V erdi o Wagner? Dante o Petrarca? Dostoevskij oppure Tolstoj? Mozart o Beethoven? Come si risponde a domande come queste? Gusti e inclinazioni permettono di determinare l’istintiva tendenza individuale, se non l’indole, addirittura la tipologia umana. Tuttavia, si ha l’impressione che fra giganti si ponga piuttosto il problema dell’incommensurabilità. Lo spiega Simone Weil:
Quando una cosa è perfettamente bella, non appena vi si fissa l’attenzione, essa è l’unica bellezza. Due statue greche: quella che si guarda è bella, l’altra no. Così la fede cattolica e il pensiero platonico o il pensiero indù, ecc. Quella che si guarda è bella, e le altre no.
Se la bellezza, o la verità, o l’amore, richiedono tutta la nostra attenzione “come se non vi fosse nient’altro”, non si possono amare due cose contemporaneamente, certo non allo stesso modo. Semmai una alla volta. Qualsiasi “sintesi”, qualsiasi sincretismo “implica una qualità d’attenzione inferiore” verso l’oggetto amato. Eppure, talvolta – e non di rado – sono le opere stesse che costringono al confronto. È un principio d’inimicizia, gelosia e competizione assoluto, un odio che l’opera nutre per qualsiasi altra opera, una volontà di annullare l’“altro da sé artistico” che, secondo alcuni (Adorno, Paul Valéry), costituirebbe la condizione necessaria dell’opera d’arte stessa. Si è così costretti non soltanto a entrare nel vivo dello scontro, ma a doverlo considerare come evento fondante per la nostra comprensione delle opere coinvolte.
È il caso dell’astio nutrito da Louis-Ferdinand Céline nei confronti di Marcel Proust, a cui sono dedicate le pagine di Proust e Céline. La mente e l’odio di Valerio Magrelli. Tra i due ‘mostri sacri’ del Novecento francese corre la più feroce delle inimicizie letterarie e per alcuni, compreso Magrelli, si tratta di un elemento da cui non si può prescindere, al di là del gusto, talvolta eccessivo, per i celebrity deathmatch.
Il libro in questione si inserisce all’interno di una più vasta ricerca compiuta dall’autore sull’odio “nella sua specifica declinazione estetica”. Partendo da alcuni padri nobili, l’autore disegna una costellazione il cui trait d’union è l’inestricabilità di poesia (in senso ampio) e odio della poesia. “Non credo di aver mai odiato nulla al pari della poesia”, affermava Georges Bataille, perché “Ogni poesia tradisce la poesia”. La soluzione è l’odio, l’unica strada per avere accesso alla vera poesia, che la poesia stessa continuamente distorce. Non si può fare poesia senza odiarla, né si può amare il poeta senza nutrire nei suoi confronti tutto il disprezzo.
L’odio si rivela così, prosegue l’autore, una forza che anima l’arte, legato certamente a quell’invidia, a quell’“angoscia dell’influenza” teorizzata da Harold Bloom. È l’odio profondo di Nicolas Poussin per Caravaggio (il quale, stando al primo, “era venuto al mondo per distruggere la pittura”, e andava perciò distrutto a sua volta), è il fastidio violento nei confronti della tradizione che ha animato l’iconoclastia delle avanguardie storiche. Pensiamo anche all’odio degli intellettuali tedeschi – emotivi, provinciali, goffi, trasognanti, inadatti alla vita sociale, spesso costretti a mantenersi facendo i precettori – per i loro colleghi francesi, cosmopoliti, mondani, spiritosi, imparruccati, che diede il via al Romanticismo e dunque alla cultura tedesca. O alle tirate misantropiche di Thomas Bernhard che riempiono pagine e pagine di prosa fiume. O all’odio di Henrik Ibsen per August Strindberg (si dice infatti che il norvegese tenesse un ritratto del suo rivale svedese in studio, sopra la scrivania, per ricordarsi che cosa non stava scrivendo, ma anche contro chi stava scrivendo). Kundera teorizza, a buona ragione, che ci siano persone che vivono sotto lo sguardo perenne – e immaginario, immaginato – di qualcuno. Chi dice che si debba trattare per forza dell’amante ideale, quale è Sabina per Franz? Perché invece non il peggior nemico, da schernire, parodizzare, umiliare?
Queste piste portano Magrelli in direzione di una “misologia letteraria” (dal titolo di una monografia di Jan Miernowski): uno studio non solo sull’“acredine, avversione, ripugnanza” provate da autori per altri autori, ma anche rivolte a singole arti, o all’arte in sé, come forza creatrice dell’arte stessa. La strada, d’altro canto, è ben tracciata: per Victor Hugo, ricorda Magrelli, gli “unici odî sono letterari. Al loro confronto, quelli politici non valgono niente”; Baudelaire consigliava ai giovani autori l’odio, “liquore prezioso”; e “L’odio è santo”, scriveva Zola (Mes haines): “Se oggi io valgo qualcosa, è perché sono solo e perché odio”. L’odio, dunque, sia come “categoria estetica”, sia come “principio di creazione artistica”. Wisława Szymborska, in una poesia intitolata proprio L’odio, ci costringe ad ammetterlo: “Diciamoci la verità: / sa creare bellezza”.
Da qui a Céline, campione dell’odio novecentesco dato e ricevuto, il passo è obbligato. La sua scrittura è “mossa” e “sospinta” dall’odio. “C’è ancora qualche motivo di odio che mi manca. Sono sicuro che esiste”: così inizia il suo pamphlet Mea culpa. E, nelle prime pagine del Voyage:
La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a qual punto gli uomini sono carogne. Quando saremo sull’orlo del precipizio dovremo mica fare i furbi noialtri, ma non bisognerà nemmeno dimenticare, bisognerà raccontare tutto senza cambiare una parola, di quel che si è visto di più schifoso negli uomini e poi tirar le cuoia e poi sprofondare. Come lavoro, ce n’è per una vita intera.
Per Céline, così Magrelli, la scrittura è “uno sforzo abominevole”: l’arte “esige in cambio la vita dell’autore. Bisogna pagare, pagare l’opera con la propria esistenza”. Ed è un lavoro che ha più a che fare con il sudore e la fatica dei mestieri umili tra cui Céline era cresciuto che con la mondanità e il bel vivere. “È un lavoro da operaio – operaio delle onde”, afferma Céline, quello di “forzare il sogno nella realtà”. Non può che risultarne uno scrittore, critico e ancor prima lettore intransigente al massimo grado, dalla cui intransigenza, spesso espressa in vere e proprie manifestazioni d’odio letterario e non solo, nasce il suo stile unico e meticoloso – l’“estenuato perfezionismo”, l’eufonia assoluta, la “torturante bellezza” che lo distinguono. Céline cerca un francese musicale e ragionato che rispecchi però la goffa spontaneità del parlato, nella convinzione che il termine della notte sia anche “il fondo dell’uomo”, che “malgrado tutto è poesia”. E, se si sa ascoltare il cicalio della strada, il latrato di miserabili e derelitti, si può persino “mascherare in musica l’orrore del vivere”.
Come? Con lo stile, la “rotaia” del genio che, secondo una metafora céliniana alla cui analisi Magrelli dedica un capitolo, permette ai “vagoni della narrazione” di percorrere in profondità le linee metropolitane dell’anima, senza deviare, deragliare o ribaltarsi. Non ci si può fidare di nessuno se non del proprio lavoro, da questo l’attenzione maniacale, flaubertiana, alle virgole, al millimetro di testo, e l’odio per correzioni, censure, editing, gli scrupoli e il disdegno per le traduzioni (anzi, la traduzione in sé), l’insofferenza per editori e redattori. Per errori di calcolo più microscopici crollano strade e edifici; perché per un testo, ci chiede Céline, dovrebbe essere diverso?
Il treno sotterraneo di Céline, lanciato a velocità folli, tali da richiedere la massima precauzione di sicurezza (lo stile), è alimentato dall’energia letteraria di cui si diceva, l’odio. Magrelli ci invita a pensare alla ricca intertestualità nei suoi lavori come una contesa e una contestazione, un gesto di insolenza. Le sue riscritture sono attacchi, sfide a duello. Qualcuno l’ha definito un “accademismo alla rovescia”: entrare nel canone per ribaltarlo e parodizzarlo. Lo stesso argot in cui scrive è la lingua dell’odio, “fatto per permettere all’operaio di dire al suo padrone che lo detesta”, così Céline. Ma non gli si attribuiscano simpatie sinistrorse. Céline, nella sua interminabile lista nera, mette anche i comunisti, così come qualunque altra categoria, fino a “far convergere tutto il suo risentimento sulla figura dell’ebreo”, com’è noto.
Nel ricostruire l’odio di Céline, Magrelli non può infatti evitare di ricordarne l’antisemitismo – un sentimento, nel suo caso, di “portata astronomica”, talmente gargantuesco da risultare grottesco, insostenibile. Qualcuno ha cercato di dimostrare che non fosse solo un simpatizzante e un collaborazionista ma una “figura centrale del nazismo internazionale”. E Céline, sconfitto dall’esito della guerra e dalle vicende esistenziali, finirà non tanto per ritrattare il suo odio per gli Ebrei, ma per “odiare come loro”, facendo proprio quell’odio “senza limite” per l’esistenza che Nietzsche aveva loro attribuito, come spiega Magrelli.
Il punto, però, è forse un altro. Non importa affatto giustificare o contestualizzare l’opera o il pensiero di Céline, né cercare di mostrare come, in fondo, nella vita di tutti i giorni, non fosse poi così “malvagio”. Céline odia, odia consapevolmente e fa dell’odio la propria missione (“Vivo ancora più di odio che di pasta asciutta”, ammette in Da un castello all’altro); è facile immaginare l’odio che riserverebbe ai tentativi di riabilitarlo o salvarlo nel modo in cui intendiamo salvezza e riabilitazione. Céline spinge il suo odio verso l’abisso più profondo, vi trova il nazismo, se ne fa araldo. Nessuno scandalo, nessuna contraddizione. E, in ogni caso, “Se è forse una persona da poco, è certamente un grande scrittore”, come spiegava André Malraux (che di fascismo non può essere tacciato) a Claude Gallimard per convincerlo a pubblicare Céline.
È matematico che l’odio di Céline trovi in Proust il bersaglio perfetto. Quest’ultimo – borghese, benestante, mondano, dandy-écrivain, omosessuale, ebreo – è, come scrive Alessandro Piperno, l’“epitome di tutto ciò che Céline detesta”, e la sua Recherche, sette volumi di oltre tremila pagine finiti appena prima della morte, avvenuta cent’anni fa, è per Céline la summa di “un certo tipo di putrefazione letteraria” – di nuovo, borghese, omosessuale, ebraica, e dunque lenta, anale, analitica, eccessivamente raffinata e sofisticata. Un tipo di letteratura in francese (e dunque di lingua francese) che, secondo Céline, ha rovinato la cultura letteraria e lo stesso idioma nazionale, quello vitale e vitalistico di Villon e Rabelais e del suo argot.
Altro non sarebbe, per l’autore di Morte a credito e Nord, che “insipido sterco”, per quanto letto, studiato e riverito. Le analogie anali, escrementizie non finiscono qui: “trecento pagine per farti sapere che Tizio incula Tizio, è troppo” e, ancora, “roba da bagni pubblici”. Magrelli ci ricorda che Céline odiava le attenzioni, le monografie e gli omaggi che Proust, morto ben prima del suo esordio, riceveva in numero sempre crescente, fino all’approdo nella Pléiade da cui Céline fu escluso in vita (e tuttora non vi entra la sua opera omnia, che includerebbe i pamphlet antisemiti).
Tuttavia, Magrelli sottolinea che sia Proust, il dandy fattosi asceta (come peraltro moltissimi altri dandy), sia l’“ingombrante e impresentabile” Céline furono rifiutati in un primo tempo da Gallimard, l’editore che proprio per le loro opere, ripescate in un secondo momento, ha ottenuto fortuna, fama, prestigio. Fu sotto il segno di un ripensamento tardivo verso Proust che Gallimard divenne Gallimard, al punto che, come racconta l’autore ricostruendone la storia editoriale, chiunque, da quel momento in poi, abbia ambìto alla consacrazione sotto quest’etichetta ha dovuto fare i conti con l’eredità proustiana. Quale peggior nume tutelare per Céline…
Perché le differenze tra i due sono vistose e inconciliabili. La scrittura di Céline nasce dall’emozione, quella di Proust dal pensiero. Questi è apollineo, pensa per immagini; l’altro, dionisiaco, pensa in musica. Céline ha un’immediatezza a cui la parola fa da ancella (“All’inizio era il Verbo. No! All’inizio era l’emozione”) per preservarne, restituirne la melodia; il suo nemico, invece, è chiaramente un homme sans immédiateté. Uno si occupa delle persone di mondo, l’altro, come diceva in un’intervista, “delle persone che mi capitavano sotto gli occhi”. Stando a Piperno, uno complica la sintassi, l’altro la frammenta; uno racconta il proprio mondo nei panni del borghese ricco, nevrotico, classista, sedentario (come se stesso) che, dopo sette volumi divaganti, arriva a scoprire la propria vocazione letteraria (e la sua opera è quella che il lettore ha appena finito di leggere, in quel “movimento dell’opera verso se stessa” di cui parlava Maurice Blanchot); l’altro è un miserabile giramondo che vomita il proprio odio in un mondo apocalittico. Possiamo perciò parlare, con Magrelli, di “due distinti universi culturali” – incommensurabili, come si diceva in apertura.
Eppure, nota l’autore, non sono poche nemmeno le somiglianze. A partire dall’attenzione per i dettagli, le delicatezze stilistiche, le minuzie sartoriali. Stupirà, forse, se pensiamo alle celebri immagini di Céline a Meudon vestito pressoché di stracci, a Céline medico di indigenti e disperati, che si vantasse di essere un uomo dai gusti finissimi, attentissimo alla qualità, in grado di distinguere la batista dal pizzo valenciennes. I due condividono l’idea che “l’unica catastrofe”, come scrive Magrelli, “è il Tempo perduto”. E per Sartre, con la consueta miopia dell’engagé, erano i rappresentanti del peggior reazionarismo, chi di un tipo (borghese, elitista, privilegiato), chi dell’altro (virulento, popolaresco, filonazista).
La lista prosegue, tanto da far sospettare, sia per l’assoluta simmetria delle differenze, sia per la perfetta corrispondenza delle somiglianze, non solo che i due siano “le due facce di una stessa medaglia”, ma che addirittura l’opera omnia di Céline possa essere letta come la riscrittura – parodica, certo, e dissacrante – dell’“opera unica” di Proust. L’ipotesi, potente e scandalosa, è la seguente: “è lecito sostenere che Céline si sia dedicato a comporre, per tutta la sua vita, un ininterrotto, maniacale pastiche di Proust?”. Magrelli, per proporla, riprende le tesi e l’analisi, forse eccessivamente entusiastiche, di Jean-Louis Cornille (La haine des lettres. Céline et Proust, 1999), il quale vuole appunto Céline riscrittore di Proust in un “esercizio postumo di commemorazione blasfema”.
Il libro di Magrelli non vuole convincere né confutare. Attraversa la bibliografia sul tema con competenza e curiosità, evitando al contempo le illeggibilità dell’accademia. Spesso, addirittura, si ha l’impressione di trovarsi al margine del discorso, quando in realtà è proprio il margine stesso, con il suo andamento ora divagante ora circumambulante, a costituire il discorso vero e proprio (operazione, in questo senso, massimamente proustiana). Basti pensare che i cosiddetti scrupoli metodologici compaiono solo una volta passata la metà del volume, e numerose sono le parentesi in cui l’autore racconta, non senza divertimento, la genesi del suo libro; l’ipotesi verso cui il discorso tende, infine, è enunciata esplicitamente solo una trentina di pagine prima della conclusione. Informativo e ricco senza essere tedioso o eccessivamente minuzioso, La mente e l’odio non è né un testo accademico né un testo informale; si potrebbe piuttosto ricondurlo a un possibile filone di “divulgazione letteraria”, al pari della diffusa corrente di “divulgazione scientifica”. In un’epoca in cui il mondo accademico scrive per il mondo accademico (e frequentemente non viene letto neppure da se stesso) e il mondo culturale estraneo agli atenei spesso e volentieri è vittima del dilettantismo, questo lavoro si pone né da una parte né dall’altra, pur adoperando il meglio di entrambi gli orizzonti.
E – a proposito di mondi in apparenza lontanissimi – lo stesso Céline, al di là dell’odio e del feroce sarcasmo verso il rivale, in mezzo alle accuse di fare letteratura “semitica”, “talmudica”, “pederasta” e insomma insopportabile, ammette tuttavia che “Proust è un grande scrittore, è l’ultimo… È il grande scrittore della nostra generazione, diamine…”. Perché, nonostante tutto, in Proust scorge il segno della malattia della scrittura da cui è a sua volta affetto:
Se uno amasse la vita, perché dovrebbe trasformarla, eh? […] Se uno vive bene… fa l’avvocato… fa il medico… fa il… deputato, quello che gli pare… Prova piacere a vivere… Invece, se uno si diverte a raccontare storie, significa che sta sfuggendo dalla vita, no?, che la traspone…
“Solo chi soffre”, riconosce Magrelli, “scrive veramente, e lo fa appunto per trasporre la propria esistenza in un binario magico […] chiamato letteratura”. E Proust, in questo, è fraternamente il prossimo di Céline. Nessuno è più meritevole del nostro odio di chi più di tutti ci somiglia.