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a Trastevere fino al Pantheon, un lungo corteo ha portato nel cuore della città il grido contro il caro-affitti. Prima tappa a ponte Garibaldi, dove gli autisti si fermavano per riuscire a leggere le frasi tracciate col pennello sui numerosi cartelli dei manifestanti. Poi in via Arenula e a largo Argentina la folla si ingrossa: molti si uniscono alla protesta. La massa, compatta, percorre via Florida, vicolo dei Cestari raggiungendo piazza della Rotonda. Sopra il gruppo di testa, campeggia un grande striscione bianco, sorretto da tre giovani, che fa spicco contro l’oscurità della sera: “Contro gli sfratti. per la riduzione dei fitti, per una casa civile ed economica per tutti”. È la sintesi degli obiettivi di questa prima protesta popolare. Dalla folla vengono scandite, a tratti, parole d’ordine secche. Frasi brevissime, semplici. I giovani gridano “case si, baracche no”. “Fermate i fitti”. “Basta coi truffatori dell’edilizia”. Fanno eco gli altri. “Giù le mani dalla città”.
Era il 1963. Gli affitti erano aumentati del 25%. Il 3 ottobre l’Unità raccontava la protesta contro il caro affitti a Roma in un articolo intitolato “Fermate i fitti, casa per tutti”. I giovani non reclamano “mutui agevolati per gli under 30”, “tassi d’interesse più bassi”, “più credito bancario per tutti”. No: reclamano affitti bassi e case per tutti. Poi c’è notizia di due scioperi, quello degli edili di Ostia e quello dei lavoratori del Mattatoio a Testaccio. La città è in fermento, la gente scende in piazza. A Milano si organizza uno sciopero unitario. Le proteste del ’63 ottengono il blocco degli affitti, sebbene inizialmente solo fino al novembre successivo. Ma quelle mobilitazioni segnano l’inizio di una stagione di lotte per la casa e accelerano l’avvio di politiche per la casa, soprattutto dopo il grande sciopero generale del ’69. Più in là, nel ’78, viene introdotto l’equo canone.
La proprietà è sempre presentata come un fatto ‘naturale’ e ‘storico’. La verità è che l’accesso alla proprietà è sovvenzionato.
“Stangata per gli affitti: i nuovi contratti costeranno il 25% in più” titola il 15 novembre 2022 Monitor Immobiliare. dopo la parentesi della pandemia, trovare una casa in affitto è diventato impossibile, i prezzi sono fuori controllo. A Milano una stanza singola costa millequattrocento euro. Un posto letto a Bologna, seicentocinquanta. Le case non ci sono. Ma di gente in piazza ne vedo poca. Perché c’è una differenza fondamentale rispetto al 1963 ed è, credo, il motivo per cui non ci sono proteste di massa contro l’inflazione, il caro affitti, il costo della vita che incide di più su chi ha di meno, mentre chi ha di più continua ad arricchirsi (secondo la Banca d’Italia la ricchezza media posseduta dal 5% delle famiglie più ricche è aumentata di oltre il 20% tra il 2016 e il 2020; nel 2020 il 7% della popolazione più ricca possiede metà del patrimonio netto complessivo in Italia; il 50% meno ricco, invece, ne possiede solo l’8%. Su questi dati torneremo dopo). La grande differenza rispetto al 1963 è che la percentuale di proprietari di casa è esplosa. Nel 1961 c’erano più famiglie in affitto (il 46,6%) di quelle in proprietà (45,9). Poi, negli anni Settanta e Ottanta la quota di popolazione in affitto si è ridotta del 20% (oggi il 20,5% delle famiglie abita in affitto, ma va anche detto che l’8,9% abita in usufrutto, ovvero non paga alcun affitto).
Non conto le volte che leggo, nei rapporti ufficiali, la frase “gli Italiani hanno mostrato una forte propensione all’acquisto della casa”. La proprietà è sempre presentata come una scelta, un desiderio, un fatto ‘naturale’ e ‘storico’, una soluzione desiderabile. La verità è che l’accesso alla proprietà è stato promosso da politiche pubbliche, sovvenzionato (si stima che lo Stato abbia speso in edilizia agevolata per la vendita cinque volte quanto ha speso per l’edilizia residenziale pubblica, le case popolari). L’offerta di case in affitto è diminuita anche grazie alla vendita di case popolari e di case degli enti, a prezzi inferiori di quelli di mercato, dagli anni Novanta. Oggi pagare una rata di un mutuo, per chi può ottenerlo, è molto più conveniente che pagare un affitto. Lo Stato ha smesso di costruire e ha iniziato a erogare sussidi per il mercato privato, finendo per spendere anche di più (in Inghilterra il governo ha venduto case per un totale di 22 miliardi di sterline fino al 1997, ma nel 2017 ne aveva spesi 25 in sussidi sul mercato privato) perché bisognava diffondere la proprietà, alimentare il mercato finanziario e rompere le lotte di classe, mentre si attaccavano i diritti nel mondo del lavoro. Ha funzionato alla grande: oggi l’Italia è paese di proprietari (anziani), i salari sono da fame, chi può campa di rendita, e tutti gli altri si attaccano o emigrano. E si riparte da zero, con una nuova questione abitativa, senza più strumenti e politiche pubbliche per affrontarla.
Costruire case per una domanda di case-asset finanziari tenute vuote o affittate su Airbnb non è la stessa cosa che costruire case per tutte quelle persone che non guadagnano abbastanza per pagare affitti esorbitanti.
“Bisogna costruire più case!” dicono i costruttori e alcuni economisti. Se l’offerta di case non è ‘elastica’, dicono, l’impatto di un aumento della domanda di lavoro è maggiore sui prezzi delle case che sull’occupazione. La rigidità dell’offerta di abitazioni, imputata a “vincoli fisici allo sviluppo residenziale e di ostacoli di natura amministrativa”, si supererebbe costruendo più case. Non importa se si è consumato troppo suolo e se molte case sono vuote. È evidente che l’idea di continuare a costruire per calmierare il mercato è insostenibile (se il problema degli affitti troppo alti fosse un problema quantitativo bisognerebbe costruire diverse migliaia, se non milioni, di case per condizionare il mercato). Per questo c’è bisogno di un cambio di paradigma. Di più, non si specifica bene mai per chi, da chi e su quale suolo queste case devono essere costruite. È bene ricordare che le politiche pubbliche per la casa sono nate proprio perché i privati non stavano costruendo case per la classe operaia. Ai privati non conviene: la classe operaia non rende. Ma si continua ad aspettare la soluzione dal mercato. Così regaliamo fondi pubblici a operatori privati che continuano a non costruire case per chi ne ha bisogno, ma solo per chi può pagarle care (per esempio con il finto social housing e con i finti alloggi per studenti). Infatti una cosa è la domanda di casa, un’altra è il fabbisogno: costruire case per una domanda di case-asset finanziari tenute vuote o affittate su Airbnb non è la stessa cosa che costruire case per operai, impiegati, insegnanti, autisti, badanti, camerieri, e tutte quelle persone che rendono possibile la vita nelle città ma che non guadagnano abbastanza per pagare affitti ormai esorbitanti. Perché se i salari sono diminuiti, il costo delle case è aumentato. Così siamo tornati al punto di partenza. Con la differenza, rispetto al ’63, che il costo del suolo (che incide sul costo finale della casa) è aumentato notevolmente.
Il problema è che il valore generato con investimenti pubblici nei contesti urbani è interamente catturato dai proprietari delle case.
Ma il valore del suolo, a sua volta, da cosa dipende? Perché una casa in centro costa di più che in periferia o in un paese sperduto e in via di spopolamento sull’Appennino? Perché gode di un ‘vantaggio localizzativo’, perché è vicina a fattori di sviluppo economico e a servizi pubblici. Basta pensare all’aumento del valore delle case quando arriva la metropolitana, ma anche quando si pedonalizza una piazza. Queste sono due delle strategie adottate oggi a Milano per far crescere i valori immobiliari e gentrificare quartieri popolari. Il problema, in effetti, è che sono proprio le politiche pubbliche a spingere in alto i prezzi delle case, a produrre un incremento di valore di cui si appropriano i proprietari, in assenza di politiche fiscali per ricatturarlo a vantaggio della collettività. Il valore delle case, insomma, non piove dal cielo. Il problema è che il valore generato con investimenti pubblici nei contesti urbani è interamente catturato dai proprietari delle case.
Seguendo la questione sugli affitti per studenti a Bologna, sui social leggo commenti come: “Che gli studenti ripopolino e riqualifichino periferie e paesi della provincia.” “Ancora!!!!!!Che due Maroni!!!! Gli studenti devono incominciare a scegliersi alloggi anche fuori Bologna. Costano meno e hanno aria più buona. O vogliono solo alloggi sotto le torri così fanno prima a raggiungere piazza Verdi?” (20 like). “Adesso si considera “diritto” vivere in un posto senza averne i mezzi… Si tratta di privilegio o abuso! Se non ci si può permettere una cosa se ne acquista un’altra senza pretendere nulla. Se Bologna è una città costosa si andrà altrove perché di atenei validi ce ne sono ovunque. Il diritto allo studio non significa farsi pagare gli alloggi dal comune ma potere accedere a quella scuola senza distinzioni di genere religione o altro. Basta con questa ipocrisia tutta creata dalla sinistra!!!!” (26 like). Leggendo questi commenti penso: in Italia i processi di valorizzazione immobiliare sono sostenuti con investimenti pubblici. I bonus edilizi aumentano, a spese di tutti, il valore delle case. Come poi vengano usate queste case, non si sa. Ma il valore urbano, di cui si appropriano i proprietari, è prodotto dal lavoro di chi abita le città. È prodotto dalla cultura, immateriale e materiale, dei suoi abitanti – poi brandizzata per vendere le case.
In Italia non esiste attività più protetta che quella di estrarre rendita dal patrimonio immobiliare.
L’impatto della popolazione studentesca sul Pil di Bologna, per esempio, è di tre milioni di euro al giorno. Se si arrestassero di nuovo i flussi turistici e la didattica fosse tutta a distanza l’economia di Bologna subirebbe un tracollo. E allora eccoli, proprietari e commercianti, in fila a chiedere sussidi, ristori e indennizzi. Chiedono indennizzi pubblici per sostenere un livello di estrazione di rendita urbana sempre più insostenibile, per sostenere un modello economico che andrebbe ripensato. Gli stessi che affittano le case su Airbnb e che tuonano contro la regolamentazione degli affitti turistici hanno provato, durante i primi lockdown, “a farsi pagare gli alloggi dal comune”. Poi, passata la pandemia, Airbnb ci fa sapere che “per 8 italiani su 10 il diritto alla proprietà non si tocca” e riporta i risultati di un sondaggio realizzato intervistando 1104 ‘casi rappresentativi’ della popolazione maggiorenne residente in Italia e “un campione semiprobabilistico di 822 casi rappresentativo degli utenti ‘host’ iscritti ad Airbnb in Italia”. A parte l’esito prevedibilissimo di un sondaggio sulla necessità di limitare Airbnb condotto tra chi affitta su Airbnb, concentriamoci piuttosto sull’attacco immaginario al diritto di proprietà. Il regime fiscale sulle locazioni brevi è il seguente: fino a quattro case (quattro case) si paga la cedolare secca al 21%. Sopra le quattro case scatta la tassazione ordinaria IRPEF o l’obbligo di partita Iva. Ora, a Roma l’affitto medio annuo per un appartamento su Airbnb, con un tasso di occupazione del 60%, è di circa 21.500 euro, che moltiplicato per quattro fa 86.000 euro l’anno. Ed è tassato al 21%, quando l’aliquota Irpef sul reddito fino a 15mila euro è del 23%. Insomma in pratica in Italia non esiste attività più protetta che quella di estrarre rendita dal patrimonio immobiliare. Altro che attacco alla proprietà, ma un regime di vantaggio senza uguali, l’opposto di un sistema fiscale progressivo in cui le imposte sugli immobili sarebbero più alte di quelle sul lavoro a bassi livelli di reddito. E se Airbnb ricorre ancora alla favola di essere uno strumento per arrotondare il reddito da lavoro, contribuisce a creare il problema che si propone di risolvere, facendo aumentare i valori immobiliari. Che non è un bene. Infatti chi è escluso dalla proprietà non solo non trae alcun vantaggio dall’aumento dei valori immobiliari, ma ne è penalizzato. “I soggetti con reddito basso subiscono una perdita da una crescita dei prezzi delle case, perché la loro spesa per affitti aumenta” ci dice la Banca d’Italia. Questo aumento determina “una redistribuzione di benessere dagli agenti poveri che vivono in affitto ai soggetti più ricchi proprietari di abitazioni”.
Il problema della casa non è, e non è mai stato, un problema individuale. È un problema sociale e sistemico.
In secondo luogo, cosa se ne fa di un aumento del suo valore chi possiede un’abitazione per abitarci? Il mio amico Giacomo e la sua compagna hanno acquistato una casa dove vivono con i loro due bambini in una zona in via di gentrificazione a Milano. “Il prezzo è già salito molto da quando ho firmato per il mutuo. Molti mi consigliano di vendere per incassare la differenza” mi ha detto. “Ma poi io dove vado ad abitare, se i valori stanno aumentando ovunque?”. La differenza tra il prezzo di alcuni anni fa e quanto quella casa vale oggi sarebbe vanificata se Giacomo cercasse un’altra casa da comprare nella stessa zona perché, appunto, i prezzi sono saliti. E Giacomo non ha intenzione si spostarsi, di allontanarsi, di fare chilometri di strada in più per andare a lavoro e per portare i bimbi a scuola. La storia di Giacomo evidenzia bene che la logica speculativa e l’abitare una casa sono due cose molto diverse.
In terzo luogo, legare le proprie aspettative al mercato immobiliare non è rischioso. I valori immobiliari non aumentano per sempre. In effetti in Italia dopo il 2008 i valori immobiliari sono scesi molto. E cosa ha prodotto questo? Un impoverimento della classe media. Dicevamo prima dell’aumento della ricchezza dei ricchi. Questa è stata “sospinta”, ci dice la Banca d’Italia, dall’aumento di valore delle attività finanziarie, dalla crescita del risparmio e dall’incremento di attività reali in aziende. Anche i più poveri avrebbero migliorato la propria condizione. Le classi centrali della distribuzione, invece, si sono impoverite “per effetto della diminuzione dei prezzi delle abitazioni, che costituiscono la componente principale del patrimonio di queste famiglie”. La proprietà insomma non è sempre un salvagente.
Il problema della casa non è, e non è mai stato, un problema individuale. È un problema sociale e sistemico. Sulla casa si regge gran parte del sistema economico. la soluzione all’emergenza abitativa non è la proprietà, non è il debito, non sono i mutui agevolati. E non è la costruzione di più case senza alcun controllo pubblico. Al cuore della questione c’è la vecchia, vecchissima, questione del controllo della rendita urbana, che non può sostituire il reddito da lavoro. Il livello attuale di estrazione di rendita non è più compatibile con la funzione sociale delle città. Bisogna rilanciare un piano nazionale di edilizia pubblica, abbassare gli affitti, mettere un tetto al loro aumento, e alzare i salari.