N ello scenario peggiore, un conflitto nucleare tra NATO e Russia causerebbe, in pochi anni dallo scoppio delle bombe, la distruzione del 90% della produzione alimentare mondiale attuale e, di conseguenza, cinque miliardi di morti.
Questi numeri sono contenuti in uno studio pubblicato poche settimane fa su Nature Food da un team internazionale che comprende esperti di diverse università statunitensi ed europee e ricercatori della NASA, che hanno elaborato alcune stime relative all’inverno nucleare che deriverebbe dall’impiego di armi atomiche da entrambe le parti contrapposte. Nel 2020, lo stesso gruppo aveva lavorato su un’altra previsione, l’ipotesi di una guerra nucleare tra India e Pakistan, che può portare al 50% della riduzione della produzione alimentare e, conseguentemente, a due miliardi di morti.
Per giungere alle loro conclusioni, i ricercatori sono partiti da diverse serie di dati. Innanzitutto, quelli dell’eruzione vulcanica considerata la peggiore della storia, avvenuta nel 1815 sul monte Tambora in Indonesia: nell’anno seguente, la cenere dispersa in atmosfera oscurò la luce del Sole provocando poi un anno senza estate, cui fecero seguito diversi anni di carestie e fame in tutto il mondo, con picchi di mortalità in moltissimi Paesi. I ricercatori hanno poi studiato le valutazioni fatte al tempo di due delle crisi peggiori della storia contemporanea (in cui erano presenti armi atomiche): quella della Baia dei porci di Cuba del 1962, e quella di Able Archer, quando l’Unione Sovietica scambiò un’esercitazione militare della NATO per un attacco reale, arrivando vicinissima a rispondere. Quindi hanno immerso il tutto nello scenario attuale, aggiornando i numeri sugli allevamenti, le coltivazioni, la pesca, le acquacolture, le filiere internazionali, avvalendosi anche di parte dei modelli in uso per valutare le conseguenze del riscaldamento globale.
I numeri di questi studi devono far riflettere sulla realtà concreta di un’ipotesi oggi considerata possibile, e oggetto di dibattiti che non sembrano tenere nella giusta considerazione la banalità del male atomico.
Hanno così calcolato che le esplosioni provocherebbero immissioni in atmosfera di quantità di polveri e fuliggine derivanti dagli incendi e dai crateri comprese tra 5 e 150 milioni di tonnellate. Questa immensa quantità di materiali oscuranti e tossici filtrerebbero – fino a eclissarlo del tutto – l’irraggiamento solare, sconvolgerebbero il sistema delle piogge e farebbero crollare la temperatura. Tutto ciò si tradurrebbe in una drastica riduzione della produzione delle calorie derivanti da soia, mais, riso, avena e pesce e, di conseguenza, in una perdita netta di calorie disponibili, anche nel caso in cui il commercio mondiale fosse interrotto, e ogni paese producesse e distribuisse al meglio delle sue possibilità ai propri cittadini tutto il cibo di cui dispone.
Si tratta, in tutta evidenza, di approssimazioni, perché le variabili da tenere in considerazione (quali, per esempio, il coinvolgimento di altre potenze nucleari o il tipo di ordigno impiegato), per prevedere le dimensioni della catastrofe successiva a una guerra atomica sono troppe, e oltretutto nello studio non sono stati inclusi fattori quali il ruolo diretto delle radiazioni, quello dei raggi ultravioletti o quello dell’ozono, e molto altro: gli stessi autori lo sottolineano più volte, anche se ritengono che l’ordine di grandezza sia plausibile, per la situazione peggiore. Ma il loro scopo, scrive Science, è soprattutto quello di far riflettere sulla realtà concreta di un’ipotesi oggi considerata possibile, e oggetto di dibattiti che non sembrano tenere nella giusta considerazione la banalità del male atomico. Anche nel caso di uno scenario meno definitivo, e cioè quello che prevede “soltanto” un incidente in una delle decine di centrali nucleari presenti sul suolo ucraino, nessuno potrebbe controllare i danni, che si estenderebbero inesorabilmente anche al o ai paesi vicini, se non all’intero pianeta.
Questo studio non ha occupato le prime pagine dei media di tutto il mondo, come ci si sarebbe potuto aspettare, forse proprio perché si tratta di stime, o per la cecità cognitiva che impedisce alle persone di valutare correttamente rischi di così ampia portata. Riportando però il discorso teorico su un terreno concreto, e cioè osservando che cosa è successo nei due peggiori incidenti degli ultimi decenni, quello di Chernobyl del 1986 e quello di Fukushima del 2011, è possibile forse comprendere meglio che cosa accadrebbe nel caso di una dispersione di radioattività da parte di una centrale. E questa è forse l’unica cosa che si può fare per spingere un’opinione pubblica oggi distratta a diventare più consapevole, e a opporsi più attivamente a scelte scellerate che mettono a rischio l’esistenza stessa del genere umano.
Sarebbe urgente farlo, perché, come continua a ripetere il direttore generale dell’AIEA, Rafael Mariano Grossi, la catastrofe è possibile: peggio, probabile. Su Chernobyl, nei 36 anni trascorsi da quel 26 aprile, sono state condotte numerose indagini e analisi, sia sulla popolazione coinvolta, sia sull’ecosistema della zona rossa, che comprende un’area di 30 km di diametro attorno alla centrale, sia in quello della zona di esclusione, molto più vasta e, in parte, nuovamente popolata. Finora, il rapporto più completo, redatto dal Forum Chernobyl, patrocinato dall’ONU, è intitolato L’eredità di Chernobyl: impatto sanitario, ambientale e socio-economico. Nonostante siano ormai datate (sono del 2006), quelle 600 pagine raccolte in tre volumi, stilate da un centinaio di esperti di medicina, sanità ed economia delle più importanti agenzie sanitarie ed economiche del mondo, resta un punto di riferimento, ed è stato confermato da numerosi studi successivi, sui singoli aspetti.
Per quanto riguarda la malattia più direttamente associata all’esposizione alle radiazioni (se si escludono i danni acuti), il cancro papillare della tiroide, in quel momento almeno 4.000 casi erano attribuibili direttamente all’incidente, con nove decessi; in seguito la stima è salita a 9.000. Due studi pubblicati su Science nel 2021 hanno poi chiarito ulteriori dettagli: nel primo, nel quale è stato sequenziato il genoma di 400 ucraini della zona, è stato chiarito il tipo di danno al DNA, ovvero una rottura della struttura della doppia elica molto difficile da riparare, mentre nel secondo è stato valutato il rischio nei figli di 105 di quelli che allora erano i bambini di Chernobyl, e che oggi sono genitori. Il risultato è stato che nella prole compaiono delle mutazioni non presenti nelle generazioni precedenti, ma nel complesso il rischio è basso.
Tuttavia, ricorda ancora il rapporto, ci sono aspetti spesso sottovalutati, in realtà più gravi dell’aumento del rischio di patologie fisiche specifiche: quelli associati al pesante prezzo psicologico che i cinque milioni di sopravvissuti, gli sfollati (350.000), le persone rientrate a vivere nella zona a rischio (100.000) portano con sé. Aspetti che del resto lo storico e psichiatra Robert Jay Lifton, nel suo libro Death in Life: Survivors of Hiroshima, che gli valse il National Book Award nel 1969, aveva riassunto come “una perenne immersione nella morte”. Anche prima della guerra, moltissimi ucraini, bielorussi e russi delle zone più direttamente coinvolte dalle tensioni geopolitiche presentavano quello che è stato definito “fatalismo paralizzante”, che per anni ha compromesso l’efficacia dei programmi di riabilitazione e assistenza sociale varati dai diversi paesi.
Dopo uno stop ai generatori a Zaporizhzhia sarebbero sufficienti tra i 30 minuti e le due ore al massimo per innescare un’esplosione e una fusione del nocciolo, con formazione di corio.
Ma se le indagini effettuate finora restituiscono un quadro forse meno tragico di quello ipotizzato nei primi mesi per quanto riguarda la salute, i danni all’ambiente e alla produzione di cibo sono definitivi, per la zona rossa, e tuttora molto preoccupanti per decine di chilometri all’esterno di essa: anche senza arrivare agli scenari dello scontro atomico, la contaminazione continua a fare danni per decenni proprio sulla catena alimentare. Così, se lo iodio 131 inizialmente rilevato ormai è decaduto, altri isotopi come il cesio e lo stronzio sono lì per restare. E sono ovunque. Uno studio patrocinato da Greenpeace, condotto dai ricercatori dell’Università di Exeter, in Gran Bretagna, e pubblicato su Environment International nel 2018, ha quantificato i livelli di cesio 137 nel latte vaccino: eccedevano i limiti di sicurezza di cinque volte, e tali rimarranno almeno fino al 2040, salvo azioni specifiche di bonifica. Lo stesso si vede nei cereali (tra i quali avena, frumento, segale e orzo ) e nella legna da ardere, usatissima nella zona, oggetto della seconda parte dello studio). In metà dei campioni c’erano quantità di stronzio 90 e di cesio 137 superiori ai limiti, senza nessuna tendenza alla diminuzione. Non solo. Tre quarti dei campioni prelevati dagli alberi (nella maggior parte dei casi pini) hanno dato anch’essi valori fuori dai limiti. Del resto, nessuno dei campioni di cenere prelevati dalle abitazioni e utilizzata anche come fertilizzante è risultato esente da contaminazioni radioattive, che in un caso si sono rivelate 25 volte più concentrate rispetto a quanto misurato nei tronchi dei pini della stessa zona.
Le persone tornate a vivere nelle aree contaminate avevano continuato a tenere comportamenti a rischio come raccogliere e bruciare in casa la legna contaminata, per poi disperderne le ceneri nel terreno da fertilizzare: un circolo vizioso infernale. Lo facevano, secondo il rapporto dell’OMS, per mancanza di informazioni, e anche, appunto, per quel “fatalismo paralizzante”, quella vita nella morte che probabilmente è davvero l’eredità più avvelenata della fusione del reattore 4. Inoltre, resta preoccupante la situazione dei funghi, delle bacche e dei licheni, arrivata fino alle regioni artiche e subartiche di Russia, Norvegia, Svezia e Finlandia, e presente ancora oggi nella carne delle renne selvatiche, la cui caccia è severamente limitata ad alcuni periodi dell’anno.
Sull’incidente di Fukushima non ci sono ancora dati così completi, ma quelli pubblicati dal Forum (analogo a quello di Chernobyl) e dal governo vanno in una direzione non molto diversa: i danni alla salute sono stati contenuti, almeno per quanto si sa a oggi, e grazie al trasferimento di 150.000 persone. Ma i contraccolpi psicologici derivanti, in quel caso, soprattutto dal divieto dell’attività cui la zona era legata da millenni di tradizioni, ossia la pesca, sono stati devastanti. Per questo le comunità locali, che pure da allora eseguono campionamenti continui di frutta e verdura, pesce, latte, riso, e molti altri alimenti, si oppongono allo sversamento in mare delle acque contaminate deciso dal governo: temono di tornare allo stigma e al crollo delle vendite di pesce vissuti per anni dopo l’incidente.
Se la centrale di Fukushima è stata messa in relativa sicurezza, per Chernobyl, inoltre, com’è noto, è tornata la paura, plasticamente concretizzata nelle trincee che l’esercito russo ha scavato nella zona rossa ai primi di marzo, contaminando gravemente decine di soldati, anche perché tutte le azioni messe in campo per contenere i rischi di ulteriori fusioni del nocciolo, o di perdita di materiali, compresa la ricostruzione del sarcofago ultimata nel 2016, non sono state pensate per uno scenario di guerra. Secondo Vadim Chumac, prima della guerra responsabile del monitoraggio della centrale, intervistato dalla MIT Review, tra il 9 e il 14 marzo c’è stata un’interruzione di corrente che ha fermato i ventilatori che tengono l’idrogeno radioattivo all’interno del sarcofago, e che fanno funzionare i sensori delle polveri contaminate.
Si è rischiata una catastrofica esplosione, perché all’interno sono depositate 8.500 tonnellate di uranio, una quantità di cesio 137 che, per il decadimento radioattivo, è 240 volte superiore a quella del 1986, una di stronzio 90 è 1.500 volte più alta, oltre a zirconio, americio e altri materiali contaminati e fusi insieme in quello che viene definito il piede d’elefante o corio. Il corio, che nella storia dell’energia atomica si è formato solo a Tree Miles Island nel 1979, e tre volte a Fukushima, è una specie di lava costituita da una miscela indefinita di isotopi talmente radioattivi da uccidere chiunque si trovi in sua presenza entro un paio di minuti. Oggetto di una celeberrima e unica foto rivenuta per caso negli anni Novanta il cui autore, Artur Korneyev, per motivi che nessuno ha mai saputo spiegare, non è morto (e potrebbe essere ancora vivo, unico caso al mondo), è tracimato solo una volta: a Chernobyl. E non si tratta di un precedente rassicurante.
Quando gli ispettori nucleari riuscirono finalmente a entrare all’interno del reattore, diversi mesi dopo l’esplosione, scoprirono infatti che 11 tonnellate si erano depositate in una massa grigia larga tre metri, all’angolo di un corridoio di distribuzione del vapore sottostante. La quale sembrava, appunto, la zampa di un mostruoso elefante. Nel tempo la zampa si è raffreddata e si è rotta, e il materiale sta decadendo. Ma è ancora lì, a ricordare che cosa accade quando le linee elettriche non funzionano.
Anche per quel precedente, secondo Anthony Burke, docente di Environmental Politics and International Relations alla School of Humanities and Social Sciences della University of New South Wales di Canberra, autore di un preoccupato e dettagliato articolo pubblicato su Nature, dopo uno stop ai generatori a Zaporizhzhia sarebbero sufficienti tra i 30 minuti e le due ore al massimo per innescare un’esplosione e una fusione del nocciolo, con formazione di corio. E praticamente tutti gli altri impianti ucraini, dei quali non è noto neppure il numero preciso, per non parlare delle condizioni di manutenzione o dei sistemi di sorveglianza, corrono rischi simili. “La Russia, l’Ucraina e quasi tutti i paesi dell’Europa centro-orientale si potranno considerare fortunati se la guerra finirà senza incidenti. Ma settant’anni dopo che il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower ha dichiarato l’inizio dell’era dell’atomo pacifico, il mondo si dovrebbe vergognare di dipendere dalla fortuna” ha scritto. La situazione è talmente grave, ha concluso Burke, che tutti i paesi limitrofi si devono preparare: il calcolo delle probabilità non è favorevole, e la questione non è se, ma quando, e dove.
Già, prepararsi. Ma come? Come ha ricordato un rapporto dell’ICAN (international Campaign to Abolish Nuclear Weapons) ripreso da Lancet, per quanto si cerchi di predisporre il possibile, non c’è molto che gli ucraini possano fare: le loro strutture sanitarie sono già “in ginocchio”, moltissimi ospedali sono distrutti o ridotti a un’operatività minima, decine di medici e infermieri sono stati uccisi e le vie di comunicazione, indispensabili per eventuali evacuazioni, interrotte. anche se i paesi confinanti, anche se sono in una situazione migliore, hanno sistemi sanitari e di protezione civile già sotto uno stress enorme, a causa dei profughi ucraini. La preparazione evocata si riduce quindi a un consiglio: in caso di contaminazioni, non cercare di fuggire, ma rinchiudersi in casa o nei rifugi, presenti in tutta l’area ex sovietica aspettando che arrivi qualcuno in grado di evacuare la zona colpita.
A Chernobyl, la natura si sta adattando a una velocità lontanissima da quella con cui Homo sapiens recepisce i cambiamenti dell’ambiente.
Intanto, a Chernobyl, la natura si sta adattando a una velocità lontanissima da quella con cui Homo sapiens recepisce i cambiamenti dell’ambiente. Nel giro di pochi anni, infatti, le rane Hyla orientalis sono diventate nere, perché la melanina protegge dalle radiazioni, e gli individui che avevano quel carattere vantaggioso sono diventati dominanti. Lo stesso hanno fatto i funghi Cladosporium sphaerospermum, trovati per la prima volta nel 1991 nelle vasche del reattore 4, capaci di fare la radiosintesi, cioè, letteralmente, di nutrirsi di radiazioni, al punto che alcune delle 200 specie identificate da allora si stanno studiando sulla Stazione Spaziale Internazionale come potenziale scudo dalle radiazioni cosmiche (uno dei limiti principali alla permanenza dell’uomo nello spazio). Tutta la zona rossa e quella di esclusione, sono diventate straordinarie oasi di biodiversità, con il ritorno degli orsi, dei bisonti, delle linci e di decine di specie a rischio, e dal 2016 erano anche zone con un flusso turistico regolamentato, che aveva lo scopo di ridare un po’ di ossigeno all’economia locale, asfittica e depressa come le persone che, a differenza degli anfibi, non si sono mai adattate alla convivenza con l’atomo e le sue conseguenze.
Non lo hanno mai fatto neppure gli abitanti di Hiroshima. Una di loro, Akiko Takakura, nel 1945 aveva vent’anni, e al momento dell’esplosione stava lavorando in banca a 300 metri dal cratere: è una delle dieci persone che si trovavano entro 500 metri e che sono sopravvissute. Nel 2018, a 92 anni, ha prestato la sua voce a Obon, un film di animazione di 15 minuti in cui ha raccontato che cosa ha significato, per tutta la sua vita, essere un’hibakusha, cioè una sopravvissuta a un’esplosione nucleare.