamo quello che facciamo. È vero che si rischia di sfociare nel lirismo ma il lirismo è anche una cosa preziosa. Il titolo del mio libro, Primavera ambientale, è un omaggio a Primavera silenziosa di Rachel Carson anche per il suo stile, per le parole che usava: pur essendo una scienziata il suo era uno stile molto lirico ed evocativo e proprio per questo secondo me il suo è stato un libro così decisivo, fra quei rari libri che riescono a cambiare il corso dell’umanità e ad aprire nuovi cicli. C’era nel suo linguaggio una ricerca che invece si fa ancora poco nel mondo sia della comunicazione sul clima che dell’attivismo climatico. È un movimento che si trova ancora nella fase dello shock e che spinge all’azione ancora tramite lo shock. Ma la nostra è una società post traumatica, è sopravvissuta e continua a sopravvivere a una serie di shock notevoli. E il fatto che siamo ancora qui, siamo ancora vivi, ci dà l’illusione che ce la caveremo sempre e comunque.
Andando oltre la paura, bisogna andare anche oltre le soluzioni solamente proattive, strettamente tecnologiche ed energetiche e parlare di una cosa di cui non si parla mai: la felicità. E bisogna parlare del fatto che l’infelicità cronica della società in cui viviamo ha la stessa radice del collasso ecologico. I due discorsi vanno necessariamente congiunti: ciò che ci rende infelici e che ha lentamente svuotato di senso le nostre esistenze coincide con ciò che rende il nostro mondo così insostenibile, precario e in pericolo. Bisogna riappropriarsi di una ricerca della felicità collettiva e per farlo la paura non è lo strumento giusto.
CO: Abbiamo detto che la lotta per il clima parte necessariamente dal presupposto che la società così come la conosciamo va scardinata. Nel tuo libro dai spazio ai partiti ed esprimi la speranza che si facciano portavoce di questa lotta. Ecco, leggendoti mi sono chiesta: come fai ad avere tutta questa fiducia nei partiti se pensi che vada rivoltato tutto?
FC: Alla fine parlando di partiti parliamo di democrazia. Se ci fosse un altro strumento in grado di innovare e superare i partiti senza entrare nell’individualismo sterile che secondo me è la democrazia diretta, allora va bene, superiamo i partiti e proviamo a costruire altre forme di aggregazione politica. Quando parlo di partiti non mi riferisco ai partiti attuali, che hanno molto bisogno di innovarsi e di innovare la propria funzione, ma strumenti che possano aggregare la partecipazione dei cittadini all’interno delle istituzioni. Se può esserci uno strumento di collegamento spero che venga inventato al più presto. Già ora usiamo la stessa parola per intendere cose molto diverse: la Democrazia Cristiana e Il Movimento 5 Stelle sono istituzioni lontanissime l’una dall’altra.
Il fatto è che ci sono missioni storiche della sinistra che sono attualissime e che vanno riaggiornate nei termini del presente. La redistribuzione del reddito e la lotta alle diseguaglianze, l’accesso ai diritti come lavoro, sanità, istruzione: sono tutte cose ascrivibili a quello che chiamiamo pensiero progressista o sinistra, e senza cadere nel Novecentismo vanno reintrodotte e riabilitate. Poi certo, servono anche nomi nuovi e giustizia climatica o giustizia ambientale sono nomi nuovi che hanno un loro grande potenziale di passare da parole d’ordine estremamente di nicchia dei movimenti a idee in cui si possono riconoscere grandi masse di persone ed è una cosa che forse è molto difficile ma che dobbiamo pensare possibile. Quei concetti novecenteschi o anche ottocenteschi sono gli stessi che sono fondamentali oggi. Il punto è capire perché ci siamo riusciti così poco finora. Il punto non è chiedersi se la redistribuzione del reddito sia utile ma come tornare a pensare che sia possibile.
Il grande potenziale della sfida climatica è che sia un’amnistia di tutte le sconfitte passate.
CO: Nel movimento per il clima c’è questa sensazione bella e sorprendente di dover reinventare tutto. L’ambientalismo reinventa il futuro perché recupera, come dicevi tu, la missione storica della sinistra ma la rende completamente nuova, fresca, come se fosse stata appena inventata, appena pensata.
FC: Il grande potenziale della sfida climatica è che sia un’amnistia di tutte le sconfitte passate. Ci siamo abituati a pensare a molti problemi della nostra società come cronici, irrisolvibili, proprio perché abbiamo sempre perso o non abbiamo vinto abbastanza. Ci siamo arresi a pensare che la nostra società sia irrimediabilmente ingiusta e che non possa essere che così. Ma questi sono pensieri che abbiamo ereditato, qualsiasi millennial, qualsiasi persona nata negli anni ’80 è cresciuta pensando “lascia perdere”. E tutti i casi di trasformazione della società sono falliti: puoi fallire trovandoti in un autoritarismo o in una società democratica terribilmente ingiusta, ma in qualche modo fallirai. Ora secondo me l’azione politica attuale parte da una tabula rasa di questa idea. Affronta questa possibilità ripartendo da capo. E riparti da zero su questi obiettivi perché provi a farlo con una premessa completamente diversa che è la crisi climatica: è l’evoluzione dallo slogan “Un altro mondo è possibile” a “un altro mondo è assolutamente necessario”. Il fatto che questa sia una necessità sia ecologica che biologica, per permettere la sopravvivenza della vita umana sulla Terra nei numeri in cui siamo ora, apre tutto un nuovo orizzonte di possibilità.